Influencer Politics

di:

influencer

Da un po’ di tempo osservo con interesse la nascita di quella che potremmo chiamare “influencer politics”, nel senso dell’ascesa di alcune personalità social che si occupano non dei temi classici degli influencer ma di questioni politiche. O meglio, di un preciso sottoinsieme di questioni politiche che evidentemente sono funzionali a certe dinamiche di engagement e dunque premiate dall’algoritmo: salute mentale, Gaza, questioni di genere.

In gran parte si tratta di giovani donne, una emergente categoria di intellettuali pubbliche che raccoglie o prova a raccogliere l’eredità di Michela Murgia. Con la differenza che Murgia aveva una sua base intellettuale, culturale e politica fuori dai social, che usava – con una certa consapevolezza – come strumento di diffusione e di azione politica, senza esserne (o almeno cercando di non esserne) usata.

Ma ci sono anche giornalisti che hanno sempre usato stili e toni diversi – penso a Pablo Trincia – che sui social adottano un linguaggio e forme comunicative specifiche, collassate sullo slogan e il mero posizionamento.

Un caso con conseguenze rilevanti è quello di Lorenzo Tosa, che dopo un attacco in puro stile influencer politics a un ambasciatore con antiche militanze di estrema destra si è trovato condannato a pagare 50.000 euro di risarcimento dopo una querela.

Come tutte le cause civili contro i giornalisti anche questa è sproporzionata e intimidatoria, ma il punto da notare è che stata la reazione non a una inchiesta o pubblicazione di notizia, ma a una presa di posizione, al lancio di una petizione su Change.org contro l’ambasciatore.

Questa nuova influencer politics a me pare la degenerazione ultima del dibattito politico, la sottomissione inconsapevole alle logiche delle piattaforme. L’uso di questioni serie e complesse per cementare le pareti di una camera dell’eco nella quale non c’è alcuna elaborazione, discussione, e neppure alcuna azione.

Basta un clic

C’è soltanto posizionamento individuale, la trasformazione del conflitto politico in una dei suoi equivalenti social – dissingshitstorm o altro – con il risultato che quel conflitto a parole evocato, difeso, celebrato, viene in realtà frainteso, neutralizzato, reso innocuo.

Ho osservato per mesi questo fenomeno, che ha avuto alcuni picchi significativi con campagne come #alleyesonrafah, tutti gli occhi su Rafah, città nella striscia di Gaza: un hashtag e una iniziativa che già di per sé meriterebbe analisi approfondite per l’intrinseca assurdità, o meglio, per la straordinaria efficacia nel trasformare politica e geopolitica in mero gesto.

La condivisione di una immagine, peraltro probabilmente creata con l’intelligenza artificiale, dunque priva di ogni connessione con la realtà sulla quale invitava a vigilare.

Nessuno di quelli che si sentiva chiamato a condividere l’hashtag era in condizione di fare quello che dichiarava, cioè avere occhi su Rafah. Perché sapere cosa succede a Rafah o Gaza è difficile, ci vogliono giornalisti, operatori delle ONG, diplomatici, persone che hanno contatti, che sanno valutare le fonti, aggregare le informazioni, contestualizzarle.

Cosa sia poi successo a Rafah, infatti, non lo sappiamo esattamente.

L’influencer politics di #alleyesonRafah era semplicemente un posizionamento, un segnale alla propria comunità di essere sensibili a Gaza, e gli occhi in realtà erano soltanto sui profili di altri utenti per monitorare se condividevano o meno l’hashtag e i relativi post.

Se non lo facevano, diventava legittimo additarli alla propria community come complici del genocidio del popolo palestinese.

Ed ecco che una guerra vera e una tragedia concreta veniva mimata, filtrata, specchiata in un conflitto ombelicale tra utenti o influencer che si schieravano come se fossero davvero palestinesi o israeliani, vittime e assassini, terroristi e genocidi. Ma sono semplicemente italiane e italiani che fanno un clic sullo smartphone in metropolitana o sull’autobus.

Le conseguenze della influencer politics 

Questa influencer politics può sembrare innocua. Poiché riduce il conflitto politico alla sua dimensione performativa, lo rende per definizione privo di conseguenze concrete. Tutto sommato, chissenefrega se qualche opinion maker della GenZ polarizza la sua comunità su Israele e Palestina invece che sui concorrenti di X-Factor o per denunciare un trend di TikTok di dubbio gusto.

