Don, anche tu sei “post-teista”?

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post-teismo

Abbiamo chiesto a don Ferdinando Sudati di rispondere alle obiezioni sollevate su queste pagine da alcuni articoli che presentavano la corrente di pensiero cosiddetta “post-teista”.

  • Caro don Ferdinando, ti sta bene essere definito un post-teista?

Mi va bene, perché in questo momento è una parola utile, insieme all’altra, “trans-teismo”, e ad altre ancora che saranno opportunamente coniate per designare il nuovo contesto religioso e culturale in cui molti si ritrovano a vivere il loro essere cristiani.

Naturalmente, stante la lunga formazione ed esperienza precedenti, non faccio fatica ad ammettere di avere ancora almeno un piede nel teismo. Penso sia normale e corrisponda alla temperie spirituale di molti, se non di tutti, i “post-teisti”.

Capisco anche la difficoltà di alcuni – e mi riferisco a persone di talento, presenti nell’editoria e sui social –, che, pur avendo adottato un linguaggio post-teistico, stentano ad “uscire dall’armadio”, cioè a prendere una posizione più netta, perché in questa fase, le conseguenze, a livello personale e a livello ecclesiastico, incutono timore. Spero lo facciano, sebbene ognuno abbia i suoi tempi, e vadano rispettati.

  • La tua formazione teologica è stata, dunque, quella “classica”. Come e perché hai pensato che fosse insufficiente quella visione?

La teologia classica o tradizionale è diventata un ferro vecchio, non è più in grado di dare risposte agli interrogativi del cristiano del XXI secolo. Ne spiegherò brevemente il perché, attingendo a ciò che è diventato discorso molto comune e condiviso.

Il post-teismo nasce dalla moderna crisi del cristianesimo e si offre come strumento interpretativo e di superamento di tale crisi. Il post-teismo, in ogni caso, non è una moda: penso sia destinato a diventare la grande via percorribile da tutti coloro che desiderano dare un futuro al cristianesimo.

Anche gli appartenenti ad altre religioni sono coinvolti in questa fase post-teistica, dal momento che la crisi delle religioni e delle credenze è generalizzata. La motivazione del posteismo, infatti, va cercata in una nuova visione dell’Universo che, per quanto sempre in sviluppo, è frutto della ricerca scientifica – non della mitologia e nemmeno della filosofia soltanto – prodotta con i sofisticati strumenti di cui disponiamo per la prima volta nella storia dell’umanità. Mi riferisco, in particolare, alla moderna astronomia e astrofisica – pensiamo, ad esempio, all’abisso che intercorre tra l’umile “occhiale” di Galilei e il telescopio spaziale James Webb –, che ci obbligano a rinnovare la nostra idea di Dio diventata davvero troppo piccola!

Certo: la concezione di Dio non può essere dettata dalla scienza, ma neppure ne può prescindere: di fatto, ne subisce necessariamente le mutazioni d’epoca. Dal punto di vista storico, non è una novità; si tratta, anzi, di un fenomeno che si può considerare normale, sebbene non lo sembri, perché si gioca su lunghe frequenze temporali; alla fine, determina un cambiamento di paradigma culturale, di cui quello religioso è un aspetto. Il nuovo paradigma è destinato, a sua volta, a cambiare di qualcosa o di molto in futuro, perché il processo di conoscenza non torna mai indietro.

Ecco perché la teologia “classica” è diventata obsoleta. Ha fatto più o meno un buon servizio ma non è più in grado di aiutarci. Il nuovo paradigma culturale ha declassato la produzione teologica dei secoli passati. Essa non perde il suo merito e sarà ricordata magari con nostalgia, e offrirà molto materiale per le tesi di dottorato presso le pontificie facoltà teologiche, ma il suo compito è finito.

