
Abbiamo chiesto a don Ferdinando Sudati di rispondere alle obiezioni sollevate su queste pagine da alcuni articoli che presentavano la corrente di pensiero cosiddetta “post-teista”.
- Caro don Ferdinando, ti sta bene essere definito un post-teista?
Mi va bene, perché in questo momento è una parola utile, insieme all’altra, “trans-teismo”, e ad altre ancora che saranno opportunamente coniate per designare il nuovo contesto religioso e culturale in cui molti si ritrovano a vivere il loro essere cristiani.
Naturalmente, stante la lunga formazione ed esperienza precedenti, non faccio fatica ad ammettere di avere ancora almeno un piede nel teismo. Penso sia normale e corrisponda alla temperie spirituale di molti, se non di tutti, i “post-teisti”.
Capisco anche la difficoltà di alcuni – e mi riferisco a persone di talento, presenti nell’editoria e sui social –, che, pur avendo adottato un linguaggio post-teistico, stentano ad “uscire dall’armadio”, cioè a prendere una posizione più netta, perché in questa fase, le conseguenze, a livello personale e a livello ecclesiastico, incutono timore. Spero lo facciano, sebbene ognuno abbia i suoi tempi, e vadano rispettati.
- La tua formazione teologica è stata, dunque, quella “classica”. Come e perché hai pensato che fosse insufficiente quella visione?
La teologia classica o tradizionale è diventata un ferro vecchio, non è più in grado di dare risposte agli interrogativi del cristiano del XXI secolo. Ne spiegherò brevemente il perché, attingendo a ciò che è diventato discorso molto comune e condiviso.
Il post-teismo nasce dalla moderna crisi del cristianesimo e si offre come strumento interpretativo e di superamento di tale crisi. Il post-teismo, in ogni caso, non è una moda: penso sia destinato a diventare la grande via percorribile da tutti coloro che desiderano dare un futuro al cristianesimo.
Anche gli appartenenti ad altre religioni sono coinvolti in questa fase post-teistica, dal momento che la crisi delle religioni e delle credenze è generalizzata. La motivazione del posteismo, infatti, va cercata in una nuova visione dell’Universo che, per quanto sempre in sviluppo, è frutto della ricerca scientifica – non della mitologia e nemmeno della filosofia soltanto – prodotta con i sofisticati strumenti di cui disponiamo per la prima volta nella storia dell’umanità. Mi riferisco, in particolare, alla moderna astronomia e astrofisica – pensiamo, ad esempio, all’abisso che intercorre tra l’umile “occhiale” di Galilei e il telescopio spaziale James Webb –, che ci obbligano a rinnovare la nostra idea di Dio diventata davvero troppo piccola!
Certo: la concezione di Dio non può essere dettata dalla scienza, ma neppure ne può prescindere: di fatto, ne subisce necessariamente le mutazioni d’epoca. Dal punto di vista storico, non è una novità; si tratta, anzi, di un fenomeno che si può considerare normale, sebbene non lo sembri, perché si gioca su lunghe frequenze temporali; alla fine, determina un cambiamento di paradigma culturale, di cui quello religioso è un aspetto. Il nuovo paradigma è destinato, a sua volta, a cambiare di qualcosa o di molto in futuro, perché il processo di conoscenza non torna mai indietro.
Ecco perché la teologia “classica” è diventata obsoleta. Ha fatto più o meno un buon servizio ma non è più in grado di aiutarci. Il nuovo paradigma culturale ha declassato la produzione teologica dei secoli passati. Essa non perde il suo merito e sarà ricordata magari con nostalgia, e offrirà molto materiale per le tesi di dottorato presso le pontificie facoltà teologiche, ma il suo compito è finito.
La nuova visione del cosmo, e dell’uomo in esso, può senz’altro trasmettere un senso di vertigine o di smarrimento per il mutamento radicale che suppone, ma non c’è ritorno che “salvi”, ossia che possa mettere “in sicurezza” i credenti: sarebbe irrealistico e illusorio. Ci ritroveremmo sempre e comunque con il “Dio” della tribù, nazionalista, antropomorfico e ampiamente mitico. Questo non più ha senso.
Potresti chiedermi: e dell’impianto dottrinale ecclesiastico, così gelosamente e ferreamente custodito – peraltro mai rimasto identico –, sino a mettere letteralmente ai ferri e sul fuoco persone senz’altra colpa che quella di avere qualche idea divergente o solo profetica, spesso degna di recupero futuro, che ne sarà? Non resterà quasi nulla. Quel “quasi nulla”, però, sarà il “quasi tutto” da cui proseguire il cammino.
- Cos’è quel “quasi tutto”?
Intendo dire che non c’è pericolo, per i cristiani, di rimanere senza “lavoro”, in quanto seguaci di Gesù, almeno per i prossimi “mille anni”, se vorranno prendere sul serio, più di quanto hanno fatto sinora, queste indicazioni: il programma secondo Isaia 61,1-2 che Gesù ha fatto suo nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,16-19); lo spirito delle beatitudini nella versione di Lc 6,20-26, con integrazioni da Matteo 5,1-10; le opere di misericordia, come indicato in Mt 25,35-40; la “regola d’oro” in positivo, ossia «tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12; cf. Lc 6,31), o almeno in negativo, cioè «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah» (Rabbi Hillel, che visse al tempo di Erode il Grande); il “secondo” comandamento messo da Gesù sullo stesso piano del primo: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mt 22,39, cf. Lc 10,27).
Se rimane questo – vale a dire una comunità di persone che ispira la propria vita a Gesù di Nazaret, decisa a dare attuazione su questa Terra alla sua utopia di un “regno” che, senza coincidere con la società mondana, sia operativo in essa come fonte di fraternità –, allora nel nuovo paradigma religioso è conservato e onorato il nucleo centrale del Vangelo, di cui resta il “quasi tutto”.
- L’obiezione che viene piuttosto spontanea, specie a chi si è formato nella teologia dei seminari o degli istituti di scienze religiose, oltre che nella catechesi “canonica”, è che il post-teismo ha molto poco a che fare con la Rivelazione e con l’Evento Cristo, mentre sarebbe solo il prodotto di una ricerca, molto umana, naturale, del divino. Cosa ne dici?
Dico che è sempre stato così, e cioè che la ricerca è sempre stata umana e secundum naturam, anche se le varie epoche e religioni l’hanno poi rivestita con i paludamenti di Rivelazioni soprannaturali canonizzando le loro acquisizioni, fissandole in forme rigide e dogmatiche perché funzionali al potere religioso, che da lì ha ricavato la forza per imporsi e creare sudditanza. Non dico che sia stato fatto sempre in malafede, spesso è avvenuto per il portato del tempo: tutta l’epoca antica era fatta così; ma ora tutto questo è giunto davvero alla fine, mentre ancora sussiste in religioni e Chiese, perché il momento di fine/inizio di un passaggio epocale non è repentino.
Faccio un esempio di piccola transizione, a partire dalla liturgia cattolica di domenica 19 ottobre scorso. Osserviamo come ci faceva pregare, sino al 2019, la nostra Chiesa:
«O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la Chiesa raccolta in preghiera; fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia dei tuoi eletti, che gridano giorno e notte verso di te» (Messale Romano 2a edizione, Colletta della XXIX domenica del Tempo ordinario – Anno C; corsivo aggiunto).
Dall’anno 2020, in occasione della 3a edizione, la stessa Colletta è stata decentemente, ma non sufficientemente, modificata così:
«O Padre, che hai accolto l’intercessione di Mosè, dona alla Chiesa di perseverare nella fede e nella preghiera fino a quando farai giustizia ai tuoi eletti che a te gridano giorno e notte».
E, a proposito di Rivelazione, nella prima lettura della stessa domenica ci è stata presentata la sublime scena di “Mosè sul monte” (“sulla cima del colle”, nella nuova traduzione), con le mani alzate in preghiera, portata dai predicatori cristiani a modello della perseverante intercessione affidata specialmente ai membri degli ordini claustrali e contemplativi.
Si scopre, però, che tale orazione è finalizzata ad assicurare la vittoria di uno degli eserciti in campo, ovviamente quello d’Israele, e al completamento dell’operazione col passare Amalèk e il suo popolo “a fil di spada” (Esodo 17,13). Niente male come intenzione di preghiera! Con Mosè, Aronne, Cur e Giosuè garanti della sua efficacia presso Dio.
Uno si chiede: non era socialmente più produttivo ed economico, in termini di vite umane, indirizzare la preghiera di Mosè a ottenere la pace tra i due popoli? La Bibbia, però, non ha questo genere di preoccupazione e non vede l’aspetto contraddittorio della vicenda. Del resto, contraddizioni anche peggiori non le abbiamo viste neanche noi cristiani dopo tremila anni.
È solo uno degli innumerevoli passi che si potrebbero estrarre dall’Antico e pure dal Nuovo Testamento. Non mi pare ci sia bisogno di scomodare una qualsiasi “rivelazione” divina per veicolare tali messaggi.