Dopo la vittoria del ticket Donald Trump – Elon Musk mi sono reso conto però che le conseguenze dell’ascesa dell’influencer politics possono essere invece catastrofiche. Perché il risultato della trasformazione del conflitto politico in hashtag e risse social finisce per generare fenomeni come, appunto, Trump e Musk.

Siamo così abituati alla dimensione della violenza social da dimenticare che esiste una violenza reale, o quantomeno un conflitto reale, che ha delle sue dinamiche, delle sue regole, ma anche delle sue prospettive di ricomposizione.

Si fanno gli scioperi generali per arrivare alle trattative; i gruppi terroristici possono essere sconfitti per via militare o, più spesso, perché si interviene sul contesto sociale che li ha generati; la pace si raggiunge per le vie più diverse, più o meno sanguinarie, attraverso vittorie, sconfitte, deterrenza nucleare o alleanze.

Sui social no, il conflitto nella influencer politics non ha premesse e non ha sbocchi, è fine a sé stesso, o meglio è fine a garantire il posizionamento dell’attore su uno dei due fronti e a generare engagement, polemiche, riprese, contestazioni, nuovi follower, visibilità su media tradizionali che servono a garantire legittimità e dunque a rafforzare posizionamento, engagement e seguito social.

Questa è la dinamica che ha prodotto Donald Trump e che Elon Musk ha esasperato, con la trasformazione di Twitter in X, cioè di una piattaforma specializzata nel dibattito politico-giornalistico in una versione digitale di FoxNews, uno strumento di propaganda che si fonda sul continuo aizzare le masse contro i nemici.

Anche quelli che si indignano e protestano diventano utili idioti arruolati alla causa, perché diffondono il messaggio e aumentano la rilevanza di chi lo ha lanciato in origine.

Il problema dell’influencer politics, voglio però essere chiaro, non deriva dal contenuto, ma dalla modalità di comunicazione che prevale sul contenuto (non sono certo il primo a concludere che il mezzo è il messaggio).

Musk e Trump hanno usato X per diffondere notizie false, razzismo, suprematismo bianco, sessismo, violenza. Ma anche chi si pone agli antipodi di quei contenuti e di quelle politiche finisce per replicare gli schemi comunicativi tipici della influencer politics, che dà un contributo alla degenerazione della politica così come l’emergere dei talk show hanno trasformato non solo il racconto della politica ma la politica stessa nell’età della televisione.

Chi partecipa ai talk – e io l’ho fatto e lo faccio spesso – ne accetta le regole e i rischi a cominciare da quello di trovarsi a interpretare un ruolo predeterminato (quello di sinistra, l’esperto, il pacifista, il reazionario…) a prescindere da quello che dice e – rischio complementare e speculare – quello di essere percepito come elemento indistinguibile di una grande melassa di personaggi che sono parte di una categoria omogenea, che fingono di litigare ma poi si salutano con affetto.

Ecco, l’influencer politics è come i talk, una modalità di intervento nel dibattito politico che implica alcuni compromessi e presuppone alcune scelte, come l’iper-semplificazione e il posizionamento senza sfumature.

Perché se i talk hanno distrutto la possibilità del ragionamento articolato davanti a un pubblico di massa (un minuto è un tempo lunghissimo in TV), l’influencer politics sta distruggendo la possibilità di prendere sul serio un argomento, di avere più domande che risposte, di volersi prendere il tempo per farsi un’idea articolata o per arrivare alla conclusione che su certe cose un’idea chiara non ce l’abbiamo, perché sono troppo complicate per essere banalizzate.

Su Gaza e Israele, per esempio, io non ho idea di come si possa costruire un nuovo equilibrio che implichi qualcosa che possiamo definire pace.

Penso tutto il peggio delle violenze dell’esercito israeliano, ma sono consapevole a) che la mia opinione è abbastanza irrilevante, b) che condannare le violenze non significa in alcun modo indicare una strada per interromperle c) che chi ripete slogan come «due popoli due Stati» conferma solo di non aver idea della complessità degli eventi, che rendono ogni slogan offensivo, oltre che ridicolo.

Il trumpismo inconsapevole 

Ci sono parecchi interpreti della influencer politics, anche e soprattutto su posizioni in teoria progressiste. Quella di maggiore successo in Italia mi pare Carlotta Vagnoli, che ora può presentarsi anche come scrittrice, ma prima è arrivata la politica social e poi il romanzo per Einaudi, Animali notturni.