La nuova visione del cosmo, e dell’uomo in esso, può senz’altro trasmettere un senso di vertigine o di smarrimento per il mutamento radicale che suppone, ma non c’è ritorno che “salvi”, ossia che possa mettere “in sicurezza” i credenti: sarebbe irrealistico e illusorio. Ci ritroveremmo sempre e comunque con il “Dio” della tribù, nazionalista, antropomorfico e ampiamente mitico. Questo non più ha senso.

Potresti chiedermi: e dell’impianto dottrinale ecclesiastico, così gelosamente e ferreamente custodito – peraltro mai rimasto identico –, sino a mettere letteralmente ai ferri e sul fuoco persone senz’altra colpa che quella di avere qualche idea divergente o solo profetica, spesso degna di recupero futuro, che ne sarà? Non resterà quasi nulla. Quel “quasi nulla”, però, sarà il “quasi tutto” da cui proseguire il cammino.

  • Cos’è quel “quasi tutto”?

Intendo dire che non c’è pericolo, per i cristiani, di rimanere senza “lavoro”, in quanto seguaci di Gesù, almeno per i prossimi “mille anni”, se vorranno prendere sul serio, più di quanto hanno fatto sinora, queste indicazioni: il programma secondo Isaia 61,1-2 che Gesù ha fatto suo nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,16-19); lo spirito delle beatitudini nella versione di Lc 6,20-26, con integrazioni da Matteo 5,1-10; le opere di misericordia, come indicato in Mt 25,35-40; la “regola d’oro” in positivo, ossia «tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12; cf. Lc 6,31), o almeno in negativo, cioè «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah» (Rabbi Hillel, che visse al tempo di Erode il Grande); il “secondo” comandamento messo da Gesù sullo stesso piano del primo: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mt 22,39, cf. Lc 10,27).

Se rimane questo – vale a dire una comunità di persone che ispira la propria vita a Gesù di Nazaret, decisa a dare attuazione su questa Terra alla sua utopia di un “regno” che, senza coincidere con la società mondana, sia operativo in essa come fonte di fraternità –, allora nel nuovo paradigma religioso è conservato e onorato il nucleo centrale del Vangelo, di cui resta il “quasi tutto”.

  • L’obiezione che viene piuttosto spontanea, specie a chi si è formato nella teologia dei seminari o degli istituti di scienze religiose, oltre che nella catechesi “canonica”, è che il post-teismo ha molto poco a che fare con la Rivelazione e con l’Evento Cristo, mentre sarebbe solo il prodotto di una ricerca, molto umana, naturale, del divino. Cosa ne dici?

Dico che è sempre stato così, e cioè che la ricerca è sempre stata umana e secundum naturam, anche se le varie epoche e religioni l’hanno poi rivestita con i paludamenti di Rivelazioni soprannaturali canonizzando le loro acquisizioni, fissandole in forme rigide e dogmatiche perché funzionali al potere religioso, che da lì ha ricavato la forza per imporsi e creare sudditanza. Non dico che sia stato fatto sempre in malafede, spesso è avvenuto per il portato del tempo: tutta l’epoca antica era fatta così; ma ora tutto questo è giunto davvero alla fine, mentre ancora sussiste in religioni e Chiese, perché il momento di fine/inizio di un passaggio epocale non è repentino.

Faccio un esempio di piccola transizione, a partire dalla liturgia cattolica di domenica 19 ottobre scorso. Osserviamo come ci faceva pregare, sino al 2019, la nostra Chiesa:

«O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la Chiesa raccolta in preghiera; fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia dei tuoi eletti, che gridano giorno e notte verso di te» (Messale Romano 2a edizione, Colletta della XXIX domenica del Tempo ordinario – Anno C; corsivo aggiunto).

Dall’anno 2020, in occasione della 3a edizione, la stessa Colletta è stata decentemente, ma non sufficientemente, modificata così:

«O Padre, che hai accolto l’intercessione di Mosè, dona alla Chiesa di perseverare nella fede e nella preghiera fino a quando farai giustizia ai tuoi eletti che a te gridano giorno e notte».