- La domanda è sull’Evento Cristo…
Rispondo: per quanto riguarda l’Evento Cristo, prendo spunto dai 1700 anni del concilio di Nicea per invitare a leggere quella vicenda con gli strumenti storico-critici che sono stati messi a punto per lo studio della Bibbia da due secoli a questa parte, e con la libertà di parola di cui stanno godendo gli studiosi delle discipline teologiche in quest’ultimo quarto di secolo. Sebbene ciò non significhi che qualcuno non ne abbia pagato il prezzo, se era inquadrato in istituzioni ecclesiastiche. Bisogna, però, ammettere che non ha corso rischi per la vita o l’incolumità fisica. Questo è un grande regalo dei tempi attuali, e arriva dopo duemila anni. Mentre è precisamente ciò che è mancato a Nicea nel 325.
- Pensi che i padri di Nicea non fossero liberi?
Avevano un grosso vincolo. Oggi Nicea sarebbe a rischio d’invalidazione a motivo della pressione “esterna”, quella dell’imperatore – vero dominus del Concilio – deciso a imporre ai vescovi una conclusione unanime, qualunque essa fosse, ma preferenzialmente con l’attribuzione di uno status divino a Gesù il Cristo. Si capisce la costantiniana intenzione, tenuto conto che, nell’Impero Romano, il moderatore supremo della religione – pontifex maximus, il titolo ereditato dai papi – era appunto l’imperatore. E la religione cristiana poteva servire a tenere insieme l’Impero più e meglio del paganesimo in decadenza. Chi non si fosse adeguato al velato ordine di Costantino, avrebbe patito l’esilio, come avvenne per i vescovi Secondo e Teonato, e per il presbitero Ario. Altri quattordici vescovi filoariani firmarono il Credo niceno per non incorrere nel minacciato esilio. Verosimilmente, anche Eusebio di Cesarea è da aggiungere al gruppo. A pochi mesi dalla fine del Concilio, pure Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea, chiesero di ritirare la loro adesione, e furono puntualmente esiliati e sostituiti nelle loro sedi.
- Sì, ma il tema è chi è Gesù.
A Nicea un piccolissimo gruppo di vescovi, tra i circa 300 convenuti, la maggioranza dei quali non in grado d’intervenire nel dibattito, ritenne di sapere qual era la sostanza (ousìa) di Dio e quindi di poter farne adeguatamente partecipe Gesù di Nazaret. Ed ecco che il concilio stabilisce che Gesù è consustanziale a Dio, aggiungendo – beati loro, per tale chiarezza raggiunta – che era sì “generato” dal Padre, quindi Figlio, ma non “creato”. Un vertice di speculazione davvero paradossale, se si pensa che proveniva dalla mente di uomini aventi una conoscenza del mondo meno che elementare, dal momento che ritenevano che la Terra fosse stata creata di punto in bianco circa sei millenni prima, di forma piatta e collocata al centro dell’Universo, allora concepito in termini assai ristretti.
Erano convinti di sapere tutto di Dio, così da sentirsi autorizzati a esprimere verità immutabili su di Lui. L’operazione è evidentemente riuscita oltre le più rosee aspettative se ancora raccoglie l’adesione di una consistente parte della popolazione umana del XXI secolo. Il suo tempo di durata sembra, però, spirato.
La divinizzazione di un individuo apre oggi problemi spinosissimi, di cui il mondo antico, prescientifico e mitologico, non aveva nemmeno sentore o che non avvertiva con l’acutezza di oggi. A questo proposito, voglio riportare le prime due delle “12 tesi” con cui il teologo e vescovo episcopaliano John Shelby Spong (1931–2021) ha riassunto la crisi attuale del cristianesimo.
«Tesi 1: Dio. La comprensione di Dio nei termini teistici, come di “un essere” dal potere soprannaturale, che risiede da qualche parte fuori del mondo e capace d’intervenire nel mondo con potere miracoloso, non è più credibile. La maggior parte del parlare su Dio nella liturgia e nel discorso è diventata allora insignificante. Ciò che dobbiamo fare è trovare il significato cui la parola “Dio” rimanda».
«Tesi 2: Gesù il Cristo. Se Dio non può più essere pensato in termini teistici, allora concepire Gesù come l’incarnazione della divinità teistica è diventato anch’esso un concetto fallimentare. Possiamo esprimere l’esperienza del “Cristo” con parole che abbiano senso?»[1].
Accenno qui soltanto a due formidabili obiezioni con cui oggi si deve confrontare chi parla di Gesù-Dio:
(1) nessun essere umano, nessuna istanza umana, fosse anche composta dall’umanità intera, ha la facoltà di affermare di un proprio simile o di qualsiasi ente che si presenti dinnanzi che sia Dio, perché nessuno davvero conosce chi è e com’è Dio.
(2) Quale sarebbe, realisticamente, l’esito di avere avuto Dio “in carne e ossa” sulla terra, a parte il merito personale di Gesù di Nazaret?
Il mare della sofferenza e di disperazione umana è rimasto tale e quale, e vi ha contribuito per buona quota il fenomeno cristiano nel suo dispiegarsi lungo i primi due millenni, a cominciare dalla colpevolizzazione del genere umano per la morte stessa di Gesù, il Dio-Figlio – ucciso “per i nostri peccati” –, sino alla concreta, sebbene ultraterrena, prospettiva infernale di un patimento eterno per chiunque risultasse trasgressore anche di uno solo dei precetti “divini” al momento della morte e non si fosse pentito o confessato in tempo.
Questa escatologia, ora più o meno sottaciuta per intervenuto pudore, era insegnamento quotidiano, impartito già a pargoli di cinque/sei anni, così da garantirne il marchio indelebile. C’è stata tutta la sequela di guerre di religione, di crociate, di persecuzione degli eretici, di conculcazione delle libertà personali, in primo luogo quelle di opinione ed espressione, che va dalla folle paura della letteratura pagana, critica o invisa – sistematicamente distrutta – sino alla compilazione dell’indice dei libri proibiti.
- Ma Gesù non era teista, secondo il Nuovo Testamento?
Lo era indubbiamente. Ha condiviso in tutto il teismo ebraico. Forse è stato anche deluso da quel teismo. In croce, secondo la testimonianza di Marco, ripresa da Matteo, avrebbe gridato a gran voce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34, cf. Mt 27,46).
Qui c’è realismo, perché in croce uno si lamenta piano, se ce la fa, o urla di dolore, o le due cose assieme, ma di sicuro non si mette a recitare salmi. Mi sta bene che, esegeticamente, s’intraveda la citazione del Salmo 22, e che ciò corrisponda all’intenzione dell’evangelista, ma niente impedisce di vedervi in primo luogo un tratto di concretezza di ciò che Gesù stava vivendo.
Preferisco abbandonare la versione di Gesù in croce assorto in pie orazioni, e non mi scandalizza l’ipotesi di un suo eventuale cedimento psichico, senza dimenticare che dobbiamo anche a lui la capacità di modificare la visione di Dio che abbiamo ereditato. Lo ha fatto nei limiti consentiti dalla sua formazione e dal suo contesto culturale – in Israele, del resto, vi era una certa libertà di speculazione su Dio –, ma molto coraggiosamente, ed esponendosi al rischio.
Ricordo che, pochi decenni fa, ebbe il sapore di una riscoperta il parlare della “fede di Gesù”, anziché sempre e soltanto della “fede in Gesù”. Ora siamo chiamati a “scoprire” che Gesù era teista, perché questa era la via obbligata all’interno della fede d’Israele, ma che aveva pure in sé la potenzialità di essere anche post-teista.
Naturalmente, non mi permetto d’iscriverlo d’ufficio al post-teismo, ma solo di pensare che oggi Gesù non sarebbe lontano dalle posizioni post-teistiche o forse ci incoraggerebbe nella via del post-teismo. Poiché è precisamente il “soggetto” della sua e della nostra fede a determinare l’attuale crisi identitaria del cristianesimo. Il Dio ebraico/cristiano – e delle altre religioni storiche – è rimasto troppo “corto” per chi voglia seguire Gesù in questa transizione epocale.
- Il post-teismo peccherebbe di razionalismo e di intellettualismo, sino a scadere in un panteismo molto occidentale e d’élite. Come rispondi?
Esistono sicuramente “peccati” nel post-teismo, come in ogni visione, ma come “corpus” di pensiero è sano e si muove nella giusta direzione, a cominciare dal fatto che non ci sono alternative. Non è un movimento d’opinione velleitario o intellettualistico, nemmeno angelicamente spiritualistico. Si tratta di un’offerta di futuro, che è già iniziato, quindi che serve proprio oggi sebbene in vista del domani.
La parola panteismo destava in me echi di paganesimo, quasi di commiserazione per coloro che vi aderivano. Oggi avverto che il suo contenuto può avere un certo valore interpretativo della realtà, che meriterebbe di essere recuperato, attraverso una ri-significazione, un po’ nella linea di Baruch Spinoza, per intenderci; ma non intendo addentrarmi ora in questo terreno. Mi basta la parola vicina, ma diversa nella sostanza, entrata nel nostro uso: “panenteismo”.
Il panenteismo sfuma, senza annullarla, la distinzione teistica tra Dio e mondo, a favore di una marcata unità tra Dio e gli enti creati, senza mai trasformarla in una identità, come avviene nel modello panteista.