Nei giorni scorsi Vagnoli ha risposto a un post di Roberto Saviano che denunciava le responsabilità dei social nel degrado della democrazia, e ha così finito per fare una specie di manifesto della influencer politics.

Saviano ha scritto, all’inizio di un flusso di coscienza condensato in un post, in puro stile influencer politics, cioè affermare senza argomentare:

Senza regole per i social nessuna democrazia è più possibile. Aver permesso che l’attenzione fosse ridotta a 8 secondi, che le news implodessero nella superficialità più ridicola, aver dato spazio, centralità e autorevolezza a qualsiasi nullità con una manciata di follower (spesso comprati, quindi bot)… tutti esperti di tutto ha distrutto la democrazia.

Si potrebbe già obiettare che denunciare le responsabilità dei social comprimendo un’analisi articolata nei ridotti spazi imposti da Instagram è già una resa, o una mancanza di comprensione delle dinamiche che si denunciano.

Comunque, la risposta di Carlotta Vagnoli è più interessante:

Ok memare abbiamo memato, forse è il tempo di riflettere. Questo post è proprio un buco nell’acqua. Quello de ‘le masse ignoranti’ è proprio il fulcro della disfatta della sinistra liberale, che è talmente poco di siinistra da fare il giro e diventare centro destra. Il problema non sono i social. Quelli diventano semmai strumento. 

Il problema è il liberalismo, inadatto a leggere il presente. 

Il problema è la candidata dem che endorsa Israele e il genocidio palestinese. 

Il problema è reputare l’elettorato coglione e ignorante, quando è arrabbiato, affamato, impaurito. 

La crisi non sta nei social, ma nel liberalismo. Che rimane elitario e borghese, in una società che borghese non lo é. 

La sinistra liberale mondiale è la causa dell’avanzamento delle ultra destre. Possiamo dare la colpa anche a Babbo Natale, ma finché non lo capiremo e non ci radicalizzeremo non potremo fare altro che osservare le destre occidentali diventare sempre più potenti. 

Credo che Carlotta Vagnoli si consideri all’estremo politico e culturale opposto di Donald Trump e dei trumpiani, ma il fatto di discutere questi temi nello spazio e con i codici della influencer politics la spinge a scrivere un post che Trump o Musk potrebbero rilanciare e condividere in pieno.

Nell’affermare che i social non sono il problema, Vagnoli difende la sua ragion d’essere e modello di business (se i social fossero il problema, lei ne sarebbe parte) ma comprimere concetti e analisi in pochi caratteri e la necessità di affermare prima di tutto un posizionamento, che non richiede argomentazione, la porta a scrivere un post perfettamente trumpiano.

Trump e Musk pensano – o almeno dicono – quello che scrive lei: il successo della destra è colpa della sinistra che è troppo elitaria e ipocrita, le spinte razziste, misogine, violente che Trump e Musk legittimano non possono essere criticate, perché sono soltanto l’espressione di un malessere che la sinistra rifiuta di vedere e di affrontare.

Su Appunti, la filosofa Gloria Origgi ha invece offerto solide argomentazioni contro questo relativismo etico e morale che porta a legittimare qualunque rabbia o slancio autoritario soltanto perché arriva da chi vota i vincitori.

Dietro Trump non c’è – per definizione, visto che lo ha votato più di metà dell’elettorato – soltanto un popolo di impauriti e spaventati, ma anche i razzisti, i suprematisti, i misogini, e se Trump vince è perché offre legittimazione a quel «fascismo eterno» che, come scrive Gloria Origgi, alberga sempre sotto la patina di civiltà che abbiamo faticosamente costruito:

«Tutto ciò che cerca di reprimere questi istinti, ossia l’educazione politica, la cultura, le forme nuove di socializzazione, la libertà delle donne, è un rischio per quel maschio bestiale, primitivo, ignorante e violento che sta dietro alla vernicetta anche del più chic professore di Harvard».

L’influencer politics, qualunque sia la sua presunta matrice ideologica, finisce per consolidare quel tipo di narrazione e politica. Perché la radicalizzazione che Carlotta Vagnoli invoca come risposta a tutto è la negazione della politica, visto che non contempla compromesso, mediazione, sfumatura.

