
Pubblichiamo gli appunti per una relazione orale svolta in una tavola rotonda – insieme a interventi di Marco Giovannoni, Miriam Camerini, Shahrzad Houshmand e diversi altri/e – svoltasi presso la giornata di formazione “Mediterraneo laboratorio di Pace” presso l’ISSR di Rimini coordinato dal professor Marco Casadei e dalla professoressa Abir Hanna.
Desideriamo indagare – per poterlo disinnescare – quel fenomeno per cui il mistero di Dio – rivendicato da tutti i figli di Abramo, ebrei, cristiani e musulmani, come l’unico, il trascendente, il sempre più grande – viene singolarmente tribalizzato ed etnicizzato (“il nostro Dio”), territorializzato (la “nostra terra santa”), politicizzato (“Dio è con noi qualsiasi cosa facciamo”) e, per così dire, reso coloniale (la “nostra giusta e necessaria superiorità e supremazia”).
Per usare le parole della Weil[1] in relazione al cristianesimo: «La cristianità è divenuta totalitaria, conquistatrice, sterminatrice perché non ha sviluppata la nozione dell’assenza e della non-azione di Dio quaggiù sulla terra». Per disinnescare tale paradossale riduzione teologica, che ha disastrose conseguenze interiori e politiche, credo si possa accennare al modo di leggere i testi sacri e alle opzioni di fondo che stanno dietro i processi di interpretazione. Cercando così di rispondere alla nostra domanda fondamentale: è possibile una «società che testimoni Dio e non si limiti a fare di Dio il proprio possesso»? [2]
Radicamento
In primo luogo, fa parte della lettura dei testi la consapevolezza del proprio punto di osservazione e della propria collocazione. Nessuno riflette “a partire da nessun luogo” con tutto quello che questo comporta in termini di parzialità, di questioni non viste e non visibili, di interessi in gioco, di traumi subiti o inferti.
È un posizionamento consapevole, sempre nuovamente da guadagnare, che aiuta nel coltivare una postura modesta che fa parte del patrimonio intellettuale e mistico di ogni grande tradizione religiosa.
Basti qui ricordare l’affermazione della Weil[3]: «L’intelligenza non può mai penetrare il mistero, ma può (e lo può essa sola) dar conto della adeguatezza delle parole che lo esprimono. Per questo uso dev’essere più acuta, più penetrante, più precisa, più rigorosa e più esigente che per ogni altro».
Dialettiche tra violenza e nonviolenza
In secondo luogo i testi, per quanto legittimamente creduti come ispirati da Dio, sono dentro la storia umana e affidati alla responsabilità degli uomini e delle donne. Si tratta di quella storicità essenziale della fede islamica, cristiana ed ebraica: in tal senso le fonti sono come alberi rovesciati che hanno radici profonde nel mistero di Dio, ma la cui terra, il tronco, le foglie e i frutti abitano all’interno di contesti storici precisi.
In tale quadro, quando la lettura incontra nei testi la violenza e l’etnocentrismo, la giustizia intesa come vendetta, l’esclusione, la cosificazione[4] e l’eliminazione dell’altro, essa è spinta a chiedersi che senso storico abbiano questi aspetti e se siano compatibili con le istanze etiche e religiose di fondo della propria tradizione. Si tratta della domanda su quali e quante dialettiche interne vivono all’interno del proprio testo sacro[5].
Tradizione come network of translations (B. Latour)[6]
Questo vale anche per le rispettive tradizioni interpretative che rappresentano l’alveo vitale delle Scritture sacre e mediano, traducendo, selezionando e trasmettendo, i significati e le chiavi di lettura principali.
Il solo fatto che le tradizioni interpretative – nell’Islam, nel Cristianesimo e nell’Ebraismo – siano cosi ampie e pluralizzate, storicamente e geograficamente, è un potente suggerimento all’interprete che molti sono stati i modi di cogliere le prospettive di verità e che quindi tali modi possono essere strutturalmente parziali, limitati, o anche fuorvianti.
Le tradizioni talora sono molto attente e in ascolto dei testi e delle loro profondità, in altri casi li aggrediscono per trovare in essi e giustificare quello che già si pensa.
Mai senza l’altro (M. De Certeau)
Tale lavorio – un quarto punto – può giovarsi di un sostegno notevole quando chi legge i testi della propria tradizione è consapevole e/o conosce i testi di quelle altrui. È la prospettiva della cosiddetta teologia comparativa: la lettura attenta e immersiva, critica e simpatetica, dei testi appartenente ad altri “mondi” religiosi e culturali permette di ritornare ai propri con un bagaglio di preziosi insights storici e umani, politici e spirituali.
Questo modo di procedere per le tradizioni ebraica, islamica e cristiana è reso ancora più eloquente dal fatto che i testi stessi – animati da secoli di storia interpretativa – sono tra loro intrecciati da una serie di riletture e costanti riferimenti. Tale sforzo di lettura e comparazione empatica ci colloca in modo diverso.
