
Sugli incontri ecumenici sorge sempre una domanda: “Chi invita per primo?”. Può sorgere anche tra di noi questa domanda in merito a quell’incontro tra Paolo VI e Atenagora che vogliamo ricordare a sessant’anni dalla sottoscrizione della Dichiarazione comune. Ma su chi sia stato il primo a prendere l’iniziativa, in fondo in fondo, non è facile essere sicuri.
Recentemente il card. Kurt Koch, Prefetto del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ha risposto bene a questo dilemma: “Il vero ministro ecumenico è lo Spirito Santo. Non conosco però con esattezza i suoi tempi, così come le possibili sorprese di papa Francesco”[1]. La discussione sul primo passo non porta più lontano dell’annoso dibattito sul primato petrino del Papa, ma non sarà questo l’oggetto della nostra relazione. Vediamo questi due grandi uomini: Paolo VI e Atenagora.
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Di questi tempi si parla spesso di processi: nel nostro ambito ecumenico dobbiamo riconoscere che il Concilio vaticano II ha aperto la strada a nuovi sviluppi con un approccio più pastorale e meno teologico, meno improntato anzitutto “alla ricetta” e più al provare “a fare”. Infatti, l’abbraccio tra Paolo VI e Atenagora rappresenta un esempio chiaro di ecumenismo non teorico ma della carità, perché loro stessi hanno preferito lasciare da parte le diatribe teologiche che negli anni e secoli precedenti avevano occupato molte energie. L’abbraccio è l’incipit per avviare poi certamente ragionamenti e riflessioni teologiche. Possiamo capirlo dallo studio di Andrea Riccardi sul patriarca Atenagora:
Il patriarca credeva fermamente che non si potesse affidare la ricerca dell’unità dei cristiani solo al dialogo intellettuale e teologico sulla verità: “Per secoli vi sono state conversazioni tra teologi… D’altra parte i capi di Chiesa hanno lasciato svolgersi tali conversazioni senza mai coinvolgersi personalmente. Ora occorre cambiare metodo. Iniziare dalla vita e dall’amore, sostituire la teologia con l’amore e la vita che deve esprimere”. Ci voleva un impegno diretto dei capi delle Chiese, che ricollocasse la teologia nell’amore e nella vita ecclesiale.[2]
Da parte cattolica, invece, già Papa Giovanni XXIII aveva introdotto un approccio diverso alla storia della Chiesa, meno teologico e più pastorale. Lui era stato nunzio apostolico in Bulgaria e aveva conosciuto da vicino la Chiesa ortodossa. Così lui in prima persona e poi il Concilio hanno dato una svolta radicale alla posizione cattolica, riconoscendo ufficialmente i sacramenti ortodossi e la grazia salvifica che comunicano.
Si può dire che in seguito siano stati Paolo VI e Atenagora a portare le loro chiese al massimo della riconciliazione con il loro abbraccio fraterno.[3] Da questo punto si può camminare insieme, senza dimenticare gli errori del passato, fatti con le reciproche scomuniche che hanno sigillato lo scisma nel 1054. È una data convenzionale, perché possiamo capire che non ci si divide da un giorno all’altro: le vicende politiche erano iniziate prima e si sono concluse intorno al 1200 con la scomparsa dei greci nel sud Italia per l’espansione della presenza della Chiesa latina.
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Due erano i passi da fare per riconciliarsi e trovare l’unità, senza obbligare all’omogeneità: riconoscersi reciprocamente come Chiesa di Cristo e arrivare alla comunione del calice, cioè alla comune eucarestia. Si prevede tanto tempo affinché lo Spirito, il “vero ministro ecumenico”, possa fare i passi necessari per una intesa.