E, a proposito di Rivelazione, nella prima lettura della stessa domenica ci è stata presentata la sublime scena di “Mosè sul monte” (“sulla cima del colle”, nella nuova traduzione), con le mani alzate in preghiera, portata dai predicatori cristiani a modello della perseverante intercessione affidata specialmente ai membri degli ordini claustrali e contemplativi.

Si scopre, però, che tale orazione è finalizzata ad assicurare la vittoria di uno degli eserciti in campo, ovviamente quello d’Israele, e al completamento dell’operazione col passare Amalèk e il suo popolo “a fil di spada” (Esodo 17,13). Niente male come intenzione di preghiera! Con Mosè, Aronne, Cur e Giosuè garanti della sua efficacia presso Dio.

Uno si chiede: non era socialmente più produttivo ed economico, in termini di vite umane, indirizzare la preghiera di Mosè a ottenere la pace tra i due popoli? La Bibbia, però, non ha questo genere di preoccupazione e non vede l’aspetto contraddittorio della vicenda. Del resto, contraddizioni anche peggiori non le abbiamo viste neanche noi cristiani dopo tremila anni.

È solo uno degli innumerevoli passi che si potrebbero estrarre dall’Antico e pure dal Nuovo Testamento. Non mi pare ci sia bisogno di scomodare una qualsiasi “rivelazione” divina per veicolare tali messaggi.

  • La domanda è sull’Evento Cristo…

Rispondo: per quanto riguarda l’Evento Cristo, prendo spunto dai 1700 anni del concilio di Nicea per invitare a leggere quella vicenda con gli strumenti storico-critici che sono stati messi a punto per lo studio della Bibbia da due secoli a questa parte, e con la libertà di parola di cui stanno godendo gli studiosi delle discipline teologiche in quest’ultimo quarto di secolo. Sebbene ciò non significhi che qualcuno non ne abbia pagato il prezzo, se era inquadrato in istituzioni ecclesiastiche. Bisogna, però, ammettere che non ha corso rischi per la vita o l’incolumità fisica. Questo è un grande regalo dei tempi attuali, e arriva dopo duemila anni. Mentre è precisamente ciò che è mancato a Nicea nel 325.

  • Pensi che i padri di Nicea non fossero liberi?

Avevano un grosso vincolo. Oggi Nicea sarebbe a rischio d’invalidazione a motivo della pressione “esterna”, quella dell’imperatore – vero dominus del Concilio – deciso a imporre ai vescovi una conclusione unanime, qualunque essa fosse, ma preferenzialmente con l’attribuzione di uno status divino a Gesù il Cristo. Si capisce la costantiniana intenzione, tenuto conto che, nell’Impero Romano, il moderatore supremo della religione – pontifex maximus, il titolo ereditato dai papi – era appunto l’imperatore. E la religione cristiana poteva servire a tenere insieme l’Impero più e meglio del paganesimo in decadenza. Chi non si fosse adeguato al velato ordine di Costantino, avrebbe patito l’esilio, come avvenne per i vescovi Secondo e Teonato, e per il presbitero Ario. Altri quattordici vescovi filoariani firmarono il Credo niceno per non incorrere nel minacciato esilio. Verosimilmente, anche Eusebio di Cesarea è da aggiungere al gruppo. A pochi mesi dalla fine del Concilio, pure Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea, chiesero di ritirare la loro adesione, e furono puntualmente esiliati e sostituiti nelle loro sedi.

  • Sì, ma il tema è chi è Gesù.

