
Non è un segreto che i media digitali stiano complicando il modo in cui comunichiamo gli uni con gli altri. Possiamo discutere dei pro e dei contro, delle opportunità e dei compromessi. Ciò che non si può contestare è che questi cambiamenti sono avvenuti e continueranno ad avvenire.
Fin dalle origini, la Chiesa ha cercato di comunicare con il mondo e diffondere il Vangelo. Oggi, gli influencer cattolici – coloro che utilizzano i social media e altri strumenti digitali per annunciare la Buona Notizia – sono sempre più riconosciuti come i nuovi missionari. Sebbene questi strumenti rendano facile a chiunque diventare un evangelizzatore digitale, essi rischiano di alterare profondamente la comprensione di cosa significhi evangelizzare.
Nel 1985, il teorico dei media statunitense Neil Postman ha analizzato i cambiamenti avvenuti con l’avvento della televisione e ciò che essa aveva comportato per le nostre abitudini di comunicazione. Nel suo libro Amusing Ourselves to Death. Public Discourse in the Age of Show Business, cercava di capire come questo potente mezzo d’intrattenimento stesse plasmando la politica negli Stati Uniti.
Il libro è tornato al centro del dibattito pubblico durante la prima elezione presidenziale di Donald Trump. Giornalisti e analisti dei media, compreso il figlio di Postman, lo hanno definito «profetico», sostenendo che aveva anticipato l’attuale stato del nostro discorso pubblico.
Per Postman, lo sviluppo dei nuovi media non ci offre semplicemente nuove forme di contenuto, ma altera la stessa struttura con cui conduciamo il nostro discorso. Le modalità di comunicazione che scegliamo riflettono una preferenza per determinati usi e definizioni dell’intelletto. In altre parole, produciamo e riceviamo contenuti nel modo in cui lo facciamo perché i nostri strumenti di comunicazione ci dispongono a farlo.
Alcuni studiosi non sono d’accordo con Postman, trovando il suo argomento troppo deterministico. Tuttavia, quando afferma che «la forma determinerà la natura del contenuto», non intende dire che non abbiamo alcun ruolo o possibilità di azione in questo processo. Per comprendere il suo pensiero, è necessario cogliere la sua più ampia visione dei media.
L’“Era dello Show Business”
Postman è stato una figura influente nello sviluppo di quella che viene chiamata ecologia dei media, lo studio degli ambienti mediali. L’argomento centrale dell’ecologia dei media è che gli esseri umani e i loro strumenti di comunicazione non esistono isolatamente, ma si influenzano a vicenda, formando sistemi complessi. Come gli organismi in un ecosistema, esseri umani e strumenti si modellano reciprocamente attraverso l’interazione, fornendo implicitamente struttura e assegnando ruoli. Studiosi come Postman hanno cercato di rilevare e far conoscere meglio questi condizionamenti.
Postman riteneva che i media disponibili in una determinata cultura giocassero un ruolo dominante nella formazione delle preoccupazioni intellettuali e sociali nella stessa cultura. A partire da questa intuizione, notava come la televisione stesse assumendo un ruolo sempre più centrale in Occidente; era preoccupato per la crescente mercificazione dell’informazione e per la prevalenza dello spettacolo che, in modo sottile, si infiltrava nel discorso pubblico.
Sebbene molta attenzione sia stata riservata agli studi sulla politica, Postman ha affrontato anche un altro ambito della vita pubblica degno di considerazione: la religione. Egli riteneva che la religione non fosse affatto più al sicuro della politica nell’«Era dello Show Business». La televisione presentava la religione nello stesso modo in cui presentava le notizie e la politica: come forme di intrattenimento.
Nel 1985, Postman vedeva nel telepredicatore l’incarnazione di questa realtà. Così come la televisione aveva lentamente generato un ambiente in cui lo spettacolo aveva sostituito le esigenze disciplinate del giornalismo tradizionale, egli credeva che l’intrattenimento e il piacere stessero soppiantando l’introspezione e la trascendenza proprie della religione. Considerando le pressioni cui erano sottoposti i telepredicatori per rendere i loro servizi più «televisivi», Postman metteva in guardia: «il pericolo non è che la religione diventi il contenuto di programmi televisivi, ma che i programmi televisivi diventino il contenuto della religione».
