Quando si accorpano le parrocchie

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Questo testo nasce perché due comunità parrocchiali dell’hinterland milanese hanno deciso di non subire passivamente il loro accorpamento in quelle che la diocesi meneghina chiama le «comunità pastorali». E questo è già un primo passo, forse più importante di quello che esse stesse possano immaginare, per resistere all’inerzia amministrativa con cui si procede in molte diocesi in giro per l’Europa.

Se guardiamo all’Italia, non mi sembra che la burocrazia ecclesiastica di accorpamento delle parrocchie abbia finora prodotto una pastorale diversa da quella praticata in precedenza. Si trasporta il pacchetto da un contesto all’altro, si razionalizza qualche servizio pastorale (generalmente orari e numero delle messe… sic!), si concentrano alcune attività come la catechesi, e così via… insomma, dopo l’accorpamento è come se non fosse successo nulla.

E questo tranquillizza il burocrate ecclesiastico che sta a capo di questa operazione innaturale per quello che è il senso originario della parrocchia nel suo legame col territorio e con la gente che a esso, in un modo o nell’altro, appartiene. Ma questa tranquillità delle curie diocesane ha un costo elevato: da un lato, quello della disillusione della folla che fa la parrocchia (la gente, i fedeli, i laici e laiche – chiamateli come volete), che sentono di essere sostanzialmente invisibili rispetto ai meccanismi pastorali i cui fili sono tenuti altrove; e, dall’altro, la perdita delle ultime motivazioni ed entusiasmi dei preti – il cui malessere di classe nasce, a mio avviso, più per ragioni di natura interna alle Chiese locali che in virtù di una perdita di rilievo sociale del loro ruolo (se qualcuno, trent’anni fa, entrava in seminario convinto che il ministero ordinato implicasse un’aura di onore civile andava fermato fin dall’inizio; se, invece, gli è stato instillato nel corso della formazione, allora i seminari andrebbero chiusi immediatamente).

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Eppure, la latenza subdola di questo inconscio ecclesiale di accorpamento delle parrocchie, dove si stravolge la vita di una comunità esattamente perché nulla cambi, rischia di imporsi anche quando la gente e i preti cercano di costruire percorsi per essere le protagoniste di questo viaggio verso la comunità che verrà. Quella che non è il mero clone extra-large di ciò che c’era prima, ma è l’invenzione di un nuovo modo di essere convocati dallo Spirito a far circolare la Parola nelle strade della grande città.

Questa latenza si attesta, in genere, secondo due registri: gli aggiustamenti e le cose che si devono continuare a fare per forza perché non si può non farle.

Inizio, molto brevemente, con il secondo atteggiamento. Esiste davvero qualcosa che si deve assolutamente fare in una parrocchia, o questo sentimento di obbligo nasce piuttosto da una costrizione generata dal fatto che si è sempre fatto così e quindi non è possibile altro?

Mi verrebbe da dire che l’unico comandamento evangelico per una comunità cristiana è quello di celebrare la memoria del Signore la domenica e di pregare insieme – faccio fatica a scovarne altri. Tutte le altre cose che riteniamo essere obblighi sono per lo più accumulo di pratiche pastorali e forme di controllo autoritario ecclesiastico. Stante il fatto che, con l’accorpamento delle parrocchie, è proprio l’autorità ecclesiastica ad andare contro il desiderio di Gesù di essere ricordato ogni domenica in ogni comunità cristiana, allora ogni comunità cristiana (e dentro di esse i loro preti) possono sentirsi massimamente liberi – la comunità che verrà non è obbligata da nulla, se non da una creativa fedeltà al desiderio evangelico del Dio di Gesù.