A Nicea un piccolissimo gruppo di vescovi, tra i circa 300 convenuti, la maggioranza dei quali non in grado d’intervenire nel dibattito, ritenne di sapere qual era la sostanza (ousìa) di Dio e quindi di poter farne adeguatamente partecipe Gesù di Nazaret. Ed ecco che il concilio stabilisce che Gesù è consustanziale a Dio, aggiungendo – beati loro, per tale chiarezza raggiunta – che era sì “generato” dal Padre, quindi Figlio, ma non “creato”. Un vertice di speculazione davvero paradossale, se si pensa che proveniva dalla mente di uomini aventi una conoscenza del mondo meno che elementare, dal momento che ritenevano che la Terra fosse stata creata di punto in bianco circa sei millenni prima, di forma piatta e collocata al centro dell’Universo, allora concepito in termini assai ristretti.

Erano convinti di sapere tutto di Dio, così da sentirsi autorizzati a esprimere verità immutabili su di Lui. L’operazione è evidentemente riuscita oltre le più rosee aspettative se ancora raccoglie l’adesione di una consistente parte della popolazione umana del XXI secolo. Il suo tempo di durata sembra, però, spirato.

La divinizzazione di un individuo apre oggi problemi spinosissimi, di cui il mondo antico, prescientifico e mitologico, non aveva nemmeno sentore o che non avvertiva con l’acutezza di oggi. A questo proposito, voglio riportare le prime due delle “12 tesi” con cui il teologo e vescovo episcopaliano John Shelby Spong (1931–2021) ha riassunto la crisi attuale del cristianesimo.

«Tesi 1: Dio. La comprensione di Dio nei termini teistici, come di “un essere” dal potere soprannaturale, che risiede da qualche parte fuori del mondo e capace d’intervenire nel mondo con potere miracoloso, non è più credibile. La maggior parte del parlare su Dio nella liturgia e nel discorso è diventata allora insignificante. Ciò che dobbiamo fare è trovare il significato cui la parola “Dio” rimanda».

«Tesi 2: Gesù il Cristo. Se Dio non può più essere pensato in termini teistici, allora concepire Gesù come l’incarnazione della divinità teistica è diventato anch’esso un concetto fallimentare. Possiamo esprimere l’esperienza del “Cristo” con parole che abbiano senso?»[1].

Accenno qui soltanto a due formidabili obiezioni con cui oggi si deve confrontare chi parla di Gesù-Dio:

(1) nessun essere umano, nessuna istanza umana, fosse anche composta dall’umanità intera, ha la facoltà di affermare di un proprio simile o di qualsiasi ente che si presenti dinnanzi che sia Dio, perché nessuno davvero conosce chi è e com’è Dio.

(2) Quale sarebbe, realisticamente, l’esito di avere avuto Dio “in carne e ossa” sulla terra, a parte il merito personale di Gesù di Nazaret?

Il mare della sofferenza e di disperazione umana è rimasto tale e quale, e vi ha contribuito per buona quota il fenomeno cristiano nel suo dispiegarsi lungo i primi due millenni, a cominciare dalla colpevolizzazione del genere umano per la morte stessa di Gesù, il Dio-Figlio – ucciso “per i nostri peccati” –, sino alla concreta, sebbene ultraterrena, prospettiva infernale di un patimento eterno per chiunque risultasse trasgressore anche di uno solo dei precetti “divini” al momento della morte e non si fosse pentito o confessato in tempo.

Questa escatologia, ora più o meno sottaciuta per intervenuto pudore, era insegnamento quotidiano, impartito già a pargoli di cinque/sei anni, così da garantirne il marchio indelebile. C’è stata tutta la sequela di guerre di religione, di crociate, di persecuzione degli eretici, di conculcazione delle libertà personali, in primo luogo quelle di opinione ed espressione, che va dalla folle paura della letteratura pagana, critica o invisa – sistematicamente distrutta – sino alla compilazione dell’indice dei libri proibiti.

  • Ma Gesù non era teista, secondo il Nuovo Testamento?