Ma soprattutto perché è – lo ribadisco – una radicalizzazione soltanto nei toni, nel dichiarazionismo social, nella dimensione dei caratteri. Che porta a diffondere fake news, come quella che Kamala Harris avrebbe approvato il genocidio palestinese (mentre ha fatto molto, per ragioni anche elettorali, per dimostrare che la sua priorità era la sofferenza dei palestinesi e non il desiderio di vendetta del governo Netanyahu).

Non è reale ma può produrre conseguenze reali perché è ciò che alimenta imprenditori politici di questa fase come, appunto, Trump.

Non mi è chiaro a cosa si riferisca Vagnoli con «sinistra liberale», locuzione non molto usata, forse alla sinistra neoliberale o, come si dice in Italia, «neoliberista» (su questo c’è un bel libro di cui scriverò presto, Ascesa e declino dell’ordine neoliberale di Gary Grestle, per Neri Pozza).

Ma se prendiamo alla lettera l’espressione da lei usata, se la sinistra liberale è il problema, significa che serve una sinistra «illiberale» che risponda a una destra illiberale. E questo non mi pare un auspicio condivisibile per chi ha a cuore i destini della democrazia.

Pochi giorni dopo quel post, Carlotta Vagnoli ha pubblicato una serie di stories nella quale sosteneva che negli Stati Uniti alcune donne stessero facendo scorta di pillole abortive in previsione di ulteriori restrizioni all’interruzione volontaria di gravidanza.

Anche quelle stories dimostravano le contraddizioni della influencer politics. Dopo aver contestato alla «sinistra liberale» un eccesso di elitismo, Vagnoli usa l’espressione «persone con utero», perché – deduco – dire più semplicemente «donne» offenderebbe coloro che hanno una identità di genere femminile alla quale non corrisponde una biologia che renda necessario preoccuparsi di gravidanze e aborti.

Se «persone con utero» ben riassume le contorsioni verbali della cultura woke aborrita da Musk e Trump, un altro intervento di Carlotta Vagnoli è, di nuovo, perfettamente trumpiano: si dà conto di qualcuno che ha detto qualcosa da qualche parte (le fonti sono video di TikTok), poi si passa a commentare il fatto che «molte persone» (chi?) «richiedono alle donne in posizione di potere di assumere donne o persone trans» per dare loro uno stipendio in vista di imminenti persecuzioni e così via.

Anche Trump, massimo interprete della influencer politics, usa sempre questa struttura argomentativa quando deve aizzare i suoi o presentare fake news delle quali non si vuole prendere le responsabilità. «Some people say», «many people are saying» sono alcune delle sue premesse preferite prima di una qualche bestialità, tipo la famosa balla dei rifugiati di Haiti che mangiano cani e gatti degli abitanti di Springfield in Ohio.

Ovviamente, Carlotta Vagnoli chiude le stories con un altro elogio al ruolo politico dei social:

Credo che osservare i social non sia un modo stupido per comprendere l’andamento del mondo. Anzi. Intercetta umori e sentimenti, movimenti e derive, linguaggi e metodologie, problematiche e criticità. La desta ahimè lo ha capito benissimo. A a sinistra lib a quanto pare l’elitarismo spinge ancora forte.

Certo, Carlotta Vagnoli ha ragione, l’influencer politics funziona secondo le regole che lei indica, cioè combinando radicalizzazione, compressione semantica, assenza di analisi e sfumature.

Nel suo romanzo Animali notturni, in un interessante passaggio Vagnoli scrive:

«La mia generazione ha bisogno di essere vista e di appartenere a un movimento, uno qualsiasi, va bene qualunque cosa, purché non ci sia la politica di mezzo».

E invece poi la politica di mezzo ci sta finendo, hanno cominciato Fedez e Chiara Ferragni a rompere il tacito consenso che spingeva influencer e creator a evitare argomenti divisivi. Hanno capito che segmentare il pubblico può aumentare engagement e valore pubblicitario se perdi follower passivi e galvanizzi un numero ridotto ma più attivo e dunque prezioso di seguaci.

Fedez e Ferragni usavano la politica solo a scopo commerciale (per promuovere smalti unisex o prodotti cosmetici di marchi interessati a essere associati all’empowerment femminile). Ma l’epoca della influencer politics adesso è entrata in una nuova fase, con alla Casa Bianca il ritorno dell’influencer-in-chief portato direttamente dal gestore della piattaforma.