Con le parole di Trotta[7]: «Per andare oltre dobbiamo collocarci altrove. Cosa vogliono dire oggi parole come etica, democrazia, solidarietà, impegno, bene comune? Una processione di esegeti è già pronta a spiegare il già detto. C’è invece la percezione di un vuoto, il peso delle scorie di una esperienza morta che ci spinge, ci trascina ad andare più a fondo».
Chi sono io? Che cosa veramente crediamo? (D. Bonhoeffer)
Un quinto passaggio crediamo sia decisivo: si tratta del momento della scelta ermeneutica. In questa fase, il lettore o la comunità scelgono umanamente e, per così dire, in proprio – certo, per chi crede questa scelta avviene davanti al mistero di Dio – nel grande intreccio, che i testi e le loro interpretazioni costituiscono, la modalità di rispondere alle domande proposte dalla storia e dall’esistenza concreta: come si ricostruisce la giustizia? Come trattare il nemico? Che sacralità ha la vita di ogni uomo e donna sulla terra? In che modo guardare e rimediare alle proprie e altrui colpe? Come il mistero di Dio ci interpella qui ed ora? Quali lezioni la storia recente ci ha consegnato?[8]
Sono le domande che il credente si pone come singolo e come comunità cercando, in modo diuturno, di trovare le risposte che ritiene provenire da Dio. Quest’operazione non consiste, a ben vedere, in un depauperamento della credenza nel parlare di Dio, nella sua alterità, ma assume in maniera seria il fatto che Dio – se esiste – ha scelto di parlare a uomini e donne in quanto tali.
Dislocazione empatica
Arriviamo ad un sesto passaggio: la cassa di risonanza – etica e spirituale, esistenziale e politica – del parlare di Dio è dunque la concretezza umana. In questo spazio credo che possa giocare un ruolo importante – e ampiamente testimoniato dai mistici dei tre monoteismi – la capacità di un sentire largo e buono (la pietà/hesed, la misericordia/rahmah, la magnanimità/macrothumia).
Ossia la possibilità di percepire il proprio trauma, quello personale e del proprio popolo, insieme con il faticoso riconoscimento della sofferenza e della storia dell’altro, del nemico. In un’opera storica recente[9] tale idea viene descritta come dislocazione empatica.
Nell’opera si ripercorre l’obiettivo legame tra due tragedie di popolo, dove la custodia della singolarità ed unicità della Shoah si combina con il riconoscimento della Nakba attraverso uno studio attento della letteratura – poesia e narrativa – israeliana e palestinese che mostra l’intreccio di lunga data tra i due eventi.
Senza volerci dilungare in dettagli complessi, risulta possibile rilevare in sintesi come questo atteggiamento, che sa riconoscere insieme il dolore dei propri e il dolore dell’altro, sia radicato in maniera profonda – anche se non sempre mainstream – nei rispettivi testi sacri e rappresenti un atteggiamento umano e religioso che può essere scelto e accolto[10]
Amicizia come risorsa teologica e politica?
Sono molti gli esempi nel cristianesimo e nei testi dell’ebraismo e dell’Islam – e nell’esperienza personale di noi presenti – in cui l’amicizia e la prossimità divengono una risorsa ermeneutica, teologica e politica fondamentale. L’amicizia è qui intesa come il contesto e l’ambito in cui la teologia – esplicita o implicita – desidera riconoscere una bontà alla via religiosa dell’amico e, pur nella convinzione della propria appartenenza, cerca soluzioni teologiche per cogliere nella via altrui possibilità e percorsi di bene e di salvezza.[11]
L’essere prossimi diventa un centro motivatore per cercare risorse nella propria tradizione sguardi interpretativi che permettono di esplicitare una delle funzioni della tradizione che è quella «di autorizzare il proprio superamento».[12] È quello che Ricoeur chiama il presentimento della possibile verità dell’altro[13].
A livello dello spirito non posso sperare di essere io stesso nella verità senza sperare e senza credere che anche voi, che non credete ciò che io credo, siate, in un modo che non so, nella verità. E questo modo io non posso saperlo in virtù del carattere finito, limitato di ogni comprensione. Questa altra parte della verità non posso che presentirla, riconoscerla lateralmente […] dunque senza poter paragonare dal di fuori come viste dalla stella Sirio, la credenza dell’altro e la mia.[14]
In questo atteggiamento non c’è relativismo, ma convinzioni profonde: il relativismo suppone comparazione, sorvolo e visione a strapiombo. È piuttosto dal fondo della mia convinzione […] che io mi accorgo lateralmente delle altre convinzioni, credenze e non-credenze. Per il relativismo non esistono più convinzioni, ma opinioni così differenti che divengono indifferenti.
Perciò il modo peggiore di incontrare l’altro è di annullare la sua intenzione di verità contemporaneamente alla mia. Ogni dialogo sparisce dove non c’è più confronto, e non c’è più confronto, là dove non c’è più convinzione. So che questo paradosso che ha preso il posto dell’antinomia è più difficile da considerare […]. Lo Spirito è uno, ma nessuno sa donde soffia il vento.[15]
Nota finale
Si è trattato solo di alcune piste di ricerca enunciate troppo sinteticamente, nel tentativo di cercare risposte alle questioni più urgenti per l’oggi, nella duplice consapevolezza che se la riflessione teologica non fa questo, si spegne e si sterilizza[16], e che fa parte essenziale del nostro compito teologico ed etico è fornire strumenti “per poter comporre progressivamente un mondo comune, abitabile da tutti e tutte” (B. Latour).