Lo era indubbiamente. Ha condiviso in tutto il teismo ebraico. Forse è stato anche deluso da quel teismo. In croce, secondo la testimonianza di Marco, ripresa da Matteo, avrebbe gridato a gran voce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34, cf. Mt 27,46).

Qui c’è realismo, perché in croce uno si lamenta piano, se ce la fa, o urla di dolore, o le due cose assieme, ma di sicuro non si mette a recitare salmi. Mi sta bene che, esegeticamente, s’intraveda la citazione del Salmo 22, e che ciò corrisponda all’intenzione dell’evangelista, ma niente impedisce di vedervi in primo luogo un tratto di concretezza di ciò che Gesù stava vivendo.

Preferisco abbandonare la versione di Gesù in croce assorto in pie orazioni, e non mi scandalizza l’ipotesi di un suo eventuale cedimento psichico, senza dimenticare che dobbiamo anche a lui la capacità di modificare la visione di Dio che abbiamo ereditato. Lo ha fatto nei limiti consentiti dalla sua formazione e dal suo contesto culturale – in Israele, del resto, vi era una certa libertà di speculazione su Dio –, ma molto coraggiosamente, ed esponendosi al rischio.

Ricordo che, pochi decenni fa, ebbe il sapore di una riscoperta il parlare della “fede di Gesù”, anziché sempre e soltanto della “fede in Gesù”. Ora siamo chiamati a “scoprire” che Gesù era teista, perché questa era la via obbligata all’interno della fede d’Israele, ma che aveva pure in sé la potenzialità di essere anche post-teista.

Naturalmente, non mi permetto d’iscriverlo d’ufficio al post-teismo, ma solo di pensare che oggi Gesù non sarebbe lontano dalle posizioni post-teistiche o forse ci incoraggerebbe nella via del post-teismo. Poiché è precisamente il “soggetto” della sua e della nostra fede a determinare l’attuale crisi identitaria del cristianesimo. Il Dio ebraico/cristiano – e delle altre religioni storiche – è rimasto troppo “corto” per chi voglia seguire Gesù in questa transizione epocale.

  • Il post-teismo peccherebbe di razionalismo e di intellettualismo, sino a scadere in un panteismo molto occidentale e d’élite. Come rispondi?

Esistono sicuramente “peccati” nel post-teismo, come in ogni visione, ma come “corpus” di pensiero è sano e si muove nella giusta direzione, a cominciare dal fatto che non ci sono alternative. Non è un movimento d’opinione velleitario o intellettualistico, nemmeno angelicamente spiritualistico. Si tratta di un’offerta di futuro, che è già iniziato, quindi che serve proprio oggi sebbene in vista del domani.

La parola panteismo destava in me echi di paganesimo, quasi di commiserazione per coloro che vi aderivano. Oggi avverto che il suo contenuto può avere un certo valore interpretativo della realtà, che meriterebbe di essere recuperato, attraverso una ri-significazione, un po’ nella linea di Baruch Spinoza, per intenderci; ma non intendo addentrarmi ora in questo terreno. Mi basta la parola vicina, ma diversa nella sostanza, entrata nel nostro uso: “panenteismo”.

Il panenteismo sfuma, senza annullarla, la distinzione teistica tra Dio e mondo, a favore di una marcata unità tra Dio e gli enti creati, senza mai trasformarla in una identità, come avviene nel modello panteista.

  • Il post-teismo consentirebbe di conciliare la fede con i dati della scienza contemporanea, mentre ciò non sarebbe possibile alla fede – o meglio, alla credenza – cristiana rivelata. In tal senso risulterebbe maggiormente accettabile dai contemporanei, specie dai giovani più acculturati. È proprio così, secondo te?