- Il post-teismo consentirebbe di conciliare la fede con i dati della scienza contemporanea, mentre ciò non sarebbe possibile alla fede – o meglio, alla credenza – cristiana rivelata. In tal senso risulterebbe maggiormente accettabile dai contemporanei, specie dai giovani più acculturati. È proprio così, secondo te?
Penso di avere disseminato nelle risposte precedenti qualcosa che possa fungere da risposta a questa domanda. Aggiungo che la nostra preoccupazione, in quanto persone impegnate “con” Gesù sul fronte della fede, non dev’essere quella di far collimare i dati della scienza e quelli della fede. Ci aspetta, piuttosto, il compito di fare una bella pulizia, sia dottrinale sia strutturale, in casa nostra, per diminuire la zavorra che contribuisce a creare il senso di estraneità culturale che il cristiano più acculturato, cioè, inserito vitalmente nella società di oggi, fatalmente avverte. E sarebbe anche peggio se non l’avvertisse!
Non si tratta di cercare facili irenismi, ma di sciogliere i motivi di conflitto derivanti da evitabile ignoranza. I conflitti derivanti dal tentativo di testimoniare i valori evangelici sono ben accetti, ma quelli derivanti da gratuita arretratezza culturale vanno neutralizzati.
Ci sono questioni etiche che stanno sotto l’ombrello della scienza più che sotto quello della fede. Dobbiamo aprire maggiormente la nostra attenzione alle scienze umanistiche, per trovare soluzioni eque e attualizzanti a problemi che l’istituzione ecclesiastica ha finora messo unicamente a carico della “fede”, come quelli, per esempio, del fine vita e dell’eutanasia.
Anche quello dell’ammissione della donna al ministero ordinato trarrebbe giovamento dall’essere considerato “materia mista”, per uscire dalle secche in cui si trova. Del resto, la fede e la spiritualità cristiane hanno carattere laico più che clericale; non dovrebbe, anzi, esserci nulla di clericale in esse, come invece di fatto avviene nel regime di cristianità in vigore.[2]
La società è arrivata prima della Chiesa a sancire l’effettiva uguaglianza fra uomo e donna, sebbene la nostra Chiesa abbia proclamato con la voce di un suo altissimo dignitario, cui difettava il senso dell’umorismo, di essere “esperta in umanità”.
Insomma, non deve dispiacere che la scienza, nei suoi vari rami, faccia da crogiolo purificatore per la tradizione cristiana così come mediata dalla Chiesa, sebbene sia doloroso per quest’ultima perdere il monopolio dottrinale e teorico in qualche settore. Ma ciò le farà evitare altri errori.
- Tu sei prete: celebri e predichi. In che modo la prospettiva post-teista ha cambiato il tuo modo di celebrare, di predicare, di evangelizzare?
Incontro le comunità parrocchiali solo la domenica o in occasione di funerali. Cerco di rispettare il genere letterario dell’omelia, senza rinunciare all’esegesi aggiornata delle pericopi bibliche e di tenere conto delle persone che ho dinanzi. Dico, con loro, senza remore, il Credo e il Padre Nostro previsti dalla liturgia, e pure l’Ave Maria, quando è il caso; recependone soprattutto il significato simbolico e allusivo, piuttosto che quello letterale, di tali formule: le accolgo nella dimensione metaforica e poetica, o come “canti d’amore”, per usare un’espressione di Spong.
Non m’illudo che la gente abbia trasalimenti d’intima gioia quando passa velocemente in rassegna le “verità” del Credo. Penso che, nell’orbita degli attuali frequentatori di chiese, nessuno le capisca più e non sia nemmeno interessato agli approfondimenti; le accetta più che altro con rassegnazione.
Non impedirò mai ai fedeli che incontro nelle parrocchie da me frequentate di aderire letteralmente ai “Credo” in uso nel cristianesimo. Hanno il diritto di vivere e morire nel teismo e con il catechismo ufficiale. Solo difendo l’esigenza di una nuova interpretazione, e cerco di motivarne il perché a chi manifesta interesse.
Mi faccio spontaneamente prossimo a chi è in difficoltà con gli articoli del Credo, a chi sperimenta una crescente estraneità per le rispettive Chiese, o si sente culturalmente esiliato, in quanto cristiano, nel mondo attuale; nella consapevolezza che, a salvarci, è l’integrità della coscienza – altrimenti detta “buona fede” – con la sincerità della ricerca, dal momento che tutti, alla fine, ci troviamo sempre lontani dalla pura e ultima Verità.
- Hai mai subito l’accusa di non essere “cattolico”? Come rispondi?
Riassumendo la mia scomoda posizione, posso affermare che, trovandomi nella zona di confine, sono passibile di essere dichiarato haereticus comburendus rispetto al teismo ecclesiastico, il cui imprinting non si può dismettere come si farebbe con un vestito, ma, nello stesso tempo, allorché cammino nel post-teismo, mi sento affrancato da quel genere d’eresia.
Lo schema “ortodossia/eresia”, “verità/errore”, “dogma/ragionamento”, fatto di categorie polarizzate che si escludono e si scomunicano, semplicemente non trova applicazione nel paradigma post-teista.
Ho accennato al Credo e al Padre Nostro che, ovviamente, riflettono atteggiamenti e visioni del mondo propri delle persone o comunità che li hanno composti, dal momento che nessuno può pensare ed esprimersi fuori delle coordinate culturali del suo tempo. L’unica immagine di Dio di cui potevano disporre era quella teistica.
Per noi il discorso cambia, non per nulla siamo a settemila anni di distanza dagli inizi del teismo, a quasi quattromila dall’ebraismo biblico e a duemila dal cristianesimo. Pare che sia maturato il tempo di passare a un nuovo paradigma: tocca a noi affrontare il compito, anche se forse ne faremmo volentieri a meno. Ci sono tanti fratelli e sorelle che si stanno impegnando per questo, e sarebbe meritorio perlomeno non impedirli e censurarli, invocando impossibili ritorni al passato.
Stanno nascendo teologie post-teistiche e ci sono in atto esperimenti di liturgie e preghiere non teistiche, quelle che, precisamente, sono state del tutto ignorate da chi ha prodotto l’ultima versione del Messale Romano, nel 2020. Nessuno si sarebbe aspettato che venisse fuori dal Dicastero per il culto divino un Messale Romano Post-teista – per questo dovrà passare ancora qualche anno, o decennio –, ma era lecito sperare che si fosse provveduto perlomeno ad attenuare, nel “nuovo” Messale, nato vecchio, le espressioni più grevemente mitologiche e, in particolare, a dare l’avvio a un organismo incaricato di preparare un messale alternativo ad experimentum, di libero uso, formato dai migliori testi già collaudati nelle comunità cattoliche più sensibili al nuovo clima culturale/religioso.
Sottolineo, ancora, che dal post-teismo non si torna indietro, perché, analogamente a ciò che succede in qualsiasi altro settore, quando l’essere umano ritiene di aver compiuto un passo in avanti nella scienza (conoscenza), nella verità (chiarezza) e nella libertà (autonomia) sente ripugnanza ad arretrare, o gli sembra innaturale farlo, se non per effetto di una potente costrizione o della caduta in un vile interesse. Costrizione e viltà possono piegare un individuo, ma le idee continuano il loro corso e la loro quota di verità è destinata ad affiorare, anche dopo percorsi carsici.
Personalmente, ho subìto qualche censura verbale a livello diocesano, quasi sempre per impulso esterno, cioè di qualche lamentela giunta al vescovo, forse anche da Roma, ma in modo abbastanza ovattato: non avendo sollevato polveroni, ho “meritato” clemenza.
Al di là di queste “scaramucce”, e nonostante le comunità parrocchiali che frequento siano affette da tradizionalismo dottrinale e da invecchiamento anagrafico, le percepisco come la mia famiglia spirituale, in cui, pur con limiti e difetti, si cerca di essere cristiani nel contesto attuale.
[1] Qui l’ampio commento dell’autore: J.S. Spong, Incredibile. Perché il credo delle Chiese cristiane non convince più, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2020, p. 44.
[2] Cf. Marcelo Barros, “Tra le crepe e le fessure un nuovo modo di essere Chiesa”, Adista Documenti n. 37, del 25–10–2025.






Condivido la preoccupazione dell’autore di superare molte interpretazioni superficiali e fisiciste di Dio e della dottrina cristiana. Tuttavia la prospettiva indicata pare debole. Mi limito a segnalare due aspetti che ritengo essenziali:
1) C’è una differenza di fondo tra l’esperienza spirituale di chi si rivolge a Dio come a un “Tu” e quella di chi, pur percependo la propria appartenenza al tutto e la spinta interiore ad agire secondo un’etica di fraternità universale, non può rivolgersi a un Dio personale. Benché ci siano importanti elementi comuni, la differenza tra i due tipi di spiritualità è sostanziale e non va dissimulata. Un cristianesimo post-teista è qualcosa di profondamente diverso dal cristianesimo conosciuto finora.