Era un giorno ben preciso quello in cui Papa Paolo VI si trovava a Gerusalemme e decise di incontrare il Patriarca Atenagora, lui pure in Terra Santa. Era il 5 gennaio 1964 alle ore 21.30, questo è indimenticabile! Questi due uomini grandi nell’animo e nella fede cristiana si sentirono alla presenza di Dio e condivisero lo stesso desiderio “di fare avanzare le vie di Dio”, non le ideologie degli uomini. Dimostrarono una grande stima reciproca e attribuirono alla Provvidenza la volontà di questa convocazione dove il Signore ha donato la sua vita e generato la Chiesa una, da sangue e acqua.
Atenagora sottolineò: “Ci è stato fatto il dono di questo grande momento; noi perciò resteremo insieme. Cammineremo insieme”. Con un’espressione simpatica rivelò poi con quale appellativo chiamava Paolo VI: “Il papa dal grande cuore, O megalokardos. Da parte sua, il papa, azzardò una proposta che avrebbe potuto scardinare quella che lui definì “una psicologia”, cioè, auspicò che si potessero delegare alcune persone per continuare questo dialogo fraterno con approfondimenti teologici e gesti di fiducia. Il patriarca fu pienamente d’accordo e addirittura confessò: “sono sicuro che noi saremo sempre insieme”.
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L’incontro immortalato in quel preciso giorno e orario è un sandwich di tanti buoni prodotti che vengono messi insieme non per amalgamarsi e sciogliersi, ma per esaltare i loro sapori. Tutto ciò non si improvvisa: lo ha favorito certamente la partecipazione del patriarca Atenagora al Concilio Vaticano II in veste di osservatore. Si è aggiunta poi la revoca da ambo le parti delle scomuniche del 1054. Questo ha eliminato i dis-sapori per lasciare spazio ai sapori.
L’abbraccio ha permesso dopo breve tempo di incidere questi stati d’animo, questa fede in Dio e la fiducia reciproca con una Dichiarazione comune cattolico-ortodossa nel 1965. Venne letta contemporaneamente a Roma e a Costantinopoli il 7 dicembre. Si dichiarava che “lo scambio di scomuniche avvenuto nel lontano 1054 tra Leone IX e il patriarca Michele Cerulario dovesse essere inteso tra due persone interessate, non fra le Chiese, e che tali documenti non intendevano rompere la comunione ecclesiastica”[4].
Troviamo una ulteriore conferma del loro ecumenismo della carità: entrambi hanno conservato il loro progetto iniziale senza trascurare alcun atto ispirato dalla carità al fine di facilitare i rapporti fraterni. Diventa assai evocativo di questo rapporto fraterno il versetto di Matteo: “Quando presenti la tua offerta all’altare, se là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello” (Mt 5,23-24).
Ne consegue la più recente “teologia fatta in ginocchio” coniata da Papa Francesco in occasione degli incontri con il Patriarca Bartolomeo. Sottende quindi una chiusura con le discussioni del passato in cui “grandi eruditi approfondivano episodi storici e termini teologici all’unico scopo di dimostrare l’errore dell’altro e non per incontrarsi e camminare insieme spinti dall’azione dello Spirito”[5].
Possiamo dire che il primo punto sia stato raggiunto: le due Chiese si riconoscono reciprocamente come Chiesa di Cristo. Rimane aperta la comunione all’unico calice.
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Su questo tema ancora in sospeso, la comunione all’unico calice, era impaziente Chiara Lubich. Ufficialmente dal 1729 era stato proibito di prendere parte al medesimo calice, quindi alla piena comunione nella carità. Secondo la Lubich era invece di fondamentale importanza capire “come attraverso la carità si potrebbe arrivare all’unità nella verità”, quindi anche eucaristica.
Così lei è andata a incontrare il patriarca a Costantinopoli otto volte, intrattenendosi con lui in colloqui molto animati dallo spirito di unità. Ha compreso l’approccio che si era scelto di dare alla riconciliazione: lasciare le differenze teologiche in mano ai teologi per restare nella linea pastorale. Secondo i prelati vaticani, però, Chiara era ingenua e non aveva capito bene come la pensasse Atenagora. Tuttavia, questa donna coraggiosa fece giungere a Paolo VI un messaggio a nome del patriarca: “Perché non ritorniamo allo stesso calice?”.