Penso di avere disseminato nelle risposte precedenti qualcosa che possa fungere da risposta a questa domanda. Aggiungo che la nostra preoccupazione, in quanto persone impegnate “con” Gesù sul fronte della fede, non dev’essere quella di far collimare i dati della scienza e quelli della fede. Ci aspetta, piuttosto, il compito di fare una bella pulizia, sia dottrinale sia strutturale, in casa nostra, per diminuire la zavorra che contribuisce a creare il senso di estraneità culturale che il cristiano più acculturato, cioè, inserito vitalmente nella società di oggi, fatalmente avverte. E sarebbe anche peggio se non l’avvertisse!

Non si tratta di cercare facili irenismi, ma di sciogliere i motivi di conflitto derivanti da evitabile ignoranza. I conflitti derivanti dal tentativo di testimoniare i valori evangelici sono ben accetti, ma quelli derivanti da gratuita arretratezza culturale vanno neutralizzati.

Ci sono questioni etiche che stanno sotto l’ombrello della scienza più che sotto quello della fede. Dobbiamo aprire maggiormente la nostra attenzione alle scienze umanistiche, per trovare soluzioni eque e attualizzanti a problemi che l’istituzione ecclesiastica ha finora messo unicamente a carico della “fede”, come quelli, per esempio, del fine vita e dell’eutanasia.

Anche quello dell’ammissione della donna al ministero ordinato trarrebbe giovamento dall’essere considerato “materia mista”, per uscire dalle secche in cui si trova. Del resto, la fede e la spiritualità cristiane hanno carattere laico più che clericale; non dovrebbe, anzi, esserci nulla di clericale in esse, come invece di fatto avviene nel regime di cristianità in vigore.[2]

La società è arrivata prima della Chiesa a sancire l’effettiva uguaglianza fra uomo e donna, sebbene la nostra Chiesa abbia proclamato con la voce di un suo altissimo dignitario, cui difettava il senso dell’umorismo, di essere “esperta in umanità”.

Insomma, non deve dispiacere che la scienza, nei suoi vari rami, faccia da crogiolo purificatore per la tradizione cristiana così come mediata dalla Chiesa, sebbene sia doloroso per quest’ultima perdere il monopolio dottrinale e teorico in qualche settore. Ma ciò le farà evitare altri errori.

  • Tu sei prete: celebri e predichi. In che modo la prospettiva post-teista ha cambiato il tuo modo di celebrare, di predicare, di evangelizzare?

Incontro le comunità parrocchiali solo la domenica o in occasione di funerali. Cerco di rispettare il genere letterario dell’omelia, senza rinunciare all’esegesi aggiornata delle pericopi bibliche e di tenere conto delle persone che ho dinanzi. Dico, con loro, senza remore, il Credo e il Padre Nostro previsti dalla liturgia, e pure l’Ave Maria, quando è il caso; recependone soprattutto il significato simbolico e allusivo, piuttosto che quello letterale, di tali formule: le accolgo nella dimensione metaforica e poetica, o come “canti d’amore”, per usare un’espressione di Spong.

Non m’illudo che la gente abbia trasalimenti d’intima gioia quando passa velocemente in rassegna le “verità” del Credo. Penso che, nell’orbita degli attuali frequentatori di chiese, nessuno le capisca più e non sia nemmeno interessato agli approfondimenti; le accetta più che altro con rassegnazione.

Non impedirò mai ai fedeli che incontro nelle parrocchie da me frequentate di aderire letteralmente ai “Credo” in uso nel cristianesimo. Hanno il diritto di vivere e morire nel teismo e con il catechismo ufficiale. Solo difendo l’esigenza di una nuova interpretazione, e cerco di motivarne il perché a chi manifesta interesse.

Mi faccio spontaneamente prossimo a chi è in difficoltà con gli articoli del Credo, a chi sperimenta una crescente estraneità per le rispettive Chiese, o si sente culturalmente esiliato, in quanto cristiano, nel mondo attuale; nella consapevolezza che, a salvarci, è l’integrità della coscienza – altrimenti detta “buona fede” – con la sincerità della ricerca, dal momento che tutti, alla fine, ci troviamo sempre lontani dalla pura e ultima Verità.

