
In questi giorni, riflettendo sulle sofferenze e le paure che il tempo presente ci riserva, mi sono sentito quasi obbligato a tornare al tempo della prima guerra giudaico-romana per visitare la memoria della decisione della comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme di abbandonare Gerusalemme e rifugiarsi nella città di Pella, nella Decapoli, l’attuale Transgiordania. Un esodo così cruciale da sedurmi come se avesse un valore profetico e normativo per il nostro discernimento di fronte alle guerre devastanti che si abbattono su Ucraina e Palestina.
È l’anno 66 e l’imperatore Nerone invia le legioni per sedare l’insurrezione giudaica. La comunità giudeo-cristiana, dissociata dalla rivolta armata, sceglie di fuggire in un luogo di cultura greca, alternativa, non solo geografica, alla Giudea, all’Idumea, alla Perea e alla Galilea, che si trovavano in stato di insurrezione; lontano anche dalla Samaria e dalla costa dove la situazione era di pericolosa incertezza.
Una tale decisione, a mio avviso, va oltre l’evidente obbedienza al messaggio non violento di Gesù, perché si svolge in un durissimo confronto geopolitico su cui prosperano letture diverse e antagonistiche della congiuntura.
Posizioni differenziate e contrastanti, che sembrano ripetersi ancora oggi nel mondo ebraico e islamico, nell’Occidente cattolico e protestante, nell’Oriente ortodosso, certamente in modo analogo e con una complessità di attori e di questioni che complicano ulteriormente la lettura e le decisioni.
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Una prima osservazione: gli ebrei seguaci di Gesù non si riconoscono nella tradizione nazionalista dell’Alleanza, legata al controllo della terra sacra promessa da JHWH al popolo di Israele, e non si identificano con il radicalismo del partito fariseo e con la guerra santa degli zeloti contro l’invasore romano. Ma non si alleano nemmeno con i collaborazionisti sadducei.
Mi sembra che, già in questi primi anni di “cammino”, i seguaci di Gesù optino per la teologia del Monte degli Ulivi e del Golgota invece che per il Monte Sion, sede del Tempio e dei poteri in Giuda.
E sembrano anticipare concretamente il sogno di Paolo, che scrive ai Galati: «Non c’è più né Giudeo né Greco…: tutti voi, infatti, siete uno in Cristo Gesù”. (Gal 3,28). In questo modo, negano ogni nazionalismo, ogni nostalgia teocratica e ogni affermazione identitaria, che divide, frammenta ed è la miccia dell’inimicizia e delle guerre.
Questa lezione non è ancora stata appresa dai cristiani: una lezione, che è la prima provocazione politica che ci offrono gli esuli di Pella. Insomma, abbandonare il Monte Sion non sarebbe una mera strategia di sopravvivenza, ma una rivoluzione cristologica. E una rivoluzione politica.
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Quando confrontiamo la scelta dei discepoli ebrei di Gesù con l’opzione di Flavio Giuseppe, scopriamo aspetti ancora più interessanti. Lo storico, di famiglia sacerdotale, legato ai sadducei, cittadino romano, si affida all’opzione politica del profeta Geremia, il quale, nel 587 a.C., di fronte ai tre assedi di Gerusalemme, che portarono alla distruzione della città e del tempio di Salomone, predicò, con realismo politico, la sottomissione all’impero babilonese.
Confermato dalle parole del profeta, Giuseppe Flavio, contro il fanatismo religioso che sacralizza la terra, afferma che Israele fu indipendente e vittorioso solo nel tempo epico dell’Esodo, ma che, successivamente, fu costretto a sottomettersi politicamente a tutti gli imperi che si avvicendavano nella sua terra: egiziani, assiri, babilonesi, persiani, greci e romani.
I nazareni, che si riferivano a sé stessi come “La Via” nonostante la loro osservanza delle tradizioni ebraiche – circoncisione, leggi alimentari e osservanza del sabato -, erano oggetto di diffidenza e persecuzione da parte delle autorità religiose legate al tempio e dei farisei.
Dopo decenni di violenze che culminarono con la lapidazione di Stefano nel 34, la decapitazione di Giacomo, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, nel 44, e il martirio di Giacomo il Giusto, fratello di Gesù, nel 63, gli ebrei seguaci di Gesù furono sempre più emarginati dal potere del tempio, ma non potevano certo fidarsi nemmeno dei romani, che, con l’imperatore Nerone, nel 64, iniziarono le persecuzioni, che, ad intermittenza, continueranno fino al 313. Ed è nel 67, a Roma, che Paolo di Tarso viene decapitato mentre Pietro crocifisso a testa in giù.
I profeti spiegarono i disastri, che periodicamente affliggevano il popolo ebraico, come punizione di Dio per Israele per l’infedeltà all’alleanza e per aver dimenticato i comandamenti della Torah. Purtroppo, i cristiani, quando beneficiarono del potere, si approprieranno di questa stessa teologia, trasformandosi da perseguitati in persecutori, per gettare le basi dell’antisemitismo, che caratterizzerà tutta la storia occidentale, da pogrom a pogrom, da persecuzione a persecuzione, fino alla tragedia della Shoah. E, purtroppo, fino ad oggi.