2) Chi si ferma a riflettere sull’esperienza di incontrare un’altra persona umana non può che rimanere meravigliato, affascinato e al tempo stesso portato a riconoscere che ciò che ha davanti è irriducibile a un quadro razionale e logico ben ordinato. Le polarità di libertà-condizionamenti, fragilità fisiche-grandezza di possibilità, capacità di riflessione autonoma-legami storici e culturali al proprio ambiente sociale… sono di tale forza da essere irriducibili a un quadro concettuale esaustivo. Non per questo smettiamo di riconoscere che chi abbiamo davanti è una persona. Perché dunque dovremmo ritenere irragionevole credere in un Dio personale?
«Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Matteo 11,25). La Chiesa, con tutti i suoi limiti, garantisce la fede dei piccoli. Così interpretava il suo servizio di responsabile della Congregazione per la dottrina della fede il Cardinal Ratzinger.
Non c’è nulla di più semplice che riconoscere il Respiro del Padre in me e come in me, in tutte le cose..
E con quel Padre certo possiamo e dobbiamo parlare, che sia in silenzio o meno, la Preghiera è contatto con quel Seme divino a cui dobbiamo dare Forma.
Non più per paura, ma per riconoscimento della propria natura divina, al di là di un’apparenza che non dice tutto di noi.
Ci hanno inculcato la separazione e in fondo l’ego-ismo, incoraggiandoci a pregare per la propria salvezza: del proprio io, del proprio ruolo, del proprio nome..ma cos’è una persona, se non la forma dell’anima? E l’anima non deriva forse da Dio? E Dio non è forse l’Uno che si fa molteplice?
Cosa c’è di difficile da capire se non che siamo tutti raggi dell’unico Sole? E che rinnegare la propria natura, è ciò che inaridisce e fa morire?
Forse di difficile, c’è il lasciare andare questo “io” che pretende pure di rinascere così com’era, senza ammettere la trasformazione di tutte le cose, la Trasfigurazione in Dio..
Allora, invece di chiederci se i posteisti sono cristiani, chiediamoci se la religione così com’è ha davvero seguito l’Essenza del Messaggio di Cristo.
Che è stato trasformato in una morale, come quella di un qualunque profeta, anziché nella Verità dell’Essere.
E questo, però, non deve essere di nuovo l’errore di ritorno della “nuova” teologia..
Ritengo infatti che alcune critiche non siano del tutto infondate: se il Cristo non abita in Gesù, non abita nemmeno in noi. Dire che Gesù era divino, vuol dire solo pienamente umano. Vuol dire Consapevolezza del Padre in sé: io e il Padre siamo una cosa sola, non la stessa cosa..comunione, appartenenza, non uguaglianza senza differenziazione, ma Relazione d’Amore assoluta .
Invito tutti a cercare le dodici tesi del teologo post-teista Spong su internet e a leggerle. Non riesco a capire come sia compatibile seguire il post-teismo, intendendolo alla Spong, ed essere cristiani, neanche essere cattolico o prete. Il cristianesimo presuppone il credere alla Trinità e all’incarnazione, e i post-teisti, si può verificare, alla fine mettono questo in discussione. Buon anniversario di Nicea a tutti i post-teisti.
Leggendo questo articolo, la prima obiezione che mi viene in mente, al di là del merito, riguarda a pretesa del post-teismo di essere il futuro del cristianesimo, come afferma l’autore quando dice che «nel nuovo paradigma religioso è conservato e onorato il nucleo centrale del Vangelo, di cui resta il “quasi tutto”». Gli esegeti hanno ormai ampiamente dimostrato che nella predicazione del Regno ciò che emerge non è questo o quell’insegnamento particolare, ma la persona stessa di Gesù. Ma proprio di essa, e del Padre che ne è l’interlocutore fondamentale, il post-teismo ridimensiona radicalmente il ruolo, privilegiando una serie d valori che anche altre religioni o la semplice morale possono condividere. sarebbe più veritiero dire a questo punto che del Vangelo a questo punto non resta quasi-nulla. si ha il diritto di non avere la fede in Cristo e di non essere cristiani. Forse, però, bisognerebbe dirlo e non presentare come una evoluzione delle teologia cristiana quella che è piuttosto la sua liquidazione. E francamente, leggere che « la teologia “classica” è diventata obsoleta. Ha fatto più o meno un buon servizio ma non è più in grado di aiutarci. Il nuovo paradigma culturale ha declassato la produzione teologica dei secoli passati» mi ricorda l’on. Di Maio quando disse che il governo 5stelle-Lega era il primo nella storia che si poneva il bene comune invece dei propri interessi. Mi scusi l’autore, ma questa è – anche solo dal punto di vista culturale – una ingenuità da cui chi conosce la storia del pensiero si dovrebbe guardare. Tanto varrebbe dire che Platone e Aristotele, dopo lo sviluppo scientifico a cui abbiamo assistito, sono superati. In realtà la filosofia contemporanea, dopo duemilatrecento anni, si nutre ancora delle loro intuizioni. Forse è da questo atteggiamento di superiorità pseudoscientifica che Severino Dianich è stato disturbato. Non c’è lo spazio per entrare nel merito delle motivazioni su cui si regge il nuovo paradigma. Di una sola vorrei mettere in evidenza l’inconsistenza: che i vescovi che a Nicea proclamarono, sotto la guida dello Spirito, la divinità di Gesù, non fossero in grado di farlo perché la loro conoscenza scientifica era inadeguata.
Vorrei pormi una domanda teorica che prescinde dalle persone citate e intervistate perle quali dichiaro il massimo rispetto. La mia domanda è questa: “Può un prete apertamente incredulo celebrare validamente i sacramenti?” Dichiaro subito la mia posizione: un prete dichiaratamente incredulo non può celebrare validamente i sacramenti. Come tutti sappiamo per la validità dei sacramenti occorrono tre elementi:
– la materia,
– la forma,
– l’intenzione del ministro.
Questo è assodato e riconosciuto anche recentissimamente (Cfr. la nota “Gestis verbisque” sulla validità dei sacramenti a firma del Card. Fernandez). Sulla necessità dell’intenzione si è pronunciato in maniera chiarissima il Concilio di Firenze (1439): “Tutti i sacramenti sono resi perfetti da tre realtà: dagli elementi come materia, dalle parole come forma, e dalla persona del ministro che celebra il sacramento con l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa: se una di queste manca, non si celebra il sacramento” (DS 1312). Cosa significa intenzione? L’intenzione è la volontà del ministro “di fare almeno ciò che fa la Chiesa”.
Sempre il Card. Fernandez spiega: “19. A differenza della materia e della forma, che rappresentano l’elemento sensibile e oggettivo del Sacramento, l’intenzione del ministro – insieme alla disposizione del ricevente – rappresenta il suo elemento interiore e soggettivo. Essa, tuttavia, tende per sua natura a manifestarsi anche esternamente attraverso l’osservanza del rito stabilito dalla Chiesa, cosicché la grave modifica degli elementi essenziali introduce anche il dubbio sulla reale intenzione del ministro, inficiando la validità del Sacramento celebrato. In linea di principio, infatti, l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa si esprime nell’utilizzo della materia e della forma che la Chiesa ha stabilito.” La volontà interiore del ministro non si può conoscere, infatti, se non attraverso la manifestazione esteriore che egli ne fa.
In “Gestis verbisque” la Congregazione per la dottrina della fede ha ritenuto sufficiente la modifica dei gesti e delle parole (la forma) per mettere in dubbio l’intenzione. A maggior ragione, a mio parere, il dubbio sorge se con atti pubblici, scritti e interviste giornalistiche il ministro afferma coscientemente la propria incredulità. Se, subito prima di una celebrazione eucaristica, il prete afferma pubblicamente: “Ora faremo un gesto simbolico, io non credo nella transustanziazione e, secondo me, Gesù era un semplice uomo” come può presumersi la sua intenzione “di fare almeno ciò che fa la Chiesa”? Si può, al contrario, affermare con certezza che un simile prete non ha l’intenzione “di fare almeno ciò che fa la Chiesa” perché lo dichiara egli stesso apertamente. In questi casi non occorre fare nessuna indagine: la celebrazione è invalida.
Questa necessità di una “fede” personale non diventa paradossalmente un po’ protestante? Proprio perchè il cattolicesimo è più oggettivo (non la butterei sull’ontologico, ma sul pragmatismo.)
Per Agostino tra l’altro la vis polemica è vicina a quella contro i pelagiani, non è l’uomo (anche se consacrato) a salvare ma la grazia divina. Lutero eliminerà i sacramenti portando all’estremo questa posizione (se non serve l’impego personale ma solo la grazia non serve nemmeno la mediazione sacerdotale.)
Secondo me è abbastanza difficile andare a controllare ogni adesione interiore, tanto più che il sacerdote ammette di rispettare (anche se con un po’ di prosopopea) la fede dei suoi parrocchiani più semplici.
Al massimo non è proprio corretto perchè c’è una certa dose di finzione..
L’intenzione si presume sempre esistente.
Quando però il prete non è cristiano, e lo dice, le presunzioni finiscono ed iniziano le certezze.
Vediamo come evolve. Ricordo che la Cdf si era occupata di Queiruga, penso che siamo da queste parti, come filone teologico, poi come il solito ci sarà chi esagera e chi riporterà il tutto in binari meno sdrucciolevoli.
https://www.settimananews.it/teologia/riabilitato-teologo-andres-torres-queiruga/
Però che noia seguire la teologia moderna, ha sempre la tendenza ad autodistruggersi..
