
Padre Claudio Monge, frate domenicano, vive da quasi 24 anni a Istanbul, dove dirige il Centro per il dialogo interculturale DoSt-I (Dominican Study Institute). Ci riceve nel convento che sorge a fianco della chiesa dei Santi Pietro e Paolo, attuale sede dei domenicani di Istanbul, dove questi ultimi si sono stabiliti quando le autorità ottomane hanno convertito la chiesa di San Paolo in quella che oggi è nota come Arap Camii, moschea araba, così soprannominata perché qui vi pregavano i musulmani che avevano trovato rifugio nell’impero Ottomano dopo la Reconquista spagnola. L’intervista a p. Claudio Monge è curata da Claudia Catanzaro e Claudio Fontana e pubblicata sul sito della Fondazione OASIS lo scorso 9 dicembre 2025.
- Dopo il viaggio di Benedetto del 2006 e quello di Francesco nel 2014, per te è la terza volta che collabori all’organizzazione di una visita papale in Turchia. Prima ancora due pontefici avevano visitato il Paese. Come si è inserito il viaggio di Leone XIV in questa ormai lunga storia?
Il primo viaggio risale a Paolo VI, nel 1967: un viaggio simbolico, in un’epoca in cui si toglievano le reciproche scomuniche e si cercava una distensione con il mondo ortodosso. Poi venne Giovanni Paolo II, che visitò la Turchia in un contesto molto diverso: un Papa che aveva viaggiato ovunque, e che quindi qui ebbe forse meno risonanza. La sua fu tra l’altro una visita semi-ufficiale, al punto che non celebrò neanche in Cattedrale, ma nella chiesa di Sant’Antonio.
Dopo di lui, i viaggi si sono fatti più ravvicinati: 2006, 2014 e ora questo del 2026, tutti segnati fortemente dalla complessità politica del momento. Quello del 2006, ad esempio, avvenne subito dopo il discorso di Ratisbona: Benedetto XVI arrivò sotto una pressione mediatica enorme, e il fatto che il viaggio risultò un successo sorprese molti, anche perché lui non era incline ai gesti simbolici. Papa Francesco nel 2014 visitò un Paese che non aveva ancora attraversato il trauma del 2016, uno spartiacque nella storia recente.
Papa Leone XIV – come Benedetto – concede poco alla spettacolarità, è riservato e prudente. Ma nelle sue reazioni “di seconda battuta”, soprattutto negli scritti, si intravedono grande profondità e posizioni estremamente coraggiose. È uno che su alcuni dossier fondamentali non arretra, e lo si capisce fin dai suoi primi testi, arrivati dopo settimane in cui i giornalisti si lamentavano che “non scrive” e “non parla”. Oggi tutto si brucia troppo velocemente, ma lui non gioca su questo registro. Spero davvero che questo viaggio possa avere un peso specifico ancora superiore ai precedenti. Per questo va analizzato con cura e vanno valutate le sue ricadute future.
- Quali differenze vedi rispetto alle altre visite, al di là del diverso contesto politico in cui hanno avuto luogo?
Abbiamo fatto una scelta rischiosa, ma che si sta rivelando vincente: coinvolgere molto più direttamente i turchi nell’organizzazione logistica e mediatica del viaggio. Abbiamo chiesto alla TRT, la televisione nazionale, di produrre e distribuire il segnale globale dell’intero evento, dall’atterraggio ad Ankara alla partenza da Istanbul. Hanno investito mezzi importanti: all’aeroporto, ad esempio, c’erano cinque telecamere solo per riprendere la partenza. Inoltre, l’accreditamento dei giornalisti da tutto il mondo è stato formalizzato dall’Ufficio per la comunicazione della Presidenza turca, le agenzie turche dell’informazione erano massicciamente presenti non solo per la parte protocollare e politica del viaggio, mentre alcuni rappresentanti dell’informazione turca erano tra gli ammessi al volo papale stesso.
Questo per dire con chiarezza che il Viaggio Apostolico non seguiva alcuna agenda nascosta: i cristiani di Turchia non sono la “longa manus” delle potenze occidentali, ma uomini e donne che chiedono di partecipare in modo attivo alla costruzione della società, contribuendo alla dialettica e al benessere del Paese. È una grossa novità, e allo stesso tempo un’evoluzione che auspichiamo non solo dal punto di vista della lettura politica e mediatica internazionale, ma che vorremmo poter produrre all’interno delle Chiese stesse.
- In che senso?
Si tratta di uscire da una postura di ripiegamento etnico-identitario di comunità che tendono ad auto-ghettizzarsi chiedendo di essere rispettate in uno stato di “eccezione”. È una postura senza futuro, ne sono convinto anche teologicamente. Il magistero anche recente, penso in particolare al documento di Abu Dhabi, va in un’altra direzione. Il futuro delle fedi minoritarie – un termine che tra l’altro detesto, perché la minoranza è un concetto quantitativo-statistico che teologicamente non ci interessa – non dipende dai numeri, ma dall’affermazione di una cittadinanza inclusiva. E noi siamo cittadini di Turchia, spesso anche turchi.