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Il primo atteggiamento è quello degli aggiustamenti dell’esistente alla nuova condizione di essere una comunità di ex parrocchie. C’è qualcosa di vero e di sacrosanto racchiuso in questa tentazione –, qualcosa che chiamerei fedeltà alla propria storia di comunità, sulla quale torneremo. Ma qui, il confine fra fedeltà e attaccamento insano è quasi impalpabile; e gli aggiustamenti sono spesso la via comoda che porta alla ripetizione dello status quo – ossia, a lasciare tutto come era, con grande sollievo della burocrazia amministrativa curiale. Mettere toppe nuove su un vestito vecchio non è solo anti-evangelico, ma significa anche perdere un kayros comunitario che, a differenza delle nostre pratiche pastorali, non si ripeterà più.

Proporrei allora di percepire il fatto contingente dell’accorpamento delle parrocchie come un evento del tempo messianico: tempo che rompe con la catena della causalità, ma anche tempo che sovverte gli ordinamenti religiosi e disattiva pratiche che presumevano di essere indice della fedeltà di popolo a Dio. Le ragioni per cui si obbliga delle comunità parrocchiali ad accorparsi, senza chiedere loro nulla, sono del tutto contingenti, banali, quasi irrispettose della dignità che una comunità di fede ha davanti agli occhi del Signore: ci sono pochi preti (ma una comunità cristiana, e cattolica in questo caso, ha bisogno di un prete per sussistere come popolo convocato dallo Spirito nella città delle donne e degli uomini?).

Per le comunità coinvolte, partendo dalla consapevolezza che esse sono degne di essere e rimanere tali davanti agli occhi di Gesù, anche se di questo l’autorità ecclesiastica non tiene conto, si tratta di cogliere questa ragione minimalista, di burocrazia amministrativa della fede, e trasformarla in una opportunità evangelica – dove si divelgono tetti, abbattono muri, e si contraddice persino il Sabato pur di farsi prossimi a Gesù, pur di far incontrare la vita umana così come essa è con la promessa di Dio che è il corpo del Signore.

Sia il vissuto di Gesù, sia quello delle prime comunità messianiche nel suo nome, e anche il ministero di Paolo, sono costellati di episodi contingenti – anzi, potremmo dire sono fatti da capo a piedi da essi; perché solo così si può essere realmente dentro la storia della nostra comune umanità. Ma hanno colto e letto questa immersione nella contingenza dell’umano vivere in modo sapienziale; e così hanno fatto delle occasioni contingenti una forza generatrice.

Il vangelo è pieno di questi snodi, basti pensare all’incontro di Gesù con la donna siro-fenicia: dove la fede di una straniera, di una non appartenente, sconvolge il programma pastorale di Gesù e lo obbliga a una riformulazione radicale per ciò che concerne la destinazione del suo essere «in mezzo a noi». Gesù è la sua destinazione e, quindi, egli apprende qui da una donna, una straniera, il senso stesso del suo essere – mica roba da poco per una contingenza.

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È questo il modo in cui le comunità parrocchiali coinvolte dovrebbero leggere e maneggiare l’occasione contingente del loro accorpamento. Il primo passo è quello di immaginarsi come comunità (singolare) in stato nascente – e non come comunità (plurale) in transizione burocratica. Come nei vangeli e nelle lettere, una comunità che vuole porsi in stato nascente non è una comunità che rinnega la propria storia, non è una creazione ex nihilo che non ha passato né memorie – perché è fatta dalla memoria potente di essersi ritrovata per anni e decenni a celebrare quella del Signore.

La comunità in stato nascente inserisce la storia che l’ha fatta e plasmata in una nuova e differente situazione, la interpreta a partire da quest’ultima (che include anche le enormi mutazioni profonde del «territorio» che rappresenta il referente costitutivo dell’essere parrocchia), e immagina un suo nuovo modo di essere. Paolo mi sembra essere un riferimento illuminante e potente per accompagnare una comunità nascente a coltivare una fedeltà generativa alla storia che l’ha fatta.

Cogliere l’accorpamento delle parrocchie come evento del tempo messianico vuol dire fare della fedeltà alla propria storia di comunità una forza generatrice e non un risentimento nostalgico per qualcosa che non potremo più essere. Generare è il gesto più intimo e azzardato di una fedeltà alla propria storia, quello che osa sognare un futuro come spazio di libertà consegnato a storie che non saranno più la nostra – ma che non ci sarebbero se essa non ci fosse stata. Credo che questa debba essere la mentalità di fondo e la disposizione pratica che caratterizza una comunità che vuole passare da una condizione di stabilità alla posizione di essere in stato nascente – e provare così la gioia e l’ebbrezza di un nuovo mattino della sua storia.

