Diario di guerra /8

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Nel mio diario di guerra, sinora, mi sono occupato, prevalentemente, di quanto emerso dal mondo arabo islamico. Il dialogo islamo-cristiano è ciò che maggiormente mi interessa da vent’anni. In questa pagina oggi mi sembra, però, importante prestare pure attenzione a quanto emerge da importanti esponenti politici del mondo ebraico-americano. Ne riferisce The Times of Israel. Prenderne nota potrebbe non essere un semplice esercizio di stile.

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Mi riferisco, in particolare, alle posizioni espresse da tre parlamentari americani, ebrei: la democratica Becca Balint del Vermont, il democratico Dean Phillips del Minnesota e il senatore democratico Jon Ossoff della Georgia.

Nell’aula del Senato, Jon Ossoff – che ha sempre cercato di rappresentare un punto di convergenza nel sostegno indiscusso ad Israele – ha dichiarato che «l’ampiezza dei morti civili e delle sofferenze a Gaza non è necessario. È un fallimento morale, e dovrebbe essere inaccettabile per gli Stati Uniti». Probabilmente non sapeva delle più recenti e drammatiche notizie, e forse neanche di esprimere una linea che evidentemente non combacia con quella del primo ministro Netanyahu per il quale i morti civili a Gaza «sono troppi», «ma non è colpa nostra».

Ossoff non aveva chiesto prima, come una ventina di deputati della sinistra del suo partito, il cessate il fuoco, ma ora non sembra più lontano da quel campo. Questo il cuore del suo intervento: «Un disastro umanitario a Gaza… mina la sicurezza nazionale americana: diffonde i semi dell’odio e riduce le prospettive di una pace duratura e sostenibile tra israeliani e palestinesi. Alimenta i terroristi che vorrebbero colpire, l’America e i nostri alleati: danneggia la nostra credibilità e quella dei nostri alleati quali portatori di un futuro definito da valori umanitari. Se in sei mesi Gaza sarà in macerie e decine di migliaia di civili morti e milioni di disperati rifugiati non avranno piani possibili per governare le loro macerie, questo sarà un disastro, non solo per i morti, i feriti, gli immiseriti, ma anche per Israele, per la regione e per l’America».

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Su un sito del Vermont, il suo Stato, Becca Balint è stata la prima democratica a chiedere un «vero, negoziato per un cessate il fuoco, nel quale entrambe le parti si impegnino a porre termine allo spargimento di sangue, consentire l’accesso di aiuti umanitari e muoversi verso una pace negoziata e sostenibile».

La prima ad accorgersi del passo della Balint e del suo significato è stata la leader del campo più a sinistra dei democratici, l’onorevole Alexandria Ocasio-Cortez, che ha definito la collega «estremamente coraggiosa».

Il moderato Dean Phillips, impegnato nelle primarie del suo partito come sfidante di Biden, dal canto suo, ha detto che distruggere il network del terrore rappresentato da Hamas è imprescindibile, ma che l’azione di Israele è costata già la vita a troppi civili palestinesi, che non fanno parte della macchina del terrore di Hamas ma che ne sono solo vittime. Inoltre, le politiche del governo Netanyahu in Cisgiordania, per Phillips, contemplano repressione e insediamenti illegali.

Certo: il corso degli avvenimenti potrà indurre ulteriori polarizzazioni, non la moderazione. Non ho dubbi su quanto sia profonda, negli Stati Uniti, la consapevolezza che gli attacchi miliziani in Iraq e in Siria, contro le postazioni militari americane, dal 7 ottobre, sono stati già più di 60. Corrisponde a ciò che, nel suo discorso, ha annunciato il capo di Hebollah. Hasa Nasrallah, circa la «guerra d’attrito contro il grande Satana» americano. È del tutto evidente.

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Intanto, a Gaza, incombe il collasso umanitario, col rischio di epidemie: ovvio che le voci – che possiamo definire moderate – avvertano la pressione del tempo che passa, ogni giorno di più. Basta leggere anche i titoli dei giornali regionali per rendersene conto.