Non è la teologia ad autodistruggersi.
Lo scopo è distruggere la Chiesa.
Scopo impossibile da raggiungere.
Beh, c’è stato un caso celebre di un prete che dopo la morte si scopri essere un ateo acceso: Jean Meslier. E mi pare i Sacramenti da lui celebrati furono considerati validi.
Poi vari studi suggeriscono che almeno tra i preti almeno alcuni punti percentuali sono atei, agnostici o aderenti a ‘teismi che assomigliano ad un ateismo’. Sono quindi persone che continuano ad appartenere alla Chiesa pur senza credere, e questo per tutta una serie di motivi filosofici o morali, o semplicemente personali. Probabilmente anche molti fedeli sono così.
Dal mio punto di vista ritengo che qualsiasi forma di donatismo (magari trincerata dietro la mancanza di intenzione) anche moderato sia una blasfemia verso le promesse di Cristo, che ci ha lasciato tutto sé stesso nei Sacramenti
Anche Madre Teresa ha vissuto una lunghissima “notte della fede”. Da quel punto di vista non lo vedo così strano. La fede infantile, quella in un Dio troppo vicino alle nostre proiezioni deve sempre andare in crisi per diventare adulta. Ricordo di aver fatto degli esercizi spirituali partendo da un testo di Martini su Abramo. Si avvia verso la terra promessa con il suo bagaglio di attese e si ritrova nel deserto a chiedersi “perchè mi ha portato qui? Dov’è quello che mi avevi promesso”?
Diversa è l’attitudine intellettuale a sentirsi superiori al testo, non vale solo per la Bibbia, è una forma di Dialettica dell’illuminismo, una tentazione a distruggere l’oggetto del proprio studio per troppa finezza interpretativa, ti focalizzi troppo sul particolare e perdi di vista l’insieme.
L’altra sera ad esempio pensavo, questo sacerdote rimprovera alla Chiesa una mancata sensibilità scientifica, ma alla Specola dei gesuiti si studia davvero e si organizzano incontri di alto livello. L’ultimo direttore, Guy Consolmagno è stato docente al Mit di Boston. Qualche settimana fa mi è capitato di leggere un bellissimo libro di Teresa Forcades, anche lei laureata in medicina ad Harvard, dottorato in medicina in Spagna, laurea in teologia sempre ad Harvard, insomma questa idea che i cattolici siano lontani dalla scienza mi pare un pregiudizio come un altro. L’attuale Papa ha una laurea in matematica. Prima di accusare i cattolici di scarsa attenzione alla cultura non sarebbe carino chiedersi quali siano le proprie competenze scientifiche? Detto ciò non hai bisogno di demolire tutto, puoi sempre interrogare nuovamente il testo biblico perchè di suo è straordinariamente fresco e vitale, per ogni generazione. Questo è il senso vero dalla tradizione: tradere, trasmettere, mantenere vivo il fuoco passandolo a chi verrà dopo di te. Se lo spegni cosa trasmetterai?
E’ uscito un testo di successo qualche anno fa, che è stato pure un caso editoriale, sulle presunte prove sull’esistenza di Dio provenienti dal mondo della fisica attuale, è interessante questo dialogo tra Rovelli e Tanzella Nitti in proposito:
https://disf.org/files/pic/articolo_corrieredellasera_rovelli_tanzella.pdf
Rovelli tra l’altro si sta avvicinando sempre più ad un buddismo radicale, già citava Nagariuna in Helgoland, perchè tende a far prevalere la relazionalità caotica del mondo quantistico anche nel mondo relativistico. Però appunto si prende anche il rischio di eliminare ogni “certezza” scientifica e riconosce che tutto in un certo senso è “illusione”. Anche questa è una forma di mistica se vogliamo.. Che va bene, quello che non va bene è utilizzare una mistica all’acqua di rose per darsi risposte tutto sommato consolatorie. O rinunci davvero alle certezze oppure ti tieni quelle che hai e ringrazi pure chi te le ha trasmesse. Se scienza e fede convergono in qualche punto convergono proprio nel non sapere, o per lo meno per ogni cosa che ti illudi di conoscere ti si aprono duemila domande a cui non hai risposta. E questo richiede rispetto.
Ma sono pochi a farsi domande radicali sul fondamento etico del mondo che viviamo.. (scusate lo sproloquio, purtroppo non sono brava a scrivere.)
Mi trovo per la prima volta a scrivere pubblicamente e confesso un pò di imbarazzo, tuttavia devo dire che non sono d’accordo sulla maggioranza delle argomentazioni riportate nell’intervista, le trovo fuorvianti e a volte anche un pò semplicistiche.
Premetto innanzitutto che concordo con chi eccepisce sul tono dell’intervento: personalmente non mi ritengo nè chiuso in un armadio, nè arretrato culturalmente.
Detto questo, provo ad elencare brevemente alcune osservazioni, per punti.
1) Non intercorre alcun “abisso” concettuale tra il cannocchiale di Galilei ed il telescopio spaziale J.Webb che, esplorando l’astronomia a raggi infrarossi, non fa altro che estendere il campo di ricerca delle onde elettromagnetiche. Sono entrambi strumenti di indagine cosmologica, il secondo solo più potente. Cercano risposte scientifiche, in nessun modo in grado di dirci qualcosa su Dio. Gli sviluppi della scienza da sempre portano a teorie che, per la stessa natura della ricerca scientifica, non sono affatto definitive. La scienza per prima è aperta al dubbio, alla verifica sperimentale, e la storia ci insegna che ogni teoria può essere sostituita da altre più adeguate. L’idea di Dio presente nel Vangelo non è nè troppo piccola, nè troppo grande, sta semplicemente al di fuori dell’indagine scientifica. La fisica di oggi ha molte domande fondamentali senza risposta e a questo proposito cito il saggio del nobel R.Penrose, dal titolo “L’Universo è ancora un segreto. Perchè la scienza di oggi non è in grado di spiegarci tutto”. Occorre fare attenzione a non criticare il dogmatismo della religione, per poi accettare quello presunto della scienza, o sarebbe meglio dire della tecnologia?
2) Non penso che oggi fra i cristiani ci sia qualcuno che ha un’immagine di Dio come il “Dio” della tribù, nazionalista, antropomorfico e ampiamente mitico. Anche chi professa una religiosità all’antica, tradizionale, vede in Dio un senso per la propria vita. Chi può escludere che anche per questa una strada si faccia esperienza vera di rapporto con Dio?
3) Come cristiano non ho il timore di restare senza lavoro e vedo che spesso si prende dal Vangelo solo ciò che si ritiene valido. Questa pratica da supermercato è sempre più diffusa. Certo oggi è difficile credere, ma Gesù non ha mai detto che sarebbe stato facile rendere ragione della propria fede, anzi: “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10, 16-20)
4) La domanda “Quale sarebbe, realisticamente, l’esito di avere avuto Dio “in carne e ossa” sulla terra, a parte il merito personale di Gesù di Nazaret?” è francamente sorprendente. L’esito è ovviamente quello di indicarci che la nostra esperienza non finisce qui e questo cambia tutto il modo di vedere la vita. Naturalmente, si può crederci o non crederci, siamo liberi. Forse non ho inteso correttamente le argomentazioni dell’intervista, ma non è per nulla “interessante” un cristianesimo ridotto ad una bella filosofia morale, portata da un profeta vissuto 2000 anni fa
Questa prospettiva parte dalla constatazione di una crisi della religione.
Questa crisi non è universale, nonostante quello che dica Ferdinando Sudati: è ciò che avverte “il cristiano più acculturato, cioè, inserito vitalmente nella società di oggi”, cioè l’europeo bianco di classe media (lasciando quindi fuori la gran parte dell’umanità, spesso dolente, e una minoranza significativa e pure dolente dei nostri concittadini).
Questo, per me, già chiuderebbe la questione, ma andiamo avanti: la religione sarebbe una sovrastruttura obsoleta, e va destrutturata fino a che resti “quasi nulla”. La fede che sottende questo “quasi nulla” sarebbe ancora fede con la negazione della trascendenza ?
Quindi la proposta è una nuova religione molto leggera (memoria di Gesù uomo), senza fede trascendente. Sarebbe fede nell’umanità. E il reclutamento della mistica cristiana come risorsa per alimentare questa prospettiva (letto in altri interventi di queste settimane su questo tema), per dirla tutta mi sembra vagamente manipolatorio e irrispettoso di quel patrimonio, che ha dato nutrimento alla Chiesa e non ha invece cercato di tagliarne le radici.
Viene detto che la concezione di Dio non può prescindere dalla scienza. Ma in realtà sappiamo pochissimo: gli astrofisici speculano largamente, i biologi molecolari scoprono quanto l’evoluzione sia ben più complessa di quanto pensasse Darwin. Non sono creazionista del genere americano, ma almeno si riconosca che la scienza non ha provato la non-esistenza di Dio.
E per questo il fondamento propriamente positivista (più che semplicemente razionalista come suggerisce l’intervistatore) che sta alla base di questa ansia di destrutturazione, a me pare una “religione” tanto quanto i dogmi aborriti.