Ma tutto questo cosa vuol dire in concreto? Proviamo a immaginare insieme i passi di una comunità generativamente fedele alla storia che l’ha portata a essere quello che essa oggi è; passi che la fanno passare da una condizione di stabile ripetitività a una di immaginazione della comunità che verrà.

Una fedeltà in situazione alla propria storia

Il primo passo è quello di riappropriarsi in modo evangelicamente critico della propria storia; perché solo in questo modo quello che siamo stati non dominerà e governerà quello che desideriamo diventare e quello che potremo essere. Questo vuol dire rileggere la propria storia di comunità non tanto a partire da essa, quanto piuttosto con le lenti della concretezza del territorio che circonda le parrocchie chiamate ad accorparsi fra di loro.

Le nostre parrocchie odierne sono come dei supermarket dell’offerta religiosa, dove la macchina pastorale esige che si faccia di tutto: dalla catechesi ai bambini ai funerali degli anziani; dal gruppo biblico all’happening per i giovani e così via. Abbiamo una pastorale parrocchiale che è dispersiva, oltre a essere dissanguante in termini di forze spese – una pastorale così fatta non solo non serve, ma è anche sottilmente perversa. È urgente passare da essere comunità di accumulazione di pratiche pastorali a una comunità che si concentra su qualcosa di essenziale. Ed è questo il modo di rileggere la propria storia comunitaria, per trovare in essa quella pratica nella quale non solo ci si possa riconoscere, ma anche la renda riconoscibile nelle vie e nelle case del territorio «circostante».

Una comunità nascente è quella che sa ridurre drasticamente il menù delle cose (pastorali) che si fanno, quella che sa cucinare bene un primo piatto (e forse un secondo, ma non di più) – dandogli un gusto che non si trova altrove, perché preparato secondo una ricetta della fede coltivata e aggiornata negli ingredienti da una storia che solo quella comunità ha alle proprie spalle.

Nel cammino, e nella conflittualità, necessario a individuare questa pratica distintiva, che racchiuda in sé tutta l’originalità di una lunga storia comunitaria, bisogna però tener presente un altro fattore: deve trattarsi di una pratica pastorale della fede che manca altrove sia sul piano religioso che socio-civile.

Rileggere evangelicamente la propria storia di comunità significa allora individuare quella pratica della fede e quel senso di legame sociale che non è disponibile negli spazi e luoghi «circostanti». Tra i molti e dispersi riferimenti evangelici, che scorrono nel corpo di comunità che vengono aggregate tra loro, bisogna sceglierne alcuni, pochi, meglio uno solo, che sappia dire una fedeltà in situazione e generativa alla propria storia comunitaria, facendo sintesi di essa, e sia capace, al tempo stesso, di incontrare le esigenze di un territorio che è profondamente mutato nel suo modo di essere – mentre noi e le nostre parrocchie continuano a essere degli immutabili che si ripetono nella loro identità.

Perché nella storia delle nostre comunità parrocchiali si è inoculato anche questo virus perverso del medesimo replicante, accanto a quello dell’accumulo stratificato di pratiche pastorali giustapposte le une alle altre (senza una vera e propria regia e ragion d’essere). L’esempio più eclatante è quello della catechesi per l’iniziazione cristiana che, di fatto, è una pratica pastorale che produce abbandonanti; e, anziché metterla in discussione, ne abbiamo semplicemente anticipato l’inizio (fra un po’ convocheremo i cuccioli che sono ancora nella culla, se andiamo avanti di questo passo) – senza che questo producesse alcun effetto concreto positivo.