Nel suo ultimo libro – I demoni della mente (Mondadori) – Mattia Ferraresi analizza i percorsi contorti e inaffidabili che ci portano a credere quello che crediamo, a pensare di sapere qualcosa. Una sua osservazione mi ha molto colpito: i meccanismi della convinzione nelle frange estreme del dibattito si somigliano:

«I cospirazionisti della destra reazionaria e i progressisti della sinistra woke nuotano nello stesso acquario. Due tendenze che paiono agli antipodi sono in realtà accomunate da premesse simili. Entrambe fanno perno sull’idea che la realtà che sperimentiamo è un inganno, una copertura che nasconde qualcos’altro».

I trumpiani e gli anti-trumpiani militanti, gli incel e i woke, i cospirazionisti e i progressisti radicali da social finiscono per sostenere la stessa cosa, che esiste una verità che ci viene nascosta, da media ostili, da baby boomer manipolati da Facebook, dal sistema, dai ricchi o dai poveri sussidiati dallo Stato, dai maschi tossici o dalle femministe intolleranti:

«Dietro a ogni fenomeno c’è, a seconda delle preferenze di parte, un consesso di banchieri possibilmente ebrei in un castello sulle Alpi svizzere, oppure il patriarcato interiorizzato. Tutti i mali del mondo sono riconducibili a una rete di pedofili che fa capo alla famiglia Clinton, oppure al razzismo sistemico che interagisce con strutture capitaliste predatorie, neocoloniali ed eteronormative. La conclusione di entrambe le parti è: bisogna svegliarsi da questo incubo».

La influencer politics è in fondo questo, una politica del risveglio, che predicando la necessità di fare subito, con decisione, qualcosa – ma non si sa bene cosa (mettere un like? condividere una storia? commentare qualcosa?) – finisce per costruire una realtà parallela nella quale la partecipazione politica e anche la conoscenza stessa sono qualcosa di meramente performativo e, tutto sommato, irrilevante.

Per usare un linguaggio da influencer politics, sono proprio gli (e le) influencer che ci spronano all’azione a indirizzarci verso un’idea di politica che ci vede in realtà passivi, con la testa dentro lo smartphone, a informarci sui caroselli Instagram invece che su siti e libri, a cliccare furiosamente invece che interagire con altri esseri umani.

Non ho ovviamente soluzioni, ma credo che nell’epoca della influencer politics ribellarsi alla semplificazione autoritaria e anti-democratica favorita dalle piattaforme sia il primo e necessario atto di disobbedienza civile.

Meglio rischiare l’accusa di essere elitari che rassegnarsi a essere complici dell’affermarsi di questo nuovo regime, il fascismo tecnologico fondato sull’engagement.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 25 novembre 2024

appunti

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento

Questo sito fa uso di cookies tecnici ed analitici, non di profilazione. Clicca per leggere l'informativa completa.

Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici ed analitici con mascheratura dell'indirizzo IP del navigatore. L'utilizzo dei cookie è funzionale al fine di permettere i funzionamenti e fonire migliore esperienza di navigazione all'utente, garantendone la privacy. Non sono predisposti sul presente sito cookies di profilazione, nè di prima, né di terza parte. In ottemperanza del Regolamento Europeo 679/2016, altrimenti General Data Protection Regulation (GDPR), nonché delle disposizioni previste dal d. lgs. 196/2003 novellato dal d.lgs 101/2018, altrimenti "Codice privacy", con specifico riferimento all'articolo 122 del medesimo, citando poi il provvedimento dell'authority di garanzia, altrimenti autorità "Garante per la protezione dei dati personali", la quale con il pronunciamento "Linee guida cookie e altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021 [9677876]" , specifica ulteriormente le modalità, i diritti degli interessati, i doveri dei titolari del trattamento e le best practice in materia, cliccando su "Accetto", in modo del tutto libero e consapevole, si perviene a conoscenza del fatto che su questo sito web è fatto utilizzo di cookie tecnici, strettamente necessari al funzionamento tecnico del sito, e di i cookie analytics, con mascharatura dell'indirizzo IP. Vedasi il succitato provvedimento al 7.2. I cookies hanno, come previsto per legge, una durata di permanenza sui dispositivi dei navigatori di 6 mesi, terminati i quali verrà reiterata segnalazione di utilizzo e richiesta di accettazione. Non sono previsti cookie wall, accettazioni con scrolling o altre modalità considerabili non corrette e non trasparenti.

Ho preso visione ed accetto