Possono sembrare parole dette da un amico: infatti Olivier Clement ha descritto il tatto del patriarca Atenagora come un tentativo amichevole di forzare quelle categorie che hanno irrigidito entrambe le nostre Chiese. Scriveva così: “il patriarca va dritto all’amico, lo abbraccia, preme la testa sulla sua spalla, lo prende per mano con autorità”; nonostante fosse un’autorità, traspariva una grande umanità che, unita al suo linguaggio, disorientava il campo ecumenico e la sua diplomazia.
Ci sarebbe stata un’occasione propizia per condividere lo stesso calice nel 1968 a Roma, ma per il Segretariato per l’unità dei cristiani non sarebbe stato prudente fare questo passo, così il card. Willebrands e padre Duprey sconsigliarono a Paolo VI una simile azione. Gli storici come Alberto Melloni parlano di “intercomunione inaccaduta” ma secondo Andrea Riccardi “se nel 1968 si fosse fatto quel passo, nonostante alcune reazioni critiche delle Chiese ortodosse, l’ecumenismo avrebbe preso una strada assai più efficace”[6].
Paolo VI fu molto colpito da Chiara Lubich e la incoraggiò a continuare, perché – diceva lui – bisogna sempre fare la volontà di Dio, anche se la risoluzione di questa separazione dovesse avvenire in tempi lunghi. Probabilmente lui ha ceduto il testimone al Segretariato per l’unità dei cristiani, concedendo più spazio all’ecumenismo di diplomatici e accademici, piuttosto di assecondare quelli che come la Lubich erano volgarmente chiamati dalla curia romana “pontieri”[7].
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Il carisma di questa donna, come quello di molti altri appassionati all’unità dei cristiani pareva aprire spiragli di opportunità nuove, così come erano stati sorprendenti pure i gesti del Papa e del Patriarca. Purtroppo, l’intercomunione, cioè la comunione nella stessa celebrazione eucaristica insieme, che sembrava imminente non ha trovato spazio; alcuni anni dopo, nel 1979[8], Giovanni Paolo II e il patriarca Demetrio hanno istituzionalizzato il dialogo ecumenico teologico, pensando di risolvere lo scisma ecclesiale con la teologia, cosa che in quell’incontro a Gerusalemme era stata messa in secondo piano.
Giovanni Paolo II nel 2003 in Ecclesia de Eucharistia puntualizzava quale atteggiamento fosse più conveniente per i cattolici al fine di non illudersi di avere raggiunto la piena comunione, poiché l’ecumenismo teologico aveva bisogno di tempo per spiegare come il ruolo del vescovo di Roma potesse essere in qualche modo riconosciuto anche dagli ortodossi.
I fedeli cattolici, pertanto, pur rispettando le convinzioni religiose di questi loro fratelli separati, debbono astenersi dal partecipare alla comunione distribuita nelle loro celebrazioni, per non avallare un’ambiguità sulla natura dell’Eucaristia e mancare, di conseguenza, al dovere di testimoniare con chiarezza la verità.
Ciò finirebbe per ritardare il cammino verso la piena unità visibile. Similmente, non si può pensare di sostituire la Santa Messa domenicale con celebrazioni ecumeniche della Parola o con incontri di preghiera in comune con cristiani appartenenti alle suddette Comunità ecclesiali oppure con la partecipazione al loro servizio liturgico. Tali celebrazioni ed incontri, in se stessi lodevoli in circostanze opportune, preparano alla desiderata piena comunione anche eucaristica, ma non la possono sostituire. (Ecclesia de Eucharistia 30)
La comunione ecclesiale dell’assemblea eucaristica è comunione col proprio Vescovo e col Romano Pontefice. Il Vescovo, in effetti, è il principio visibile e il fondamento dell’unità nella sua Chiesa particolare. Sarebbe pertanto una grande incongruenza se il Sacramento per eccellenza dell’unità della Chiesa fosse celebrato senza una vera comunione col Vescovo. (Ecclesia de Eucharistia 39)
Il sogno della comunione eucaristica all’unico calice rimane irrealizzato, anche se sappiamo che da parte cattolica c’è accoglienza nei confronti delle persone che si trovano impossibilitate a raggiungere le proprie chiese di appartenenza.