Iniziamo più presto, dreniamo più forze, sfianchiamo educatori ed educatrici, facciamo impazzire i preti nella ricerca last minute di qualche volontario sacrificale, per portare ragazzi e ragazze a prendere rapidamente la porta di uscita dei nostri oratori. E a quelli che rimangono abbiamo ben poco da offrire, se non prassi retoriche e qualche moralismo di maniera. E, al tempo stesso, non abbiamo partorito un’idea che sia una per una pratica pastorale rivolta agli abbandonanti oramai «lontani» dalle mura delle nostre parrocchie (se non quella di aspettare e sperare che «tornino» da sé, nonostante noi).

Dietro questa tragedia comica della nostra pastorale sta il fatto che non siamo capaci di dire il Vangelo alla gente del nostro tempo così come essa è; e non ci accorgiamo gioiosamente che la Parola, invece, circola efficacemente nei meandri delle vite della nostra città – anzi, siamo anche un po’ risentiti per questo. E, comunque, non facciamo nulla o molto poco per seguirla in queste sue divagazioni. Credo che, in parte, questo dipenda dalla disconnessione che si è creata fra il territorio (e le sue mutazioni) e il modo di concepire e vivere la parrocchia. Perché il territorio, referente che dà senso e costituisce quell’invenzione del Concilio di Trento che chiamiamo parrocchia, è profondamente cambiato – mentre la parrocchia è rimasta chiusa nello specchio incantato della medesimezza a sé stessa.

Se il modo di vivere il territorio cambia e la parrocchia non lo segue in questi suoi ondivaghi movimenti, quest’ultima rimane del tutto irrelata alle vite che scorrono in esso. In questo modo, la parrocchia perde il suo senso di essere e diventa un reperto archeologico della fede che fu (che è passata inesorabilmente anche se vissuta oggi). Tutti i tentativi di oltrepassare la parrocchia sono però o falliti (tipo pastorale d’ambiente, soprattutto perché pensata e agita come pastorale di circostanza in vista di una riconduzione alla parrocchia) o approdati a un comunitarismo delle affinità elettive (tipo movimenti).

A oggi non abbiamo un modello alternativo per dare forma a una comunità cristiana fatta di parzialità non totalizzanti, dove coesistono fra loro modi diversi del sentire cattolico, fatta di conflittualità che vanno mediate e negoziate e non eliminate nella presunta armonia di un carisma che unisce tutti. Dobbiamo, quindi, rifondare la parrocchia e le comunità cristiane a partire dai mutamenti di quel territorio dell’umano vivere che ne è la ragion d’essere.

Su come è cambiato il rapporto fra territorio e la gente ci sono biblioteche sterminate – e anche in questo caso dobbiamo scegliere, tra le molte interpretazioni, quella che può accompagnare in maniera più efficace il cammino generativo di una comunità cristiana in stato nascente.

Azzardando un’estrema sintesi, si potrebbe dire che il cambiamento più profondo del territorio è stato il passaggio dall’abitare al transitare.

Il territorio è divenuto un luogo di passaggio, un momentaneo nella vita della gente – non è scomparso, ma si è delocalizzato ed è vissuto, frequentato, sentito, in quanto tale (per questo, in precedenza, ho messo la parola circostante fra virgolette quando parlavo del territorio). Il territorio circostante la parrocchia non è più uno spazio geografico della città (o non solo questo), ma si è ampliato, disteso, ha lasciato dietro di sé i marcatori fisici dello spazio, ed è diventato il crocicchio di un via vai esistenziale, frammento di una delle molte locazioni (reali-virtuali) in cui si dipanano oggi le storie delle persone, della nostra gente.

Una comunità nascente (parrocchiale o pastorale che sia) è una comunità che sa seguire questi movimenti del «suo» territorio, che sa stare al gioco della dislocazione e offrire opportunità di resistenza ai suoi effetti anti-umanistici. Che non si pensa come un grande ventre che fagocita le vite degli altri, ma come un grembo che genera vite che saranno altrove.