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Già nel II secolo d.C. i Vangeli, quando si voleva ignorare la distinzione tra la responsabilità delle autorità ebraiche e l’innocenza del popolo ebraico, furono posti al servizio del processo di demonizzazione degli ebrei “deicidi”, agenti di Satana, la cui eliminazione era quasi un dovere dei cristiani.
Se guardiamo alla storia della prima guerra giudaico-romana raccontata da Eusebio di Cesarea ed Epifanio, entrambi del IV secolo, possiamo vedere questo antisemitismo senza censure in piena azione.
Nella modernità, l’antisemitismo rimane un fenomeno unico, e difficile, quasi impossibile, da cancellare, nonostante la “conversione” cattolica, che però avvenne solo nel 1965, quando il Concilio Ecumenico Vaticano II, con il documento “Nostra aetate“, ripudiò ufficialmente l’idea della colpa collettiva degli ebrei per la morte di Gesù.
Così, un secondo suggerimento nasce da Pella per il nostro discernimento delle guerre e delle sofferenze di questa stagione della storia: basta con l’antisemitismo antiebraico, ma basta anche con l’antisemitismo antiislamico.
Stiamo assistendo, in questo momento, in Israele, a una riedizione del fanatismo zelota e, in Russia, alla riproposizione dell’alleanza costantiniana tra Chiesa e Impero.
La scelta della comunità di Gerusalemme può dirci qualcosa di essenziale su queste situazioni?
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Ancora oggi, queste guerre non dovrebbero essere le nostre, ma, di fatto, settori significativi del mondo protestante e cattolico sostengono Israele, perché è Europa, l’Occidente, il “noi” contro la barbarie islamica. In Occidente, abbiamo un’identificazione accomodante e cinicamente realistica con l’impero degli Stati Uniti, accompagnata da una versione antislamica dell’antisemitismo.
Seguendo la scuola di Flavio Giuseppe, i paesi della NATO hanno deciso che la sovranità nazionale è una pretesa inutile e che è necessario rimanere protetti dal potere economico, politico e militare degli Stati Uniti. Ed è Washington che fornisce armi a Israele e all’Ucraina. Ci sono anche cristiani che sostengono le vittime del genocidio di Gaza, ma non hanno una lettura critica di Hamas e Hezbollah, fanatici fondamentalisti islamici della Jihad, decisi a sconfiggere non solo Israele, ma tutto l’Occidente perverso e corrotto.
Altri sostengono la resistenza ucraina all’invasione russa, ma non pochi, appartenenti allo stesso spettro politico, perché in radicale opposizione alla NATO, difendono le “ragioni” della crociata di Putin e della Terza Roma contro l’Europa.
E non mancano i pacifisti cristiani, che, in alcune circostanze, si rivelano irenisti, che non assumono posizioni chiare e di scontro con la logica disumana degli imperi. Così, ci sono anche alcune incertezze politiche del papa stesso, che in alcune occasioni rifiuta di svolgere il ruolo di cappellano dell’Occidente, ma in altre occasioni rivela quanto il costantinismo influisca ancora sulla diplomazia dello Stato del Vaticano.
Terzo suggerimento: insomma, gli espatriati di Pella, insieme a Paolo di Tarso, potrebbero insegnarci che i discepoli di Gesù sono chiamati a un’opposizione radicale ed esplicita a tutti gli imperi.
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Insieme al Tempio, l’Impero è l’anti-regno. Paolo ha questa chiarezza quando sceglie di definire Gesù come κύριος, kurios, Signore, in netta e polemica opposizione all’unico kurios riconosciuto come divinità politica, l’imperatore romano. Ed è a causa di questa infedeltà politica e dell’adesione nella fede all’unico Signore che i primi passi del movimento cristiano sono stati tempi di profeti e martiri.
Pensare e fare politica come Gesù e con Gesù comporta una conversione a questo “oltre” di Gesù, al suo Regno che va “oltre” il piccolo cabotaggio degli accordi congiunturali, “oltre” le corporazioni ideologiche, che tendono sempre a impadronirsi della religione per ridurla a strumento di difesa dello status quo o al contesto di strategie elettorali.
Un “oltre” che dovrebbe essere anche un “contro”, soprattutto quando il cristianesimo viene manipolato per servire da sostegno ai nuovi fascismi. Fino a diventare cristofascismo. Un “oltre” radicalmente critico anche dell’agenda superata e omessa della sinistra, apparentemente condannata a ripetersi, dimenticando l’appello ad occuparsi con urgenza delle ferite mortali inferte alla Vita e ai poveri dalla “religione” capitalista e dai suoi fedeli.
Come dimenticare l’opposizione di Gesù all’Impero Romano narrata nel vangelo di Marco, quando la legione diabolica (la X Legione Fretense?) che abita in un cimitero e tormenta l’indemoniato di Gerasa (Mc 5,1-20), viene espulsa ed entra in un branco di maiali immondi che si gettano in un abisso.