Ovviamente questo è un dossier molto complesso. Ma noi non vogliamo essere costretti a scegliere tra essere cittadini o credenti: siamo cittadini e credenti. E questo è perfettamente compatibile con una visione laica dello Stato. In quest’ottica chiediamo di poter agire all’interno delle regole più o meno democratiche vigenti, esercitando, quando necessario, anche un’obiezione di coscienza. Questo è il percorso moderno della cittadinanza, non quello – ormai superato – dei millet ottomani.
- Che volto ha assunto in questi anni la presenza dei cattolici a Istanbul?
Oggi la Chiesa Cattolica Latina in Turchia sta diventando sempre più “turca”: la lingua turca stessa diventa maggioritaria nelle nostre assemblee.
- Ma al di là degli aspetti numerici, cosa significa che la Chiesa sta diventando più “turca”?
I cattolici latini storici, noti come “levantini”, pur essendo nati spesso e volentieri in Turchia, rivendicavano la loro non “turcità”. Molti dei nostri catecumeni attuali sono turchi e culturalmente turchi, che arrivano alle porte delle nostre comunità spesso dopo aver intrapreso un lungo cammino di ricerca spirituale, già all’interno dell’Islam, nella diversità delle sue espressioni. A differenza di vent’anni fa, non lo fanno come “passe-partout” per approdare più facilmente in Occidente. Sono spesso persone che non hanno i mezzi per emigrare e non vi ambiscono.
Questa è una novità immensa, e dobbiamo aiutarli a non trincerarsi nella logica di una comunità etnica chiusa sullo stile dei millet ottomani: siamo oltre quella fase storica. La nuova pagina è la cittadinanza, non l’appartenenza etnico-religiosa. Il futuro è da giocarsi dentro le regole della democrazia turca – con le sue imperfezioni – contribuendo alla vita della società senza cercare privilegi, ma difendendo i propri diritti.
- Perché è stata importante la dimensione mediatica a cui facevi riferimento prima? L’immagine pubblica dei cristiani in Turchia è cambiata durante il viaggio?
Sì, in modo significativo. L’evento simbolico più forte è stata la Messa nella Volkswagen Arena di Istanbul, trasmessa in diretta da TRT World. Per la prima volta è stata data al Paese – e al mondo – un’immagine dei cristiani gioiosa, pubblica e non ghettizzata. Non chiusi negli spazi riservati delle loro chiese, ma convenuti in un luogo pubblico, normalmente destinato a concerti e sport, trasformato per un giorno in spazio di preghiera.
La cosa ha colpito profondamente i partner turchi: giornalisti, tecnici, direttori dell’arena hanno assistito a un rito che non aveva niente né degli show occidentali né di un certo Televangelismo americano. È stato un evento semplice, orante, privo di spettacolarizzazione. Già nelle sonorità dei canti, nel Salmo, si sono incrociati il mondo orientale, l’aramaico, l’armeno, e quello occidentale, con un risultato non cacofonico. Questo perché è il Mistero Pasquale che unisce i cristiani, non certo le particolarità rituali, rispettabili ma funzionali a comunità molto più ristrette.
L’impatto è stato positivo, perché anche i non-cristiani turchi hanno potuto riconoscervi qualcosa della ricchezza della loro terra. Gli stessi ringraziamenti finali – sinceri – rivolti alla Presidenza della Repubblica per il supporto logistico-organizzativo hanno colpito il pubblico turco. Non è stato un omaggio interessato al potere ma il riconoscimento di un aiuto reale: questo evento non sarebbe stato materialmente possibile senza il sostegno fattivo del governo. Vorremmo che questo stile diventasse un atteggiamento quotidiano, uno sguardo reciproco di fiducia e rispetto.
Anche la copertura mediatica dell’incontro a Nicea è stata importante. La TRT ha prodotto immagini splendide, anche grazie a una giornata di luce incredibile. Il drone che sorvolava le rive del lago omonimo al tramonto del sole resterà nella memoria. La regia turca ha lavorato con una professionalità impeccabile.
E i media turchi hanno accettato di riprendere in mano la storia, per capire qualcosa dell’importanza data dai cristiani a questo sito archeologico, uno tra i tanti nelle campagne anatoliche. Così hanno scoperto che Nicea è parte anche della loro storia, non solo di quella dei cristiani. La narrazione è cambiata: il cristianesimo è qualcosa di più, per la Turchia, che un buon investimento per l’industria del turismo, come era stato un po’ ridotto il Viaggio Apostolico di papa Benedetto del 2006, quando il Pontefice diventò, suo malgrado, testimonial dei manifesti del Ministero del Turismo.