Nel campo arabo-islamico, tuttavia, un tale semplice esercizio, risulta complesso. i quotidiani dei Paesi del fronte filoiraniano danno una lettura del tutto omogenea agli orientamenti governativi, mentre, dall’altra parte del discrimine arabo, ossia nel fronte guidato dai sauditi, accade la stessa cosa, ma con orientamenti rovesciati.

Prendiamo atto che così stanno le cose. Eppure, stanno emergendo fatti comunque rilevanti, «pescati» dalla forza globale del web. Tra questi spicca quanto ha voluto evidenziare il quotidiano saudita Arab News, in evidente, aperta, critica alla televisione del fronte avverso, quello della veemente al Jazeera, di proprietà del Qatar. Le intenzioni di Arab News saranno pur «pilotate dal palazzo», ma ciò che si fa osservare attiene alla realtà dell’opinione pubblica arabo musulmana. Vediamo di che si tratta.

Il 16 novembre scorso al Jazeera ha intervistato, contemporaneamente, la madre israeliana di una delle donne prese in ostaggio il 7 ottobre e il dirigente di Hamas incaricato proprio della questione degli ostaggi, Zaher Jabareen. Nel riferirne, Arab News ha fatto notare che la messa in onda ha suscitato un vespaio, almeno a giudicare dai commenti che molti ascoltatori arabi hanno affidato agli appositi spazi online. E li ha ripubblicati, commentandoli a sua volta.

Riporto quanto scritto dal corrispondente del Financial Times da Riad, Samer al-Atrush, per il quale al Jazeera ha fatto ottimi reportage da Gaza, ma detto questo, ha aggiunto: «perché ospitare la madre di un ostaggio assieme a un dirigente di Hamas, ponendole domande politiche?». È un punto molto importante, sebbene io capisca che non si possa ritenere un solo parere rappresentativo di «un’opinione pubblica diffusa».

Il quotidiano saudita ha proseguito però, presentando numerosi fruitori «ordinari» che hanno voluto esprimere la loro vicinanza o empatia alla madre – israeliana – della donna israeliana presa in ostaggio. Un commentatore della notizia – tale Yazan – ha, tra l’altro, sottolineato che «la signora non poteva essere criticata per le azioni del suo governo».

Il punto è stato evidenziato da un altro telespettatore: «perché vi siete messi a discutere di politica con la madre di un ostaggio?». Un altro ancora, riportato sempre da Arab News, è arrivato a dissentire significativamente dalla scelta editoriale di al Jazeera: «non potevate scegliere un altro ospite per parlare di politica?».

Alla donna, infatti, è stato chiesto se Israele non debba ritirarsi dai territori occupati: domanda – a giudicare dai commenti riportati – che non ha funzionato. Davanti a una madre in pena per la figlia, il consueto schema oppositivo ha vacillato. Molti hanno ritenuto loro dovere morale far sentire la loro voce!

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Mi chiedo: dove sono, allora, le civiltà – o le «non civiltà» – radicalmente incapaci di riconoscere il dolore come dolore di una madre angosciata? È questo che comunque unisce chi continua a esprimersi in modi spesso opposti, se chiamato solo ad attribuire torti e ragioni.

Gli opposti estremismi, chiaramente, esistono. Possono ulteriormente esplodere. Ma esiste anche quella insopprimibile empatia generata dalla comune cognizione del dolore. C’è l’odio. E c’è l’umana pietà degli umani.

Uno dei passaggi, per me, più forti e comunicativi del Documento sulla fratellanza umana, firmato da papa Francesco e dall’imam al Tayyib, è posto proprio all’inizio, quando i firmatari affermano di volersi esprimere «in nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati, dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna».

Questa è la forza «radicale» della «moderazione», quella che «può essere più forte della forza»: meglio sarebbe prenderla sul serio, subito, da tutte le parti, prima che il possibile – terribile – esito di trasferire l’intera popolazione di Gaza nel deserto del Sinai – in una sorta di Gaza «2» – possa essere proposto; ipotesi molto pericolosa.

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