
Il portale satirico tedesco «Der Postillon» ha di recente pubblicato un sondaggio in latino, per sopperire alla presunta sparizione del latino in Vaticano. Fino a poco tempo fa infatti, gli atti della curia romana dovevano essere «di regola» redatti prevalentemente in latino. A partire dal 1° gennaio 2026, tale prescrizione è stata però attenuata nel nuovo regolamento della curia romana (Art. 50): le istituzioni curiali possono ora stendere i loro documenti in latino o in un’altra lingua. Ne abbiamo parlato in una intervista con il prof. Gianluca De Candia, teologo e filosofo, professore ordinario di Filosofia e dialogo con la cultura contemporanea presso la Kölner Hochschule für Katholische Theologie (KHKT).
- Prof. De Candia, quali ragioni sottendono questo mutamento?
Nella prassi amministrativa della curia romana, il latino era da tempo meno diffuso. Da un lato, il personale — laici come chierici — si è progressivamente internazionalizzato; dall’altro, non si può più presupporre che tutti lo padroneggino in misura sufficiente per lavorarvi quotidianamente.
- Anche tra i vescovi e i cardinali?
De Candia: Dipende dalla generazione di appartenenza e dal paese d’origine. Nel recente conclave, l’uso del latino è rimasto confinato alla liturgia e ai riti, mentre l’italiano ha assunto il ruolo di lingua ufficiale per le procedure. Tuttavia, non tutti i 133 cardinali padroneggiano l’italiano, sicché le discussioni tra i porporati si sono svolte in varie lingue, se non in inglese. Al contrario, durante il Concilio Vaticano II, il latino — con sole rarissime eccezioni — era imprescindibile per gli interventi nelle quattro sessioni plenarie. I padri conciliari, oltre all’assistenza dei periti teologici, si avvalsero anche di quella dei latinisti. Esso segnò l’ultima occasione in cui il latino fu impiegato come lingua ecclesiale attiva e viva, non solo liturgica.
- Il latino sparirà allora del tutto in avvenire?
Per la Chiesa del rito latino non può scomparire, pur perdendo in gran parte il suo ruolo di strumento amministrativo quotidiano. Non si deve dimenticare che papa Leone XIV ha istituito un nuovo ufficio per la lingua latina nella Segreteria di Stato, affinché i documenti rilevanti continuino a essere tradotti in latino.
- Il latino diventa dunque di fatto una lingua “semi-morta”, relegata al Messale romano e ai documenti d’archivio?
Qui emerge un’ambivalenza. A Radio Vaticana vanno in onda in latino due programmi: Hebdomada Papae (La settimana del Papa) e Anima Latina, Radio colloquia de lingua Ecclesiae. I followers dell’account molto frequentato Pontifex_ln sfiorano il milione, quasi il doppio dei profili pontifici in tedesco. Il bancomat dello Stato della Città del Vaticano reca iscrizioni latine, e il Lexicon recentis latinitatis del 1992 ha coniato 15.000 neologismi, come “armarium frigidarium” per “frigorifero”, “autocinetum meritrium” per “taxi”, “instrumentum computatrium” per “computer” o “botellus Germanicus” per “Wurst”. Tutto ciò suggerirebbe che il latino sia una lingua parlata nello Stato vaticano — donde le nuove formazioni lessicali —, il che è naturalmente una finzione.
D’altro canto, ciò collide con la costituzione apostolica Veterum sapientia di Giovanni XXIII (22 febbraio 1962), che esaltava il latino come lingua della Chiesa proprio in ragione della sua “immutabilità”. A differenza delle lingue volgari, il latino ha ormai compiuto il proprio ciclo di evoluzione e, come ritenevano Giovanni XXIII e i suoi predecessori, appariva pertanto più adatto a custodire e trasmettere il depositum fidei in un lessico unitario e stabile attraverso i secoli.
- Paradossalmente, Giovanni XXIII promosse lo studio e l’uso del latino poco prima di indire il Concilio…
Il primo documento conciliare che non prende più sul serio la dichiarazione di immutabilità del latino di Veterum sapientia è Gaudium et spes. A differenza di Dignitatis humanae, Dei verbum, Lumen gentium o Sacrosanctum concilium – il cui latino, di raffinata eleganza, riprende lo stile linguistico patristico e biblico dei concili precedenti –, Gaudium et spes nacque da una traduzione latina affrettata, che introdusse neologismi come “civilizatio”, “industrializatio”, “dissensiones raciales” o “opinio publica”, che indignarono molti latinisti e padri conciliari per la loro grossolanità.
- Una tensione notevole…
È l’antica tensione di ciceroniana memoria tra “lettera” e “spirito”. La necessità di coniare neologismi rivela in realtà la questione più profonda di come intendere la Tradizione come un processo vivo di traduzione — tema a cui ho dedicato il mio recente studio (Die Dynamik des Wortes. Fortwährende Übersetzung als Prinzip christlicher Überlieferung, Herder 2025). O la tradizione cattolica è, per dir così, una “lingua morta”, sicché tutte le possibili domande sono già state poste e disponiamo di risposte belle e pronte anche per questioni attuali; oppure essa vive di una dinamica operante nella comunità dei credenti, e allora il vocabolario di Cicerone non basta più. Gaudium et spes porta in sé questa tensione nel modo più evidente — e essa attraversa anche il nostro presente.






È ovviamente la mia opinione, ma proprio perchè non c’è alcun popolo che quotidianamente e abitualmente parli in latino, questa lingua è morta e come tale dovrebbe essere trattata.
Se poi ci sono prelati o laici tradizionalisti che la considerano ancora quasi magica, vorrei ricordare che la base del cristianesimo è la Bibbia che è stata scritta in ebraico e in greco-koinè.