Si è affrontato, recentemente, uno studio sul primato petrino, di cui ha rilasciato una intervista il card. Kurt Koch[9]: auspichiamo che da qui si apra la possibilità di completare i due passi per una piena comunione ecclesiale. Aspettiamo nel frattempo che si faccia strada un nuovo ecumenismo della carità, in grado di dare parole nuove e giuste all’ecumenismo teologico.
- Relazione svolta nel ciclo di incontri ecumenici 2025 promosso dalla Abbazia di Maguzzano (BS).
Bibliografia
A. RICCARDI, Il professore e il patriarca, Jaca Book, Milano 2018.
A. RICCARDI, Italia carismatica, Morcelliana, Brescia 2021.
L. ANTINUCCI – E. SCOGNAMIGLIO, Il sogno dell’unità, Elledici, Torino 2018.
A. GABRIELLI – G. MESSUTI (a cura di), L’unità si fa camminando, Ecumenica ed., Bari 2018.
L. RING-EIFEL (a cura di), Koch sul cammino ecumenico, https://www.settimananews.it/ecumenismo-dialogo/koch-sul-cammino-ecumenico/ (11/02/2025).
[1] L. RING-EIFEL (a cura di), Koch sul cammino ecumenico, https://www.settimananews.it/ecumenismo-dialogo/koch-sul-cammino-ecumenico/ (11/02/2025)
[2] A. RICCARDI, Il professore e il patriarca, Jaca Book, Milano 2018, p.168
[3] Cfr. A. GABRIELLI – G. MESSUTI (a cura di), L’unità si fa camminando, Ecumenica ed., Bari 2018, p.57
[4] L. ANTINUCCI – E. SCOGNAMIGLIO, Il sogno dell’unità, Elledici, Torino 2018, p.132-133
[5] A. GABRIELLI – G. MESSUTI (a cura di), L’unità si fa camminando, Ecumenica ed., Bari 2018, p.60
[6] A. RICCARDI, Italia carismatica, Morcelliana, Brescia 2021, p.114
[7] Cfr. A. RICCARDI, Italia carismatica, Morcelliana, Brescia 2021, p.115
[8] A. GABRIELLI – G. MESSUTI (a cura di), L’unità si fa camminando, Ecumenica ed., Bari 2018, p.57
[9] L. RING-EIFEL (a cura di), Koch sul cammino ecumenico, https://www.settimananews.it/ecumenismo-dialogo/koch-sul-cammino-ecumenico/ (11/02/2025)






Trovo molto discutibile, per non dire altro, che oggi un credente non possa ricevere la comunione in una celebrazione dei fratelli ortodossi. La comunione non è col proprio vescovo o il vescovo di Roma. E’ al corpo di Cristo e comunione tra e con i fratelli, e ha precisi significati. E non può essere usata come mezzo per separare, anzi è gravissimo che lo si sia storicamente preteso. Speriamo che le persone diventino più capaci di critica verso erronee/cattive concezioni che sono state inculcate da secoli ai credenti. I papi sbagliano come chiunque. Anche su queste cose. Mi auguro che studiando le persone se ne rendano conto.
Paolo VI e Atenagora: fu uno storico incontro e un meraviglioso gesto di pace e riconciliazione fra le loro due chiese. E per quanto mi riguarda non vedo alcun motivo per cui i fedeli di una chiesa non dovrebbero partecipare alle celebrazione dell’altra, anzi partecipare è la dimostrazione migliore del fatto che anche le divisioni più profonde si possono e si devono superare. Questo è segno di amicizia nel rispetto gli uni per gli altri ed è bellissimo.
Auspichiamo .. Aspettiamo .. che cosa ? Di diventare ridicoli del tutto ?