
Stavo per intitolare queste righe Il grande assente, ma subito mi resi conto che avrei fatto un errore e un grave torto alla Chiesa: mai, infatti, avrei potuto pensare, onestamente, che in questo gran parlare, per giorni e giorni, di papa Francesco, di vescovi e cardinali, di Chiesa e di celebrazioni liturgiche, il grande assente potesse essere stato Gesù.
Anche osservando i volti dei potenti della terra, assembrati durante i funerali del papa, sul sagrato della basilica, non pochi di loro cristiani che si professano pubblicamente tali, pensavo al loro pregare, alle suppliche da loro rivolte a Dio nel nome di Cristo. Se spesso guardiamo con un certo cinismo agli uomini politici, quando si tratta della fede e del rapporto con Dio, sarebbe indegno farlo. Quindi penso alle loro preghiere rivolte al Padre, durante la lunga liturgia delle esequie del papa, «per il nostro Signore Gesù Cristo, che vive e regna nei secoli dei secoli».
La Chiesa inclusiva di Francesco
Rivolgo quindi lo sguardo alla piazza, alle migliaia e migliaia di uomini e donne, giovani e bambini e mi par di sentire l’immenso coro del popolo di Dio orante, nella memoria e nel nome di Gesù. Quando l’immagine televisiva si sofferma sui volti, lo riconosco, Gesù è lì, in quegli occhi e su quelle labbra ad animare la speranza del mondo.
Gesù, quindi, non è certamente il grande assente, ma sì il grande implicito di questo nostro gran parlare delle sorti della Chiesa nella morte di un papa e nell’attesa del successore.
È necessario, però, che andiamo, con maggiore frequenza, a riscoprire, a esplicitare l’implicito e ad esaltarlo, nel riflettere su tutto quanto si è detto, ascoltato e fatto in questi giorni e su tutto ciò che si dirà e si farà nei giorni che verranno fino all’elezione del nuovo papa.
In tutto questo gran parlare di cose della Chiesa, non è che continuamente risuonasse il nome di Gesù, al di là delle pur innumerevoli Ave Maria del Rosario e dei testi della liturgia. Serie interminabili di parole, per giorni e giorni, memorie e rimpianti, cronache interminabili di mille e mille storie vissute da papa Francesco, toccanti, bellissime, provocatorie,
Quanti racconti hanno risvegliato i nostri ricordi, rinnovandone le emozioni e gli interrogativi che avevano agitato le nostre coscienze in questi anni del suo servizio reso alla Chiesa e al mondo! Eppure, dietro e dentro ogni parola detta e ascoltata c’era lui, Gesù, anche se non risuonava il suo nome. Senza di lui nulla di ciò che stava accadendo sarebbe accaduto.
Francesco ha promosso con insistenza e calore una Chiesa inclusiva, nella quale nessuno avrebbe mai dovuto sentirsi un estraneo: «Todos, todos, todos!». Ma, ben prima, era stato Gesù ad aver l’abitudine di farsi invitare a pranzo addirittura da quegli affamapopoli che erano i pubblicani, a costo di farsi qualificare in maniera indegna dalla gente: «Ecco, è un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori» (Mt 9,10).
Le scelte evangeliche di Francesco
Francesco ha amato i carcerati, fino a lasciare loro in testamento quel che c’era nel suo conto in banca, ma Gesù fin dal principio aveva dichiarato nella sinagoga di Nazaret, il paesello della sua infanzia e giovinezza, che la sua missione era «proclamare ai prigionieri la liberazione» (Lc 4,18). Non solo, ma si è identificato con loro per ammonirci che, se avessimo voluto, l’ultimo giorno, sentirci dire: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo», avremmo dovuto trattare il carcerato come fosse lui in persona: «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,36).
Francesco non si sarebbe mai sentito a suo agio abitando nei magnifici palazzi, eretti da suoi lontani predecessori e chiamati, per mancanza del senso dell’ironia, “Palazzi apostolici”, ma anche abitare nella Casa Santa Marta era ancora infinitamente più comodo del vissuto di Gesù, il quale diceva che «le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8, 20).
I poveri sono stati fin dall’inizio del ministero di Francesco al centro delle sue preoccupazioni e del suo magistero. Nessuno se ne sarebbe dovuto meravigliare, come invece qualcuno ha fatto, se appena avesse voluto ricordarsi che, quando Giovanni il Battista mandò a chiedergli, dal carcere, se egli era veramente il messia, Gesù aveva raccomandato ai suoi: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia» (Lc 7, 22).
Durante i funerali del papa, osservando il gruppo dei potenti della terra, non si poteva non ricordare con quanto coraggio Francesco avesse sempre proclamato davanti a tutti le loro responsabilità di fronte alla fame dei poveri, all’emarginazione dei deboli, all’ingiustizia dilagante nella società, alla strumentalizzazione della persona umana nel libero mercato e al progresso sempre crescente di alcuni paesi mentre altre regioni della terra restavano immerse nel sottosviluppo e nella povertà.
Con questo, “il vicario di Cristo” non faceva che far risuonare l’eco delle impietose invettive di Gesù: «Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete» (Lc 6, 24-25). Per Gesù «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Mt 19,24; Mc 10,25; Lc 18,25).
Soprattutto laicisti e anticlericali apprezzavano papa Francesco, quando lo sentivano deplorare il clericalismo, la supponenza di preti e vescovi di fronte ai fedeli, la presunzione e l’autoritarismo che vengono a mortificare il ruolo attivo dei credenti nel compimento della missione della Chiesa.
Ma ecco risuonare le parole di Gesù nei confronti dei maggiorenti della società del suo tempo: «Guai a voi, farisei, che amate i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. … Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!» (Lc 11, 43-46).
Francesco si immergeva nell’immaginario del gregge, dell’ovile e delle pecore, che Gesù proponeva per dire di sé, del suo amore per gli uomini che lo aveva portato a condividere tutte le pesantezze della loro vita. Così papa Francesco si immedesimava nella dura condizione di vita del pastore, per ricavarne il modello da proporre a tutti i preti: essere pastori con addosso l’odore delle pecore.
Gesù nelle parole di Francesco
Neppure nei discorsi di Francesco, come del resto di ogni pastore di Chiesa nella sua missione, Gesù era mai il grande assente.
Ma, nel ricordare e ripercorrere il suo ministero, è doveroso e prezioso per la Chiesa di oggi esplicitare e mettere in risalto il suo costante implicito, Gesù, il grande implicito di tutta la sua opera.
I media e gli opinionisti in questi giorni di conclave si domandano se il papa che verrà rappresenterà una linea di continuità o di rottura rispetto al pontificato di Francesco. Ma, di fronte a questi aspetti che abbiamo ricordato, i cardinali non hanno scelta alcuna.
L’evangelismo che ha brillato in maniera particolare nel pontificato di Francesco non può che essere considerato condizione fondamentale e impreteribile del programma e della personalità del papa futuro. Su questo piano nessuna rottura né alcuna svolta sono possibili.
Certamente sì nelle forme superficiali, ma non nell’intenzione di fondo e negli atteggiamenti decisivi con cui il papa si presenta al mondo. La Chiesa non ha bisogno di un papa teologo, non richiede un papa diplomatico, non le serve un papa tradizionalista né un papa innovatore. Ma ha bisogno assoluto di un papa evangelico.