[1] S. Weil, L’ombra e la grazia, Bompiani, Firenze 2020, p. 295.
[2] M. De Certeau, Lo straniero o l’unione nella differenza, Vita e Pensiero, Milano 2010, p. 16
[3] S. Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 233
[4] S. Weil, L’Iliade o il poema della forza, in Id., La Grecia e le intuizioni pre-cristiane, a cura di C. Campo e M. Harwell-Pieracci, Borla, Roma 1999, 9: «La forza è ciò che fa di chiunque le è sottomesso una cosa»
[5] Esempi interessanti in Pax Christi International, La nonviolenza di Gesù. Operare la pace secondo i vangeli, a cura di F. Mandreoli e M. Zanardi, Zikkaron, Bologna 2023 e J. Said, Vie islamiche alla nonviolenza, a cura di N. Dumarieh, Zikkaron, Marzabotto 2017
[6] Si veda il recente B. Latour, Chi perde la terra, perde la propria anima, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2025
[7] G. Trotta, Altrove. Scritti di spiritualità e politica 1984-2004, in Milana F., Marietti, Bologna 2024, pp. 113-135, in particolare p. 114
[8] Papa Francesco (10 febbraio 2025): «Ciò che viene costruito sul fondamento della forza e non sulla verità riguardo alla pari dignità di ogni essere umano incomincia male e finirà male»
[9] B. Bashir e A. Goldberg (edd.), Olocausto e Nakba, Zikkaron, Bologna 2023
[10] Una prospettiva delineata in maniera magistrale nel capitolo 58, 6-9 del profeta Isaia che qui glossiamo (e che invitiamo a rileggere sullo sfondo degli eventi degli ultimi decenni in Medio Oriente):
“Non è piuttosto questo il digiuno che voglio
[ossia l’autentico volere di Dio]:
sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo,
rimandare liberi gli oppressi
e spezzare ogni giogo?
[cioè sollevare i poveri e le vittime, liberare gli oppressi]
Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza trascurare i tuoi parenti?
[ossia la capacità di riconoscere i propri e gli altri]
8Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,
la tua ferita si rimarginerà presto.
[il proprio trauma è guarito insieme al trauma dell’altro]
Davanti a te camminerà la tua giustizia,
la gloria del Signore ti seguirà.
9Allora invocherai e il Signore ti risponderà,
implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione”
[l’eliminazione dell’oppressione riaccende un dialogo possibile con il mistero di Dio].
[11] Cf. C. Cornille, «Empathy and Inter-religious Imagination», in Religion and the Arts 12(2008)1, 102-117.
[12] Cit. in M. Neri, Fuori di sé. La Chiesa nello spazio pubblico, EDB, Bologna 2020, 53.
[13] P. Ricoeur, «Dello Spirito», in Humanitas 1(1997), 51.
[14] Ivi, 51-52.
[15] Ivi.
[16] J.M. Bergoglio, Criteri di azione apostolica ([…] gennaio 1980), in Papa Francesco/J.M. Bergoglio, Pastorale sociale, 63: «[…] un’opera perde il suo vigore apostolico quando è incapace di volgersi […] verso la «frontiera» e, di conseguenza, quando non sa raccogliere in sé le problematiche e le persone che fanno parte di quella stessa frontiera. L’opera comincia allora a morire»






Vi sono tre elementi che per me nell’ interagire possono dare un risultato violento e anche imprevedibile. (1) Il libro sacro che, in quanto tale da fruire in primo luogo nel tranquillo modo della lettura, porta con sé la riflessione, anche di più se è di tipo comparativo. Questo si incontra per ciascuno(a) con (2) i diversi contesti esistenziali e il loro richiamo a una risposta emotiva. Qui si possono inserire (3) vari motori strumentali della violenza, che purtroppo si evidenziano in continuazione e numerosissimi proprio nell’attuale giorno per giorno nelle dinamiche della guerra – alla quale è sempre stata propria l’escalation. (Sentiamo su questo i commenti puntuali di Leone XV e sicuramente ricordiamo da tanto l’ apprensione e le gravi previsioni future di papa Francesco. La cosa più preoccupante è che la condanna e la paura, che sono generalizzate, nelle mani dei sempre nuovi “grandi dittatori” hanno meno forza di convinzione del gioco al rialzo nel mercato delle armi e della manipolazione assassina dei fanatismi. Vedi negli ultimi giorni le iniezioni di munizioni fornite dagli USA di Trump all’Ucraina invece della moderazione diplomatica presso Putin e il suo stato maggiore (di estrazione tanto militare che religiosa), costantemente promessa e mai realizzata, o l’ aggiunta dello schieramento del fanatismo druso contro il nuovo governo siriano da parte dell’irresponsabile espansionismo ebraico che no trova freni né interni né esterni. Mi dispiace, fin qui c’è poca mistica e molte tracce di violenza, preghiamo di non oltrepassare questo segno.