Preferisco restare con Gesù, che dà veramente senso alla vicenda umana degli ultimi solo attraverso la resurrezione e le “credenze” della narrazione evangelica, e pazienza per lo spleen eurocentrico degli acculturati. Cento anni fa la Chiesa gerarchica era solo occidentale, cinquant’anni fa le società occidentali entrarono in un processo di secolarizzazione. Oggi i post-teisti non sembra si rendano neppure conto di rispondere con la presunzione eurocentrica di cento anni fa. Sono più “indietro” di Pio XI.
Concludo con il disagio che provo a livello intimo nell’osservare un prete officiante della Chiesa Cattolica dire queste cose. Non voglio veramente risultare offensivo o aggressivo. Ma è profondamente sconcertante. Da laico, ho sempre vissuto la realtà lavorativa e sociale come “il mondo”, dove la dissimulazione è pratica corrente e strumento di potere. Certo che le questioni di potere sono inerenti ad ogni organizzazione compresa la Chiesa –e grazie a Settimana News per i recenti articoli intorno a questo tema. Ma la Chiesa non è del mondo: “fra voi non sia così”. Se qui non è questione di potere, come in fondo è questione quando il cardinale Dolan paragona l’ideologo del trumpismo assassinato a san Paolo (giusto per citare una dissimulazione che si colloca sull’estremo opposto dello spettro), cosa giustifica questo scollamento tanto flagrante tra il dire e il fare, se non la convenienza pratica (non parlo di risorse ma di accesso a un pubblico)? Per fortuna senza i rischi incorsi da un Giordano Bruno, il quale però aveva almeno la scusa di non avere internet e quindi essere chierico era per lui davvero necessario.
Il post-teismo mi sembra, ancora una volta, metafisica: Dio è considerato come fondamento dell’esistenza degli enti. Una metafisica che ha una lunga tradizione e che si trova a suo agio per diversi aspetti con il pensiero dell’Hinduismo e alcuni aspetti del Buddhismo. E che vorrebbe trovare appoggi nella fisica contemporanea (ma qui con una confusione di piani). E invece perde la storia, che è il luogo dell’incontro con Dio.
Io preferisco la prospettiva (emersa nel XX secolo e che ora rischia di essere sabotata dal post-teismo) di uno sganciamento della fede cristiana dalla metafisica: molte istanze critiche sono le stesse del post-teismo (es. contro il Dio tappabuchi, contro il sacrificio espiatorio…), ma l’obiettivo è far emergere il “pensiero nuovo” che c’è nel Vangelo, la radicalità evangelica di un Dio che è amore gratuito. D’accordo sul togliere il re-giudice-mago, ma per far emergere l’amico fedele fino a dare la vita e il maestro che illumina strade nuove. Secondo il post-teismo il Dio-amore è antropomorfismo (nell’illusione che un Dio-fondamento sia meno antropomorfo). E invece è proprio il Dio che è amore, che è soggetto che ama, quello che ci sorprende nella nostra storia, il Tu che incontriamo in Gesù. Gesù è il Cristo perché è Dio-con-noi, perché con parole, gesti e scelte ci fa fare esperienza di un Dio che vuole stare con noi, che ci ama gratuitamente e incondizionatamente anche a costo della vita e che crede in noi prima che noi crediamo davvero in Lui… sono queste le “belle notizie” che cambiano la vita.
Tutto questo non toglie che nella pratica dell’etica evangelica ci si possa ritrovare anche partendo da inizi diversi.
… di fondamentale importanza queste riflessioni, perchè vanno veramente al cuore della crisi attuale, che è di natura squisitamente teologica. Tante volte la fede cristina è ridotta al “credere”, ma ad un credere semplicistico (credere in un dio che è provvidenza, credere ai miracoli, credere al soprannaturale in maniera sempre “fisica” e mai simbolica). Quindi “credere” alla verginità di Maria, ai miracoli di gesù, alla resurrezione, all’ascensione … ma sempre in senso “fisico”, “reale” e mai in senso simbolico e spirituale. La fede non può contraddire quelle che sono le conoscenze scientifiche generalmente condivise del nostro tempo (cioè che il mondo sia duale”, che ci sia un aldilà metafisico con un dio creatore che interviene nel mondo e che ci parli ed agisca attraverso uomini dotati di poteri soprannaturali) … se ci pensiamo ai tempi degli autori biblici e poi della patristica e di Nicea i teologi erano filosofi e scienziati e tutto quello che hanno costruito e raccontato si basava perfettamente su quelle che erano le conoscenze scientifiche e filosofiche nel tempo, non contraddicendole. Da Galileo in poi le due cose si sono divise e la Chiesa – ancorata ad un modello religioso prescientifico – è rimasta al palo ed ora – con l’accelerazione del progesso – questa frattura si sta rilevando nella sua drammaticità. Qualche passo avanti è stato fatto, ma timido, troppo timido. Ancora si proclamano Santi con i miracoli … come posso accettare che un Dio che è onnipotente e Amore assoluto compia un miracolo per salvare un unico essere umano e non si muova per le migliaia di bambini di Gaza e dell’Ucraina … non è un concetto accettabile. Concludo ricordando che – nonostante il nostro progresso – le domande essenziali dell’umanità sono rimaste le stesse dell’uomo del neolitico: perchè esistiamo? che senso ha la vita? perchè il bene e il male? perchè esiste il cosmo e non il nulla? ….. il messaggio cristiano contiene un potenziale spirituale immenso per dare una risposta a queste domande, va però armonizzato con le conoscenze scientifiche che abbiamo. Servirebbero fisici insieme a teologi per elaborare un nuovo cristianesimo. Infine sorge una domanda: che ruolo per la Chiesa e il suo potere in questa prospettiva? che ruolo per il clero ordinato? che ruolo per le donne? tutte questioni su cui riflettere. Grazie a don Ferdinando Sudati ed a Giordano Cavallari per queste preziosissime ed imprescindibili riflessioni. Spero che il dibattito – in un clima di carità e di rispetto fraterni – possa andare avanti.
MARIALUISA
Ringrazio Ferdinando e concordo pienamente con il commento di Paolo. Personalmente desidero condividere che, grazie a questo nuovo paradigma teologico la mia fede è stata ‘liberata’ da credenze dogmatiche che, non potendo essere accettate dalla mente, non arrivavano neppure al cuore.
Anch’io, come Ferdinando, continuo a frequentare la messa domenicale, ma vivo , come è già stato detto, molti passaggi della stessa come metafore, inni che gli uomini sentono di proclamare a quella Presenza del divino che abita l’essere di tutti gli uomini. Nessuna nostalgia per un Ente altro che alcuni definiscono personale e che io sento invece presente in me e nell’immensa bellezza del creato che ovunque posso contemplare,
Su questo tema (ma in modo meno teologico e più “dal basso”) è appena uscito questo volume, ve lo segnalo. https://bookstore.gabriellieditori.it/product/roberto-beretta-meno-cattolici-piu-cristiani/
Beretta è in giro da 20 anni, al massimo si è accodato al nuovo trend.
A mio modesto parere qualsiasi teologia — pre, post, post-post-teista che sia — se come sempre dovrebbe fare non attinge dalla Scrittura, dall’esperienza spirituale ma più che mai dalla mistica cristiana, sia del passato che contemporanea, si troverà sempre dopo un po’ a puzzare di stantio.
La riflessione che propone Sudati — o meglio, la sfida che arriva dalla sua riflessione — è tra le più profonde e decisive per la fede cristiana nel tempo presente.
Il post-teismo coglie un punto vero: molte delle immagini di Dio che abbiamo ereditato sono diventate piccole, moralistiche, mitiche. Parlare di Dio come “un essere tra gli esseri”, un “intervento dall’alto” che risolve miracolosamente i problemi, non regge più alla luce della scienza, della coscienza storica e della sensibilità contemporanea. In questo senso, la critica è salutare. Ma il cristianesimo non è mai stato soltanto teismo: è evento, relazione, carne, storia, volto. È la rivelazione di un Dio che non si aggiunge al mondo come un “ente” in più, ma che si dà come Amore che si svuota, come relazione e presenza interiore alla vita. Questo è già, in senso profondo, un superamento del teismo.
Dire che Gesù fosse un “teista del suo tempo” è storicamente corretto, ma teologicamente insufficiente. Gesù non ha semplicemente parlato di Dio: ne ha mostrato il volto. E quel volto — il Padre che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi — è già oltre la logica di ogni religione tribale, di ogni Dio-partito, di ogni potenza teistica.
Quando Gesù muore gridando «Dio mio, perché mi hai abbandonato?», non nega Dio, ma attraversa fino in fondo la distanza dell’uomo. È il punto in cui Dio non è più “lassù”, ma “dentro” la notte dell’umano. In questo senso, il cristianesimo è già trans-teismo: il Dio che si fa uomo è la dissoluzione di ogni immagine idolatrica di Dio.
È vero: le formule del Credo, le preghiere, il linguaggio liturgico suonano spesso logori o incomprensibili. Ma non perché siano falsi: perché sono linguaggi poetici di un’altra epoca. Il problema non è “rifiutarli”, ma trasfigurarli, riscoprendo la loro verità simbolica.