De-marcatori comunitari: la sapienza di indicare altrove

Una comunità nascente che si concentra su uno, o pochi denominatori evangelici di riconoscenza e riconoscibilità del suo senso di essere tra la gente dei quartieri delle nostre città, da un lato, e che si modella assecondando la dislocazione del territorio in cui le folle transitano, chiede la disponibilità ad apprendere a mettersi in rete con altre realtà religiose (non solo parrocchiali, non solo cristiane) e socio-civili.

Il denominatore di una comunità cristiana viene così praticato come un indicatore verso altri soggetti con cui si lavora insieme a favore della vita della gente e per il bene delle folle. Ed è proprio questa funzione di indicazione che fa da de-marcatore della comunità parrocchiale (cioè disattiva quei marcatori comunitari che la rinchiudono in sé stessa, rendendola impermeabile a ciò che avviene del territorio che ne rappresenta un elemento costituente). In questo modo, il de-marcatore comunitario permette di allargare la maglia del tessuto connettivo della comunità cristiana rendendola capace di dislocarsi anche lei.

Così non sarà più necessario che una parrocchia/comunità pastorale debba accollarsi l’onere di tutti i servizi pastorali e liturgici della fede, e sarà capace di distribuirli senza gelosia e invidia tra una pluralità di riferimenti possibili presenti all’interno di un territorio dislocato in sé stesso. Concentrandosi su una pratica pastorale, nel senso in cui dicevamo sopra, come de-marcatore comunitario, la comunità cristiana indica oltre sé stessa, per accompagnare la folla verso l’altrove dove potrà incontrare altre pratiche pastorali. Ma non solo.

Sul territorio dislocato, la rete connettiva della comunità cristiana va tessuta anche con soggetti socio-civili (dalle scuole al quartiere, dai servizi sociali al terzo settore, e così via), perché l’umanesimo evangelico della fede sa che l’ingiunzione del Signore scorre nelle esigenze umane delle persone: ovunque esse siano e chiunque esse siano. In questo modo, la parrocchia dislocata riuscirà a considerare dei «suoi» anche quelli che compiono gesti di Vangelo altrove (ossia nella dislocazione); e sentirà «suoi» anche quelle persone che transitano in quegli altrove verso cui il suo de-marcatore/indicatore comunitario le ha indirizzate e accompagnate.

Questo mutamento di paradigma dell’autocomprensione della parrocchia o lo si fa adesso in un momento come questo, in cui due comunità sono chiamate a unirsi tra di loro, o non lo si farà mai più – perché il tempo utile è già alle nostre spalle. Se non si entra in una mentalità di comunità nascente, dislocata, capace di indicare oltre sé stessa, il senso pastorale della parrocchia si estinguerà e di essa rimarrà solo la veste canonico-amministrativa.

Convenire per pregare insieme

Una comunità in stato nascente deve anche individuare una forma di preghiera, un momento della celebrazione del tempo e del suo scorrere, che ne alimenti spiritualmente la prassi pastorale intorno a cui si concentra. E la comunità che si raduna per pregare insieme è un soggetto che l’autorità ecclesiale non può, e non deve, sciogliere, accorpare, dislocare. Oltre ogni nome tecnico e canonico, questa comunità in preghiera è la parrocchia (nel suo senso evangelico) e tale deve rimanere – ossia, deve continuare a sussistere come comunità cristiana.

Celebrare bene i tempi della liturgia e quelli della vita della gente è un’arte che va sempre di nuovo riappresa – perché anche la celebrazione della e nella comunità cristiana deve essere capace di seguire il dislocamento del territorio attraversato sia dalla folla che dai discepoli/discepole del Signore. Anche su questo punto è necessario, da parte della comunità, che si pone in stato nascente, mettere in atto uno sforzo di concentrazione – cercando di rispondere alla domanda su quale sia il modo di convenire insieme nella preghiera che dice e anima lo specifico del de-marcatore comunitario, dello stile di essere comunità.

