Il gusto della vita

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oliva1

Persino dall’abisso della precarietà umana può nascere – se ne riconosciamo la legittimità – l’anelito che, attraverso le pieghe della storia, ci conduce al gusto di essa. Antonio Gramsci dal carcere così scriveva alla mamma: «Si diventa vecchi quando si incomincia a temere la morte e quando si prova dispiacere a vedere gli altri fare ciò che noi non possiamo più fare. Finché si vuol vivere, finché si sente il gusto della vita e si vuole raggiungere ancora qualche scopo, si resiste a tutti gli acciacchi e a tutte le malattie».

Se l’insicurezza umana è narrazione del significato – a volte ignoto – di ciò che siamo, i cammini tortuosi compiuti al di là delle apparenze e dei riconoscimenti conducono verso mete più alte. A volte occorre maggiore delicatezza verso questa precarietà che desidera essere riconosciuta come appello che sale a Dio dai bassifondi della nostra complessità perché essa diventa ‘gustosa’ nel momento in cui si scopre possibilità e non solo mera fatticità.

Le domande partorite dalla precarietà umana esprimono il potenziale di un’inquietudine da non addomesticare poiché invitano ad uscire dall’individuale visione limitata delle cose. Soprattutto nei paesi occidentali questa precarietà assume i contorni di una povertà di tempo che, subdolamente, supera una semplice questione di orologio. La ‘mancanza’ di tempo provoca una corsa continua, evitando gesti “inutili”, verso il ripiegamento sul presente che – a stento – si tenta di dilatare sempre più. Come accade per le diverse forme di povertà, anche la seguente tende ad esasperare la mancanza fino ad assolutizzarla: quando si scopre che il presente non è tutto, ma una parte del tempo, si diventa succubi dell’ansia per paura di attraversare la vita.

Ma la povertà del tempo non è mai legata al presente che viene meno, bensì al futuro che incombe, cioè al tempo che sta per venire: “Come sarà? Cosa accadrà? Riuscirò a cavarmela?” Quando si diventa affamati di tempo l’unica soluzione è quella di riempire con attese eccessive un presente che fatica a diventare eterno. Così cresce senza sosta la frenesia di stimare ciò che siamo capaci di realizzare, la fretta di camuffare ciò che ancora non siamo diventati e soprattutto la paura di non meritare il giusto per le nostre prestazioni.

Se il tempo che resta sembra ridotto allora occorre dimostrare tutto e adesso, disposti alla logica disumana della competizione per meritare l’approvazione altrui e quando non arriva si approda nel disagio con la realtà. Questo è il malessere che dilaga ai nostri giorni abitati dalle vittime dell’ansia, tipica di chi fugge dalla propria vulnerabilità rincorrendo comodi e raggiungibili paradisi artificiali.

L’eterno presente ci ripiega così su noi stessi, trasformandoci in brutte copie dal famoso Narciso privi della capacità di prenderci cura dell’altro: l’amore infatti non esiste come ideale ma come sentiero da percorrere. Ai sentimenti contrastanti della paura è urgente rispondere con un esercizio di sentimenti positivi capaci di tirar fuori la dimensione affettiva che abita la verità dell’umano: lì, infatti, è nascosto il tesoro (Mt 6,21).

Se il presente non è tutto, il futuro diventa il tempo dell’imprevedibile. L’inedito costituisce così la riserva di possibilità attraverso la quale la precarietà umana può ancora desiderare. Non casualmente al cuore del messaggio di Gesù alberga quell’imperativo che libera ogni desiderio di vita: “Non affannatevi per il domani” (Mt 6,34). Il futuro non solo è ciò che ci viene incontro, ma anche ciò che posso diventare poiché “l’uomo si sperimenta come la possibilità infinita” (K. Rahner).

Ogni soluzione che l’uomo trova alla sua precarietà è sempre provvisoria, ogni appagamento all’ansia che escogita è sempre relativo: per tale motivo abbiamo bisogno del futuro per realizzare noi stessi. Il futuro è il tempo in cui posso immaginarmi, articolarmi e desiderarmi (V. Costa, La società dell’ansia, Roma 2024, 67). Il tempo, infatti, è anche attesa non solo godimento: gestazione di un desiderio che ci spinge oltre lo spazio ristretto dell’ansia da prestazioni.

In fondo Dio è colui che vuole essere desiderato non posseduto, atteso non rinchiuso: con Lui il futuro diventa la possibilità di esprimere a pieno il desiderio di vivere e amare perché è fedele alla sua promessa: “Sì, vengo presto!” (Ap 22,20).

  • Pubblicato sull’Osservatore Romano il 10/1/2025.
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