Donna, diaconato e il Dio maschilizzato

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«La mascolinità di Cristo, e quindi la mascolinità di coloro che ricevono l’Ordine, non è accidentale, ma è parte integrante dell’identità sacramentale, preservando l’ordine divino della salvezza in Cristo. Alterare questa realtà non sarebbe un semplice aggiustamento del ministero, ma una rottura del significato nuziale della salvezza».

Torniamo brevemente, senza alcuna pretesa di esaustività sotto il profilo teologico, sulla proposizione maggiormente divisiva per la seconda Commissione di studio sul diaconato femminile, secondo quanto riferisce la lettera del suo presidente card. Giuseppe Petrocchi a papa Leone.

Dal testo della lettera si evince l’occorrenza di ulteriori tesi polarizzanti gli esiti delle votazioni: le tesi 5A, 5B e – in misura minore – 5C hanno evidenziato due opposti e speculari orientamenti in seno alla Commissione stessa. In esse, con diverse gradazioni e iuxta modum, ciascun membro è stato chiamato a esprimere la propria posizione personale in merito all’ipotesi di introduzione del diaconato femminile, inteso come terzo grado del sacramento dell’Ordine.

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Focalizzando l’attenzione sulla tesi enunciata in avvio, è possibile evidenziare – accanto al tema ministeriale – un rilevante spunto di riflessione di carattere cristologico e teologico, rimasto sullo sfondo rispetto all’attualità del vivace dibattito ecclesiale intorno al ministero diaconale e la possibile (ri)apertura del medesimo alle donne.

La perplessità si potrebbe, (forse troppo) semplificando, così formulare: “Non è che, nello zelo di salvaguardare in ogni modo e ad ogni costo la maschilità del ministro ordinato, si finisce per affermare qualcosa di riduttivo su Dio?”.

Il paragrafo in questione (che ha ottenuto 5 placet e 5 non placet) contiene, infatti, anche una forte tesi cristologica: «La mascolinità di Cristo – si afferma – non è accidentale, ma è parte integrante dell’identità sacramentale, preservando l’ordine divino della salvezza in Cristo».

La teologia recente (es. Karl Rahner) riconosce, con Agostino, in Gesù Cristo il sacramento primordiale (Ur-Sakrament), e nella Chiesa – per analogia con il Verbo incarnato e in linea con Lumen Gentium 1 – il sacramento fondamentale (Grund-Sakrament).

Nel recente documento della Commissione Teologica Internazionale La reciprocità tra fede e sacramenti nell’economia sacramentale, si legge (n. 30): “Gesù Cristo è il sacramento primordiale (Ur-Sakrament) e la chiave della struttura sacramentale della storia della salvezza. In sintesi, in Gesù Cristo scopriamo che l’economia divina della salvezza, in quanto incarnata, è sacramentale. In Gesù Cristo, quale culmine della storia e pienezza del tempo salvifico (cf. Gal 4,4), si ha la più stretta unione possibile tra un simbolo creaturale, la sua umanità e ciò che è simbolizzato: la presenza salvifica di Dio, nel suo Figlio, in mezzo alla storia. L’umanità di Cristo, in quanto umanità inseparabile dalla persona divina del Figlio di Dio, è ‘simbolo reale’ della persona divina. In questo caso supremo, il creato comunica al massimo grado la presenza di Dio” (si leggano anche i numeri 31.32.33).

La tesi sottoposta a votazione dalla Commissione utilizza categorie aristoteliche per affermare che la mascolinità di Cristo è, in qualche modo, “ipostatica” – sostanziale (=non accidentale) dell’identità sacramentale: cioè della riconoscibilità in Gesù Cristo del sacramento reale della Persona divina del Figlio. Tanto sostanziale, da far dipendere da essa addirittura “l’ordine divino della salvezza in Cristo”.

La proposizione costituisce senza dubbio affermazione assai impegnativa sotto il profilo cristologico, soteriologico e teologico.

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Affidandoci con sicurezza ai concili cristologici della Chiesa indivisa (non ce ne voglia Mancuso), riconosciamo nella fede che l’identità personale più profonda e unitaria di Cristo Gesù vero uomo è la Persona del Figlio eterno: eternamente generato e amato dal Padre eternamente generante e amante, nel seno della Trinità. È il Figlio eterno che dice “Padre” quando – nella sua umanità pienamente assunta per opera dello Spirito, nella sua corporeità, anima e volontà umane – Gesù dice “Padre”.

Gesù, Figlio dell’uomo, è vero ànthropos avendo assunto pienamente l’umanità (la “carne”: Gv 1,14): tutto l’umano. Essere umano incarnato – come ogni creatura umana – anche nella caratterizzazione sessuata, vissuto nella storia e radicato in un popolo, nella sua cultura, lingua e tradizioni.