Dove il post-teismo rischia, è nel ridurre tutto a metafora umana, dimenticando che la fede non nasce solo da un bisogno simbolico, ma da un incontro reale con un Tu che ci precede. Dio non è un “oggetto” da provare, ma neppure una pura proiezione culturale. È la realtà originaria che ci chiama e ci fa esistere.
La cosmologia contemporanea non rende “inutile” Dio, ma ci obbliga a pensarlo in modo più radicale. Il Dio di Gesù non è il tappabuchi della fisica antica, ma il Mistero che abbraccia l’universo intero. Il telescopio Webb non smentisce il Vangelo; al contrario, lo amplia: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,3). La teologia non deve difendere un piccolo dio mitico, ma accogliere la vertigine di un Dio cosmico e incarnato, infinitamente intimo e immensamente altro.
Il vero problema non è la critica del teismo, ma la perdita dell’Evento Cristo.
Quando la fede diventa soltanto “coscienza etica”, “simbolo”, o “energia vitale”, si smarrisce ciò che il cristianesimo porta di unico: Dio che entra nel tempo, che assume la storia, che muore e risorge. Non si tratta di “ritornare” a Nicea, ma di comprendere oggi il suo linguaggio come affermazione dell’inesauribilità del Mistero che abita in Gesù.
Dire che “Gesù è consustanziale al Padre” significa, in parole umane, che in lui l’amore umano e l’amore divino coincidono senza confondersi. È un’affermazione poetica, non fisica.
Forse la via non è il post-teismo, ma il metateismo: riconoscere che ogni immagine di Dio è provvisoria, e che il Mistero si lascia sempre oltrepassare.
La fede cristiana non è sapere chi è Dio, ma lasciarsi raggiungere da Dio che ama.
È possibile — e necessario — che la Chiesa assuma un linguaggio più simbolico, più dialogico, più consapevole dei limiti umani della dottrina; ma non può rinunciare al nucleo: Dio è Amore fatto carne.
Il post-teismo è una reazione intelligente a un cristianesimo stanco e dogmatico; ma il suo limite è quello di scambiare la crisi del linguaggio per la crisi dell’Evento.
Non serve un “nuovo Dio”, ma una nuova esperienza del Dio di sempre, quello che nessuna definizione può contenere, ma che ha scelto di farsi prossimo nel volto di Gesù.
Come scrive Rahner: “Il cristiano del futuro sarà un mistico, o non sarà cristiano.”
E il mistico, più che post-teista, è colui che sa tacere davanti all’Infinito, lasciando che il Mistero lo abiti.
Grazie per il suo intervento! Ogni immagine di Dio è provvisoria, il Mistero va oltre. Si rischia di trovare altro linguaggio che sarà presto vecchio…al di là resta l’incontro forse indicibile ma non meno vero. Grazie!
Il post teismo secondo me centra il problema quando considera Dio non come un ente tra altri enti, separato dal mondo, ma come ciò che anima tutte le cose.
Secondo me, il Dio persona, per quanto immenso, sminuisce il divino che, se è la Fonte, non può che essere in tutte le cose.
Il Signore onnipotente, da venerare e obbedire, secondo me, è una rappresentazione umana di ciò che noi consideriamo potente, ma Gesù ha rivelato la Forza della fragilità..
Il Cristo non è una persona, questo è banalizzare la Sua portata Cosmica.
Teillard de Chardin, senza definirsi posteista, parlava del Cristo Cosmico. Ecco, credo che da lì si possa partire per non perdere di vista il Cristo in Gesù, come in tutto il Creato, a vari livelli di manifestazione, direi di evoluzione o realizzazione.
Che cos’è la Resurrezione se non la piena realizzazione di quell’umano in noi? Gesù come Colui che rivela l’Uomo all’uomo..
C’è poi la questione grande come una casa dell’unico Figlio di Dio e dell’Incarnazione puntuale di Cristo.
L’inclusività non rinnega l’esclusività.
Se siamo fratelli, siamo tutti Figli dello stesso Padre. Non solo Gesù, ma tutti potenziali Cristi. La “Cristificazione” dell’Universo, la sua divinizzazione..
Mi lascia quindi sempre perplessa la normalizzazione dell’uomo Gesù: non per farne un superuomo, come nella sua prima omelia metteva in guardia il Papa, ma per non perdere di vista il Cristo in Lui, di cui sicuramente ha dato incarnazione piena, se il Vangelo non contiene solo una morale, ma un fermento universale, in grado di far lievitare l’anima..
Si ma questo non rientra nella attuale versione del post-teismo. Perché va oltre negando anche la figura di Cristo insieme a quella del Padre. Poi ci possono essere anche a punti interessanti ma li ritrovi in filoni teologici già consolidati. (Ad esempio il Cristo Cosmiico era presente anche nel primo lavoro di Boff.)
Gabrielli editore si sta buttando su un filone un pò New Age secondo me, poi vediamo come evolverà. Paradossalmente la teologia della liberazione è stata per decenni un’alternativa più concreta alle teologie europee secolarizzate, sembra essere finito un ciclo.
Si, questa intervista mi è sembrata debole proprio nella risposta relativa al Cristo.
Ma non credo sia sempre così, anche se onestamente non mi interessa schierarmi e difendere una bandiera; piuttosto mi interessa ac-cogliere il fermento..
Il punto, a mio parere, è che è la visione del Dio separato dal mondo, interventista a Suo piacere, e quella di una umanità che può solo sperare di essere salvata a Dio piacendo, secondo me, non rende giustizia né al divino né all’umanità.
Concordo che in fondo tutto è già stato detto.
Però, forse, questa volta, se ne parla più apertamente e chiaramente.
Ad esempio, il tema del Cristo che è oltre Gesù, va evidenziato e approfondito, e non certo per livellare tutto verso il basso.
Dibattiti come questo, servono proprio per capire dove si stia andando. Con la consapevolezza, però, di essere sempre in cammino e mai di considerarsi arrivati.
“Ad esempio, il tema del Cristo che è oltre Gesù.” Eh, però hai già la Lettera ai Romani o l’Apocalisse. E’ buffo perchè per decenni l’escatologia è stata considerata un reperto archeologico, e poi voilà te la ritrovi nuova nuova sotto forma di “fisica contemporanea”. Forse perchè solo la fisica si prende la briga di pensare alle “cose ultime”?
E’ bello infatti, solo non vedo particolare necessità di ulteriori rasoiate, le domande sono sempre quelle (chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo, diceva la mia prof di Filosofia) le risposte sempre imperfette.
Non ci ho capito granchè. Mi rifugio nel Vangelo. «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Devo riferire cos’ha risposto il mio parroco allo stesso quesito?
Ho letto con attenzione e sincero rispetto la Sua intervista. Si percepisce un desiderio reale di rispondere alle domande del nostro tempo e di avvicinare chi fatica a credere.
Lei parla di “post-teismo” come di una nuova tappa inevitabile della fede cristiana, dove la scienza corregge la teologia e il linguaggio dogmatico lascia il posto a un discorso simbolico. Ma qui, mi permetta, si apre una frattura profonda con la fede cattolica come la Chiesa l’ha sempre custodita.
La Rivelazione non è un prodotto culturale da riformulare secondo i paradigmi scientifici, ma un dono soprannaturale: Dio che parla, entra nella storia e si manifesta in Cristo, pienamente e definitivamente (Dei Verbum, 2; CCC 50-52, 74). La Chiesa non inventa la Rivelazione: la riceve, la custodisce e la trasmette (CCC 82).
Ridurre questo mistero a costruzione simbolica equivale, come ricordava Pio X in Pascendi Dominici Gregis (Dz 2071), a dissolvere la fede nel relativismo modernista.
Similmente, l’idea di un Dio non più personale, ma principio cosmico o simbolo dell’universo, tradisce la verità del Dio trinitario: un Padre che ama, un Figlio incarnato, uno Spirito che vivifica (CCC 234). Humani Generis di Pio XII ammoniva già contro le derive panteistiche che annullano la distinzione Creatore/creatura. Se Dio non è più Persona, non può più amare, né redimere.
Anche su Cristo, vero Dio e vero uomo, consustanziale al Padre (Concilio di Nicea, CCC 479-481), Lei sembra suggerire un’interpretazione puramente simbolica. Ma se Cristo non è Dio incarnato, la croce diventa un mito, non un atto di redenzione reale. La fede cristiana crolla, e con essa la speranza della salvezza. Dominus Iesus (2000) lo ribadisce con forza: solo in Cristo si dà piena e definitiva Rivelazione di Dio.
Il dialogo con la scienza, come insegna Fides et Ratio, è necessario e bello, ma la ragione non è criterio ultimo della verità rivelata. La scienza può illuminare il “come” del creato, non il “perché” del mistero. Quando la fede viene subordinata ai paradigmi scientifici, si cade nello scientismo, non nella sapienza (CCC 159).
Infine, comprendo la Sua attenzione per la cura del creato e per l’etica evangelica. Sono temi profondamente cristiani (Laudato si’). Ma la salvezza non è solo armonia cosmica: è grazia, dono, redenzione personale e universale in Cristo (CCC 1996). La Chiesa non può sostituire la Croce con un’evoluzione etica: sarebbe un Vangelo svuotato della sua potenza.