Riecheggiando la convinzione di Marshall McLuhan secondo cui il mezzo è il messaggio, Postman sosteneva che il modo e i mezzi con cui si trasmette un messaggio sono cruciali per la sua presentazione e ricezione. Mentre i telepredicatori prendevano il centro della scena e promuovevano i loro programmi, egli temeva che il mistero, il simbolismo e l’alterità della religione potessero andare perduti o essere compromessi.
Il pulpito dei social media
Oggi, nell’era dei post curati e dei contenuti virali, il Vangelo ha trovato un nuovo pulpito. Senza dubbio, la diffusione dei social media rappresenta un’opportunità unica per predicare e connettersi, specialmente con coloro che sono lontani dalla Chiesa. Tuttavia, mentre i cattolici entrano nel mondo degli influencer digitali per diffondere la Buona Notizia, faremmo bene a considerare l’analisi di Postman e prestare attenzione ai suoi avvertimenti.
Le pressioni che i telepredicatori affrontavano per aumentare il proprio pubblico e i propri indici di ascolto si sono solo intensificate negli ultimi anni. Le piattaforme social sono governate da algoritmi che non sono né neutrali né oggettivi. Il «successo» è misurato attraverso il coinvolgimento quantificabile, con meccanismi che incentivano e premiano determinati comportamenti e stili di contenuto. Dovremmo chiederci se il «coinvolgimento» possa davvero essere un metro significativo per valutare l’efficacia del nostro impegno evangelico.
Chiariamo: il problema non è il coinvolgimento in sé. A cosa servirebbe usare una piattaforma se le persone non incontrassero il nostro messaggio? Tuttavia, osservando più da vicino il modo in cui comunichiamo online, anche a fini di evangelizzazione, temo che la penetrazione della dimensione dello spettacolo sia molto più diffusa di quanto siamo disposti ad ammettere.
Ancora una volta, non è il coinvolgimento in sé il problema, ma le scelte che gli influencer cattolici fanno per confezionare i loro contenuti rispondendo a questa pressione. La questione diventa ancora più preoccupante se riconosciamo che tali scelte avvengono sia consapevolmente sia inconsciamente. Troppo spesso, rischiamo di confondere la conversione dei cuori e delle menti con l’accumulazione di like e follower.
Non si tratta di una condanna generalizzata degli influencer cattolici. Credo sinceramente che essi siano animati da un autentico amore per Dio e da un sincero desiderio di condividere la propria fede. Le mie riserve e preoccupazioni non riguardano tanto loro, quanto gli strumenti che usano – e, ancor di più, la loro consapevolezza rispetto a tali strumenti.
Etichettare queste persone come «soggetti malintenzionati» non sarebbe né utile né corretto. Lo stesso Postman non credeva che i telepredicatori del suo tempo fossero mossi da cattive intenzioni. Egli riteneva piuttosto che i loro compromessi e limiti erano «non tanto le loro debolezze, quanto le debolezze del mezzo in cui operavano».
Credo che lo stesso valga per i social media. La portata e la diffusione delle piattaforme social rappresentano una grande opportunità per evangelizzare; tuttavia, la loro tendenza ad amplificare contenuti caricati emotivamente, partigiani e persino ostili è una fragilità profonda. Sebbene tendenze e viralità promettano visibilità, sono insidiosi nel sostituire la sostanza con la performance.
Le reti sociali che stiamo costruendo riflettono i valori del Vangelo o quelli della piattaforma? Analizzando queste piattaforme e ciò che esse premiano, i parametri di successo proposti spesso contrastano in modo netto con i costi e le condizioni del discepolato. Gli influencer cattolici devono riconoscere queste dinamiche per esercitare maggiore discernimento e resistere alla tentazione di alimentarle. È il primo passo necessario per promuovere una partecipazione più sana sui social media e preservare l’integrità di ogni impegno di evangelizzazione digitale.
Fino ad allora, potremmo trarre beneficio dal lasciare che la critica di Postman pungoli la coscienza di ogni influencer cattolico nel valutare il proprio ministero: «Anche se il Suo nome è invocato ripetutamente, la concretezza e la persistenza dell’immagine del predicatore trasmettono un messaggio chiaro: è lui, non Lui, che dev’essere adorato».
Noah Banasiewicz è uno studente gesuita; è docente a contratto alla Scuola di Comunicazione della Loyola University di Chicago. Il suo articolo è stato pubblicato su America il 14 luglio 2025