Così sogno e combatto per un mondo in cui nessuno soffra la fame e tutti siano stranieri, espatriati, apolidi, esiliati, senza nazioni, stati e identità, senza atlantismo e senza vie della seta, senza i virus delle tradizioni etniche, religiose, culturali e diritti esclusivi, parmenidei, ebrei o coranici, panellenici o panrussi… e, ovviamente, cristiani con tutte le loro confessioni.






Imagine there’s no countries
It isn’t hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion, too
Imagine all the people
Livin’ life in peace
You
You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world will be as one.
In questi giorni di sofferenza e incertezza, la memoria del drammatico esodo della comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme verso Pella mi appare come un paradigma illuminante. La loro scelta, nell’anno 66, non fu soltanto una fuga dalle violenze della prima guerra giudaico-romana, ma una testimonianza viva di opposizione alla violenza e fedeltà al messaggio non violento di Gesù.
Rinunciando alla difesa armata, i seguaci di Gesù abbandonarono Gerusalemme, dissociandosi sia dal nazionalismo zelota sia dalle compromissioni dei collaborazionisti sadducei. Questa decisione fu molto più che una strategia di sopravvivenza: rappresentò una rivoluzione cristologica e politica. Optarono per la teologia del Monte degli Ulivi e del Golgota, rifiutando ogni identificazione con il Monte Sion, simbolo del potere teocratico e identitario.
Come scrive Paolo ai Galati: «Non c’è più né Giudeo né Greco…: tutti voi, infatti, siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Questo rifiuto di nazionalismi e divisioni identitarie è una lezione ancora attuale, nonostante l’incapacità dei cristiani di interiorizzarla pienamente nella storia.
Guardando ai conflitti in Palestina e Ucraina, emerge una tragica ripetizione di dinamiche simili. Settori del mondo cristiano si schierano con Israele come baluardo dell’Occidente contro l’“altro” islamico, o sostengono i genocidi in corso a Gaza senza una lettura critica delle realtà come Hamas e Hezbollah. Altri, pur opponendosi all’invasione russa, simpatizzano con la crociata di Putin contro l’Europa liberale.
Come gli esuli di Pella, oggi siamo chiamati a un’opposizione radicale a tutti gli imperi. La visione di Paolo, che proclamava Gesù come kurios in contrasto con il culto dell’imperatore, resta un monito per i cristiani a rifiutare ogni compromesso con i poteri oppressivi.
Pensare politicamente come Gesù implica superare il piccolo cabotaggio delle alleanze congiunturali e opporsi alle manipolazioni religiose che sostengono i nuovi fascismi e i cristofascismi. È necessario riscoprire una fede che non si presti a giustificare né i massacri imperiali né l’oppressione capitalista.
Concludo con una provocazione: il Regno di Dio è un mondo senza nazioni, senza confini, senza identità divisive. È un sogno radicale, che ci invita a combattere contro ogni forma di potere disumanizzante e per un mondo in cui tutti possano essere accolti, liberi dalla fame e dall’oppressione.
Lasciamo perdere un tentativo di teologia della storia . Le riflessioni su questo versante sono immense e sempre di grande impatto e suggestione. Igenere, quando trattiamo questi argomenti abbiamo di fronte agli occhi lo scenario così composito e problematico delle grandi religioni, grandi aggregazioni tradizionali con tutta la loro storia ed abbiamo forse in mente il tentativo che tutto questo si componga in un mondo che noi ipotizziamo di pace. Forse dimentichiamo o tentiamo di tacitare un’altra realtà: il mondo attuale, con tutte le forze schierate da Satana (premetto che non sono un fondamentalista), sarà un conflitto fino alla fine. Solo la conversione a Cristo potrebbe spegnere ogni ostilità. Forse tornare a leggere la storia con i criteri dell’Apocalisse potrebbe darci una visione più realistica cristianamente. Avete mai trovato nel N.Tn un’esortazione a pregare per la pace nel mondo? Ogni volta che si parla di pace ci si riferisce ai cristiani, oggetto della pace celeste e operatori di pace. Sarà possibile che le varie parti alla fine si convertano a Cristo? Molti passi biblici ci dicono che no.
Il rapporto tra cristianesimo e potere non è un rapporto facile come sembra. Basti pensare quanto il potere (politico) abbia respinto il cristianesimo. Alla base, come ho fatto notare a suo tempo, c’è il rapporto di Gesù con il potere.
Occorre piena consapevolezza degli errori fatti può garantire che non vengano ripetuti. Ho sempre pensato che se la chiesa, nonostante se stessa, continuava ad esistere fosse la prova dell’esistenza di Dio. Qualunque altra istituzione avesse fatto gli stessi errori oggi sarebbe morta e sepolta.
Tutto il discorso è più che giusto, ma giova anche ricordare che nei secoli passati nella Chiesa ci fu meno antisemitismo di quanto la comune narrazione voglia far credere. Papi come Clemente VI o Martino V, anzi, prevedevano la scomunica per chiunque avesse ucciso un ebreo. Sicuramente sono stati fatti anche tanti errori nei secoli, ma non lasciamoci trasportare dalla “leggenda nera”