Precisamente – ecco la “pretesa” (Anspruch) cristiana – in questa vicenda umana storica personale si manifesta la “singolarità” (cf. Giovanni Moioli) di Gesù Cristo, “universale concreto”: tutto l’umano – maschile e femminile – è raccolto in lui, “in un solo corpo” (Gal 3,28: “non c’è più Giudeo e Greco, schiavo e libero, maschio e femmina, perché tutti voi siete ‘uno’ in Cristo Gesù”).

Egli è l’essere umano pienamente immagine e somiglianza di Dio: in lui ogni uomo e ogni donna scorgono la propria verità profonda ed escatologica, il desiderio del Padre su ciascuno e ciascuna (Rm 8,29: “Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo”).

Anche l’evocativo titolo di “Sposo” che Gesù stesso si attribuisce secondo la tradizione biblica, indica la piena unione e assunzione dell’umanità-tutta da parte del Figlio eterno. Scriveva il card. Angelo Amato nella sua cristologia di solido impianto tradizionale: “La Sposa… è la sua umanità assunta. In lui Dio sposa il suo popolo, e il Verbo sposa l’umanità intera”: ogni essere umano, maschio e femmina. L’analogia sponsale non intende significare una riduzionistica caratterizzazione “mascolina” del Verbo incarnato, ma più profonde implicazioni cristologiche e antropologiche.

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Gesù è il volto umano di Dio: nella sua vicenda storica e prassi agapica di tenerezza, misericordia, dono e sacrificio totale di sé, culminate nel mistero pasquale, si è reso visibile e toccabile da noi (1Gv 1,1) il Verbo della vita, il Figlio eterno del Padre, “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3).

Affermare con siffatta forza – come nella tesi che ha diviso la Commissione – la vincolatività della “mascolinità” di Cristo, quale dimensione sostanziale della suo essere unico e primordiale sacramento del Padre, rischia pertanto di implicare un riduzionismo teologico oltre che cristologico: di volere portare fortemente nella realtà stessa di Dio il limite creaturale della caratterizzazione sessuata, univocamente declinato al maschile.

La paternità di Dio, come princeps analogatum, al contempo raccoglie, supera e trascende in modo eminente ogni paternità (Mt 7,11; Lc 11,13; Mt 10,18) e maternità (Is 49,15; Is 66,13; Sal 131,2; Mt 23,37) umana. Il futuro papa Benedetto si espresse al riguardo in modo come sempre illuminante, per sintesi e raffinatezza: «Dio è Dio. Non è né uomo né donna, ma è al di là dei generi. È il totalmente Altro. […] Per la fede biblica è sempre stato chiaro che Dio non è né uomo né donna ma appunto Dio, e che uomo e donna sono la sua immagine. Entrambi provengono da lui ed entrambi sono racchiusi potenzialmente in lui. […] Tutti i termini simbolici [biblici] riferiti a Dio concorrono a ricomporre un mosaico grazie al quale la Bibbia mette in chiaro la provenienza da Dio di uomo e donna. Ha creato entrambi. Entrambi sono conseguentemente racchiusi in lui – e tuttavia lui è al di là di entrambi» (Joseph Ratzinger, Dio e il mondo).

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Anche la teologia spirituale mantiene sempre l’apertura sponsale all’unione con Cristo per ogni creatura umana, maschile e femminile. Rimandando qui solo – per economia di spazio – ai grandi dottori della Chiesa carmelitani del XVI secolo, sappiamo che Teresa d’Avila propone universalmente l’orazione come via sicura di intima amicizia con Gesù, amato specialmente nella sua umanità; contestualmente la prosa e i versi poetici di Giovanni della Croce (la “Salita”, il “Cantico spirituale”, la “Notte oscura” e la “Fiamma viva d’amore”) intendono condurre tutte le anime all’unità con il Verbo, all’unione con Dio.

Considerazioni e spunti di riflessione che non pretendono di essere esaustive, né intendono argomentare in merito all’importante discernimento ecclesiale sul tema del ministero. Ci auguriamo, tuttavia, utili a evidenziare quanto la forza apodittica di talune affermazioni giungano a sollevare interrogativi e riserve anche a più profondi livelli cristologici e teologico-trinitari (teologia “De Deo” e attributi delle Persone divine).

Da ultimo, è talora riscontrabile una certa accentuazione ed enfasi sull’uso dell’analogia “paterna” in senso riduttivamente mascolinizzante altresì in alcuni ambiti della catechesi e della pastorale. Anche in questo caso il rischio è quello di non salvaguardare adeguatamente la differenza divina: di perdere cioè la differenza nell’analogia, appiattendo la trascendenza del princeps analogatum sul referente umano maschile (a seconda dei casi: il padre, il catechista, il prete, l’evangelizzatore kerigmatico).

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