Siria al crocevia

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La tragedia siriana ha bisogno di una chiave di lettura e per me la migliore è quella dell’analogia degli opposti, che si rincorrono nel circuito della vittimizzazione tribale, communitaria. C’è un’identità mimetica degli opposti, e il caso siriano purtroppo rende il tutto chiarissimo.

Possiamo cominciare per comodità dal caso più eclatante: l’evidente continuità tra il sistema degli Assad e quello dell’attuale “presidente provvisorio” Ahmad al-Sharaa. Sarebbero nemici, gli opposti; sono due gocce d’acqua? Indubbiamente si sono combattuti, ma entrambi credono in un rigido centralismo, che abbiamo visto all’opera nella storia con Assad e nei massacri prima di alawiti e poi di drusi da parte di al- Sharaa.

Ciò è avvenuto perché, come Assad, al-Sharaa vorrebbe un governo centralizzato, forte e affidato a persone di fiducia, espressioni della sua comunità. Un governo nei fatti tribale, come era nei fatti tribale quello di Assad.

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Come è deformante e scellerato affermare che la giunta Assad sia stata la giunta degli alawiti (ciò che avevano in testa i sunniti che si sono precipitati a massacrarli quando si è temuto un golpe non di “un generale nostalgico di Assad” ma “degli alawiti”), così è deformante definire al-Sharaa espressione dei sunniti, mentre molti lo avversano perché lo vorrebbero più integralista e altri lo avversano perché avversi all’integralismo.

Premesso che sunniti, drusi e alawiti sono  comunque tutti nella famiglia dell’islam, il problema è se si ritiene che lo Stato debba comandare e fondarsi su una fedeltà al capo di tipo clanico-tribale-confessionale come hanno fatto gli Assad e oggi fa al-Sharaa, o se si ritenga che lo Stato debba contare su fedeltà che si costruiscono nei territori, dove gli alawiti non vivono da soli nella zona dove sono maggioranza, ma insieme ad altri, come i drusi, che non vivono da soli nella loro montagna, ma insieme ad altre minoranze che lì vivono con loro.

Dunque non è il centralismo confessionale, ma il decentramento quello che serve: rappresentanti di tutti i territori, con leader capaci di esprimere non il potere di tribù confessionalmente omogenee, ma gli interessi di territori dove vivono persone di diverse comunità.

Portare un acquedotto servirà a tutti, raddoppiare un ospedale servirà a tutti, valorizzare l’olivo sarebbe apprezzato da tutti – a prescindere dalla tribù e quindi dalla confessione di appartenenza.

Conoscere il territorio vuol dire conoscere le vere esigenze, le priorità, le potenzialità. È possibile? A tappe forse sì, e la prima non può che essere un Governo “provvisorio e multicomunitario” (in attesa dei partiti e di un possibile sistema misto, perché la democrazia non è una sola), un governo espresso dai territori, non dai capi tribali, e che garantisca tutte le comunità.

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Al-Sharaa non ha fatto questa scelta, piuttosto si è legato a milizie sunnite con le quali ha preso il potere e dalle quali rimane dipendente, a prescindere dagli interessi della comunità sunnita, che sono interessi diversi come diversi sono i territori dove i sunniti vivono.

Questa diversità va unita nell’unità plurima del Governo centrale. È questo il punto che ha causato il disastro druso: al Sharaa ha lasciato fare alle sue milizie sunnite e beduine per rafforzare il suo potere. E oggi si può dire che ne sia uscito indebolito e che tutti abbiamo notato che ha commesso lo stesso errore già due volte.

La debolezza della Siria, devastata da mezzo secolo di Governo fondato sulla prevaricazione senza alcun limite, non si trasforma in forza in un giorno, ma bisogna pur cominciare. Includere, non escludere, superare le appartenenze clanico-confessionali, creando nuovi legami, tra persone, e rendendo così lo Stato forte della sua forza, non di quella della comunità del leader.

Su questo i siriani non hanno alleati, perché le potenze straniere si regoleranno in base ai propri interessi. Che Damasco controlli il territorio siriano è nell’interesse della Turchia, la quale non vuole che i curdi facciano come i drusi e confermino la loro autonomia ai confini turchi.

La Turchia non apprezza le autonomie curde, anche perché per Erdogan renderebbero più difficile convincere milioni di siriani (arabi, non curdi) a tornare in patria. Sono questi i motivi principali per cui sostiene al-Sharaa. Ma certo non ha la priorità dell’inclusività, piuttosto del braccio di ferro.

Israele invece non apprezza che Damasco controlli il territorio siriano perché teme che divenga un avamposto militare turco, il più potente esercito della regione dopo il suo, e quindi si presenta come amica dei drusi, la cui separazione da Damasco riduce la possibilità di movimentazione di truppe verso il confine israeliano.

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E Damasco fa i propri interessi? Sembra di no.

L’interesse di al-Sharaa è quello personale, cioè restare al potere, non è quello della Siria, che sarebbe quello di diventare davvero “una”, esprimendo e preservando la sua pluralità. Per far coincidere il suo interesse con quello nazionale al-Sharaa dovrebbe fare quel che non ha fatto: unire le comunità in un Governo davvero rappresentativo della complessità siriana, dialogare con tutte le istanze che tali comunità pongono e convincerle a dialogare con le istanze nazionali, per armonizzare i vari interessi in un interesse nazionale.

Il vero coraggio, la vera forza, è quella della moderazione, non dell’estremismo. E così nei confronti di tutti gli opposti estremismi si potrebbe legittimare la forza di un nuovo centro, unito dalla tutela degli interessi di tutti i moderati delle diverse anime siriane.

È l’inizio di questo federalismo informale, trans-confessionale, l’unico strumento esistente in via transizionale per tenere unita la Siria e farne uno Stato con dei cittadini. Per riuscirci occorre però fare i conti con tutte le vittimizzazioni e tutti i suprematismi confessionali. Ogni comunità è o è stata vittima, e su questo ha costruito la sua “volontà di potenza”.

Un Governo forte della Siria è tale se avvia una vera politica di riconciliazione nazionale a partire dalla costruzione di una verità storica condivisa sulla quale costruire la pace interna siriana. I sunniti, vittimizzati per decenni da Assad, devono sentire riconosciuta la loro storia di vittime e così rifiutare il meccanismo della sete di vendetta che sta vittimizzando altri.

Questo è vero per tutti gli altri: gli alawiti sono vittime e molti di loro hanno vittimizzato; i drusi, i curdi, analogamente. Forse questa poteva essere la priorità dei cristiani. Per dare alla Siria un’identità nazionale bisogna partire dal riconoscimento del proprio e dall’altrui dolore. Altrimenti si intravede il rischio del fallimento, non prima però di nuovi massacri.

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