Non è detto che debba essere necessariamente la messa quotidiana, anzi – se è vero che dove «due o tre sono riuniti nel suo nome», lì la presenza di Gesù è certa e reale. Qui non si tratta di inventare, ma di interrogare il vissuto in situazione dislocata della comunità e del territorio per discernere quale convenire insieme nella preghiera denomini il proprio essere comunità – però bisogna scegliere e poi praticarlo con cura, attenzione, disponibilità. Celebriamo nel quotidiano bene una cosa (il nascere, il morire, la lectio, il vespro o le lodi), facciamolo con passione e convinzione, e per il resto indichiamo verso altri dislocamenti territoriali del pregare insieme.

E se pensiamo la comunità cristiana come rete dislocata, e non come identità ossessivamente chiusa in sé stessa, allora saremo in grado di far nascere una rete liturgica e spirituale diffusa, di cui come comunità si è parte proprio nella parzialità limitata del nostro convenire in preghiera, che attraversa il territorio e i suoi molti transiti dell’umano vivere.

Sulle competenze professionali della fede e i loro luoghi

Come ultimo aspetto, vorrei richiamare l’urgenza di una valorizzazione pastorale non solo delle competenze professionali dei membri di una comunità parrocchiale, ma anche e soprattutto dei luoghi civili e secolari in cui esse vengono esercitate quotidianamente. Questi luoghi, dislocati nell’altrove della città (talvolta del mondo), sono luoghi propri di una comunità parrocchiale in stato nascente – ossia, non sono la sua dispersione, ma la possibilità della sua efficacia pastorale nell’altrove della dislocazione. Luoghi, questi, che sono territorio della parrocchia se essa sa pensarsi oltre la sua mera collocazione geografica.

Quando si lavora, ogni giorno, non si è «fuori» dalla parrocchia, non si fa altro dalla cura della fede, ma si è piuttosto nel cuore pulsante della pastorale parrocchiale e negli spazi/tempi della sua destinazione alla città. Scuole, banche, uffici, negozi, farmacie, ovunque esse siano nella grande città, devono essere compresi come territori della comunità parrocchiale che sa attraversare la dislocazione del vivere tipica del nostro tempo (credo non sia difficile immaginare quanta cura pastorale è possibile lavorando in farmacia, quanto tempo si sta coi giovani accompagnandoli nella vita e nella formazione umana insegnando a scuola…).

Proviamo a immaginare la forza e l’impatto di fare della parrocchia lo spazio/tempo in cui questa dislocazione delle competenze professionali della sua cura pastorale diventa possibilità di intrecciarle fra di loro, di apprendere le une dalle altre, di confrontarsi sullo specifico di ciascuna nell’orizzonte di una destinazione pastorale della fede che le accomuna. Si aprirebbero così scenari che non sarebbero possibili senza questa interconnessione parrocchiale delle competenze professionali della fede coltivate nel segno di un comune umanesimo evangelico.

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Questo il lavoro che si apre quando delle comunità cristiane non si limitano a subire il loro accorpamento amministrativo, ma lo fanno diventare un’occasione evangelica, un ingresso nell’urgenza del tempo messianico che Gesù porta sempre con sé. Questo lavoro bisogna iniziare a farlo e portarlo a termine – nel tempo che resta. Dopo, è bene seguire la parola di Gesù: mettere mano all’aratro senza più voltarsi indietro.

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19 Commenti

  1. Laura 18 novembre 2025
  2. Antonio Franceschi 13 novembre 2025
  3. Mario Florio 12 novembre 2025
  4. Giuseppe 12 novembre 2025
  5. Bruno 11 novembre 2025
  6. Adriano Bregolin 11 novembre 2025
  7. Fabio Cittadini 11 novembre 2025
    • Angela 11 novembre 2025
  8. Simona 11 novembre 2025
    • Lukiluke67 11 novembre 2025
  9. Giuseppe 10 novembre 2025
  10. Piero Coda 10 novembre 2025
  11. Enrico 10 novembre 2025
    • Angela 10 novembre 2025
  12. 68ina felice 10 novembre 2025
    • Rizza Raffaele 11 novembre 2025
      • 68ina felice 12 novembre 2025
        • Davide 12 novembre 2025
        • Anima errante 12 novembre 2025

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