  • Hai mai subito l’accusa di non essere “cattolico”? Come rispondi?

Riassumendo la mia scomoda posizione, posso affermare che, trovandomi nella zona di confine, sono passibile di essere dichiarato haereticus comburendus rispetto al teismo ecclesiastico, il cui imprinting non si può dismettere come si farebbe con un vestito, ma, nello stesso tempo, allorché cammino nel post-teismo, mi sento affrancato da quel genere d’eresia.

Lo schema “ortodossia/eresia”, “verità/errore”, “dogma/ragionamento”, fatto di categorie polarizzate che si escludono e si scomunicano, semplicemente non trova applicazione nel paradigma post-teista.

Ho accennato al Credo e al Padre Nostro che, ovviamente, riflettono atteggiamenti e visioni del mondo propri delle persone o comunità che li hanno composti, dal momento che nessuno può pensare ed esprimersi fuori delle coordinate culturali del suo tempo. L’unica immagine di Dio di cui potevano disporre era quella teistica.

Per noi il discorso cambia, non per nulla siamo a settemila anni di distanza dagli inizi del teismo, a quasi quattromila dall’ebraismo biblico e a duemila dal cristianesimo. Pare che sia maturato il tempo di passare a un nuovo paradigma: tocca a noi affrontare il compito, anche se forse ne faremmo volentieri a meno. Ci sono tanti fratelli e sorelle che si stanno impegnando per questo, e sarebbe meritorio perlomeno non impedirli e censurarli, invocando impossibili ritorni al passato.

Stanno nascendo teologie post-teistiche e ci sono in atto esperimenti di liturgie e preghiere non teistiche, quelle che, precisamente, sono state del tutto ignorate da chi ha prodotto l’ultima versione del Messale Romano, nel 2020. Nessuno si sarebbe aspettato che venisse fuori dal Dicastero per il culto divino un Messale Romano Post-teista – per questo dovrà passare ancora qualche anno, o decennio –, ma era lecito sperare che si fosse provveduto perlomeno ad attenuare, nel “nuovo” Messale, nato vecchio, le espressioni più grevemente mitologiche e, in particolare, a dare l’avvio a un organismo incaricato di preparare un messale alternativo ad experimentum, di libero uso, formato dai migliori testi già collaudati nelle comunità cattoliche più sensibili al nuovo clima culturale/religioso.

Sottolineo, ancora, che dal post-teismo non si torna indietro, perché, analogamente a ciò che succede in qualsiasi altro settore, quando l’essere umano ritiene di aver compiuto un passo in avanti nella scienza (conoscenza), nella verità (chiarezza) e nella libertà (autonomia) sente ripugnanza ad arretrare, o gli sembra innaturale farlo, se non per effetto di una potente costrizione o della caduta in un vile interesse. Costrizione e viltà possono piegare un individuo, ma le idee continuano il loro corso e la loro quota di verità è destinata ad affiorare, anche dopo percorsi carsici.

Personalmente, ho subìto qualche censura verbale a livello diocesano, quasi sempre per impulso esterno, cioè di qualche lamentela giunta al vescovo, forse anche da Roma, ma in modo abbastanza ovattato: non avendo sollevato polveroni, ho “meritato” clemenza.

Al di là di queste “scaramucce”, e nonostante le comunità parrocchiali che frequento siano affette da tradizionalismo dottrinale e da invecchiamento anagrafico, le percepisco come la mia famiglia spirituale, in cui, pur con limiti e difetti, si cerca di essere cristiani nel contesto attuale.


[1] Qui l’ampio commento dell’autore: J.S. Spong, Incredibile. Perché il credo delle Chiese cristiane non convince più, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2020, p. 44.

[2] Cf. Marcelo Barros, “Tra le crepe e le fessure un nuovo modo di essere Chiesa”, Adista Documenti n. 37, del 25–10–2025.

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