Capisco il dolore e la fatica di chi oggi non riesce più a credere al Dio “dell’infanzia”. Ma il cuore del Vangelo non è un’immagine da superare: è un volto da riscoprire. Il Padre non è scomparso. È lì, nel silenzio dell’Eucaristia, nel volto di Cristo crocifisso e risorto.
Come ricorda Dei Verbum (n. 4): «Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio «alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2).». Non c’è “post” possibile a questo evento: solo un “ritorno” sempre più profondo a Lui.
Condivido pienamente la ben argomentata risposta di Dimitri Colombo sia per ciò che riafferma sia per la chiarezza dell’esposizione, di cui difetta invece il fumoso discorso dell’autore dell’articolo ( l’unica cosa veramente chiara è l’abbandono dell’essenza stessa della fede cristiana). La citazione solamente di passi evangelici che invitano alla carità rivela la sua interpretazione esclusivamente orizzontalista ( direi molto vicina al semplice umanitarismo) della vita e dell’insegnamento di Gesù. Viene bellamente negata la figliolanza divina di Gesù (inventata a Nicea? Ma a me risulta riconosciuta già nel Nuovo Testamento: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…(Gv 1)) e il significato salvifico della croce e resurrezione. In questa riduzione, la fede cristiana non è più accoglienza dell’annuncio di salvezza, è svuotata del suo nucleo e della sua capacità di cambiare il cuore dell’ uomo e il corso della storia, capacità che, secondo l’autore, sarebbe negata da tutta una serie di nefandezze commesse nel corso della storia dalla Cristianità. Eppure uno studio meno superficiale e pregiudiziale obbligherebbe a prendere atto, senza negare gli errori commessi per la cattiveria o ignoranza umane, del contributo dato al progresso spirituale, umano e sociale (il concetto stesso di “persona” e quindi della dignità umana che è il fondamento di tutti i diritti è un merito della fede ebraico-cristiana). Mi chiedo, infine, con quale convinzione e coerenza l’autore possa continuare a esercitare il suo ministero nella Chiesa cattolica, da lui altezzosamente criticata, visto che con il suo discorso risulta ormai avere una visione del mondo e della vita che è altra rispetto alla fede cristiana.
Prima di tutto vorrei pregare l’autore di non usare mai più quel suo tono irrisorio verso le persone che la pensano diversamente da lui. Lo si faccia pure in politica, ma non nei confronti dei pensieri profondi e del cuore del proprio prossimo. Il mondo interiore degli altri chiede sempre profondo rispetto.
Su posteismo avrei bisogno mi si facesse chiarezza se si tratta dell’abbandono di una visione metafisica teista dell’universo o anche della plausibilità di un qualsiasi percezione di Dio. Già Agostino si rammaricava di averlo cercato nelle stelle e di essersi “troppo tardi” accorto di doverlo cogliere dentro di sé e che era l’amore la via della conoscenza di Dio.
Al di là dei contenuti espressi da don Ferdinando, che comunque condivido in pieno, non trovo alcun tono irrisorio nell’intervista. Al contrario, ritengo che ci sia un grande rispetto da parte sua verso chi legge, non sfumando, mitigando e indorando la pillola per paura di eventuali reazioni negative (a Roma si direbbe “non buttandola in caciara”!), bensì esprimendo con chiarezza e coraggio le proprie convinzioni malgrado l’ammissione sulla «scomoda posizione» occupata, non calpestando in alcun modo il diritto di chiunque «di vivere e morire nel teismo e con il catechismo ufficiale», ribadendo oltretutto la propria appartenenza alla «famiglia spirituale» costituita dalle comunità parrocchiali frequentate.
Trovo peraltro che questo dibattito sia del massimo interesse e spero vivamente che vada avanti in uno spirito di fraternità e sororità e di ricerca condivisa.
Grazie per il suo autorevole e fermo richiamo al rispetto dovuto al pensiero e al sentire del prossimo ( di oggi e del tempo passato) in questioni tanto delicate che toccano, a volte anche in modo doloroso, l’interiorità della persona. Gabriella Dogliani
Per essere moderni si arriva all’ateismo.
Cos’è questo dio non personale se non un semplice simbolo?
Come sia possibile per un prete confessare, dire messa e recitare il credo con queste idee è veramente illogico.
Ateismo nel cristianesimo di Ernest Bloch, non è particolarmente nuovo.
Nella sua giusta preoccupazione mette in rilievo “come sia piossibile per un prete confessare, dire messa e recitare il credo con queste idee è veramente illogico”. Per ovviare a questo, che è sicuramemnte un vero problema nell’immediato, andrebbe rivista la formazione dei stessi presbeteri, spingendo affinchè la teologia entri in un rapporto diaologico con la filosofia e la scienza. Papa Francesco ha ribadito più volte che “La Grazia suppone la cultura”. Ecco è proprio da qui che si dovrebbe ripartire anche per far in modo che il linguaggio della trasmissione della fede sia legato ai tempi in cui la chiesa vive, dentro ai quali ancora dio ha la forza di manifestarsi.
Ma di fatto è la stessa posizione di un medico no-vax, in che modo un’istituzione può formare i propri membri su teorie contrarie al proprio statuto deontologico?
Comunque mi sembra la stessa questione sollevata da Agostino contro i docetisti, anflche se un sacerdote, umanamente, non corrisponde in tutto a ciò che ci si aspetterebbe da lui il suo ruolo “sacramentale” è ugualmente valido.
No Angela, non è così.
Per la validità del sacramento occorre sempre l’intenzione del ministro.
Un prete ateo non potrà mai amministrare sacramenti validi, al contrario di un prete peccatore.
Quale intenzione può animare un ateo che assolve in nome di un dio in cui non crede?
Non è un sacramento ma una blasfemia.
Per lui immagino, ma per il fedele che li riceve mi sembra che sia ugualmente valido. Era anche la tesi de Il potere e la gloria di Greene che Paolo VI stesso difese dalla censura, per quanto possa sembrare strano.
p.s. correggo: non docetisti ma donatisti. Per i donatisti il peccato di un sacerdote rendeva il sacramento invalido. (Vedi polemica con Agostino.)
E’ il paradigma che deve essere cambiato: una posizione di tipo ontologico non regge più alla luce della storia del pensiero occidentale. Di quale statuto deontologico si parla? La chiesa afferma che i sacramenti sono validi per il semplice fatto che vengano celebrati (“ex opere operato”) indipenderemente da “ex opere operantis”. Si capisce bene che un approccio del genere si impone sulla realtà in modo ideologico.
Non ho fatto l’esempio del vaccino a caso, se un medico pensa che il vaccino faccia male per coerenza dovrebbe smettere di inocularne, non può chiedere alla comunità scientifica internazionale di istruirlo ad essere contro una pratica solidamente condivisa.
Per il resto, si è ex opere operantis, esattamente come un vaccino che non richiede un effetto placebo, funziona anche se non sei d’accordo. L’Istituzione avrà le proprie colpe ma se un suo rappresentante non si riconosce più nella stessa dovrebbe anche essere onesto con se stesso.
Se pensi che Dio, Il Credo e il Padre nostro siano favole arcaiche come fai a pronunciarle ogni Domenica?
Poi bisogna vedere in cosa credono veramente i post-teisti, cioè se portano alle estreme conseguenze il proprio pensiero o se lo utilizzano solo superficialmente, come critica, per noia, o per debolezza di fede. Molti saranno attratti dalla novità, come il solito. Magari il sacerdote penserà di essere post-teista e invece è solo un teista un po’ riverniciato, lo saprà lui..
Io sto con la Scienza e con la Storia e non do alcun credito alle religioni (tanto meno al cristianesimo) e ai loro miti.
Non credente , sei in buona compagnia ,ormai anche molti preti, teologi ,vescovi e cardinali la pensano come te !
Al netto delle polemiche sui cattolici formati nella teologia tradizionale, che lasciano il tempo che trovano, il limite essenziale è che non comprendo bene in che modo alleandosi con la fisica moderna la post-teologia risulterebbe più interessante per il pubblico post-illuminista. Nel senso: l’idea del cosmo attuale non potrebbe tranquillamente essere una versione moderna del cosmo teolemaico? Tanto più che anche la fisica Einsteiniana sembra in qualche modo essere “tradizionale” nella sua statica geometricità rispetto a quella molto più caotica che emerge dalla fisica quantistica.. Attualmente viene messa in discussione anche la teoria del Big Bang, quindi di quale scienza contemporanea parliamo, quando la tiriamo a pretesto di una visione post-teista?
Per il resto al netto dei neologismi non ci vedo grosse novità rispetto al famoso testo di Capra (La fisica del Tao) , testo che aveva il merito di abbracciare una visione orientale in tutto relativizzando le “verità” tecnico/scientifiche occidentali. Insomma non si può volere tutto: i vantaggio della modernità occidentale, le certezze scientifiche, la consolazione fideistica in una presenza “divina” speranzosa. Vale per lo stesso discorso sulla dissoluzione occidentale di Ferrario, si rigetta una certa idea di occidente, ma si finisce per sposarne una ancora più occidentale, se non vuoi credere nell’occidente non crederci fino in fondo, se non vuoi un Dio padre con la barba bianca, non credere neppure in un Dio apofatico ma tutto sommato degno di speranza, ecc. ecc. ecc.