
Il mio articolo pubblicato su Avvenire il 16 luglio scorso su Bergoglio, papa romantico ha ricevuto alcune riflessioni acute e generose. A chi mi ha scritto – teologi, studiosi, insegnanti, giornalisti – desidero rispondere non tanto per chiarire, quanto per proseguire un dialogo (Riccardo Cristiano ha pubblicato una sua reazione su SettimanaNews).
E forse, più ancora, per dare testimonianza del fatto che parlare oggi di “romanticismo” in relazione al pontificato di Papa Francesco non è un esercizio di stile, ma un modo necessario di affrontare la crisi antropologica e culturale del nostro tempo.
Chi ha reagito al mio testo ha sempre colto l’essenziale: usare la parola “romantico” non significa riferirsi a un sentimentalismo nostalgico o vago, ma a una precisa visione antropologica. Il romanticismo di Papa Francesco consiste in una apertura radicale alla totalità dell’umano, inclusa l’ombra, il dubbio, la ferita, la passione, la ricerca di senso.
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In questo senso, come è stato correttamente osservato, Francesco si situa nel solco di quella “antropologia polare” che Romano Guardini aveva individuato come struttura profonda dell’esperienza cristiana. Non la negazione del conflitto, ma l’assunzione delle tensioni. Non la soluzione dialettica che dissolve le differenze, ma la paziente tenuta insieme degli opposti: inquietudine e pace, ragione e cuore, verità e turbamento, fede e dubbio.
È un punto decisivo. La teologia romantica di Francesco – e possiamo definirla così senza timore – non è una forma di debolezza dottrinale o un cedimento al relativismo, ma al contrario un richiamo fortissimo alla verità del cuore umano. Una verità che non si conquista con deduzioni logiche, ma si scopre nel fuoco dell’esperienza viva.
Ecco perché Francesco non teme parole come inquietudine, incompletezza, immaginazione. Sono le sue “tre i”, come le ha definite in un memorabile discorso del 2015. Non sono limiti da superare, ma condizioni essenziali per vivere da esseri umani, da credenti, da uomini in ricerca.
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Una delle riflessioni che ho ricevuto mette giustamente al centro il tema del desiderio. La cultura contemporanea – si osserva – è segnata da un paradosso: da un lato il desiderio sembra essere diventato una forma di narcisismo, come in certi approcci al consumo compulsivo (cfr. Bauman, Campbell), dall’altro è proprio nel desiderare che si apre uno spiraglio di trascendenza. In quale direzione si orienta il desiderio? Verso l’autorealizzazione o verso il compimento? Verso la soddisfazione immediata o verso il Destino, come è stato scritto con grande profondità?
Papa Francesco ha avuto il coraggio di mettere il desiderio al centro della vita spirituale. Non lo ha moralizzato, né demonizzato. Lo ha preso sul serio. Per lui il cuore umano è, come nei Padri della Chiesa, capax Dei, e quindi anche capax desiderii.
L’inquietudine è segno di una tensione verso l’Altro. L’incompletezza non è un difetto, ma il segno di un’apertura. E l’immaginazione è l’unico strumento che l’uomo possiede per rendere abitabile un mondo in cui i significati sembrano sfuggire.
L’uomo contemporaneo – l’homo psychologicus, per usare l’espressione di Elena Pulcini – vive spesso nella frustrazione di un desiderio che non trova oggetto adeguato. E allora si rifugia nel consumo, nella performance, nell’apparenza. Ma Francesco suggerisce un’altra via: accogliere il desiderio come ferita, come nostalgia di un Altrove.
Come diceva Simone Weil, «abbiamo nostalgia di un bene che non conosciamo». E qui il Papa si dimostra davvero maestro spirituale: non ci chiede di spegnere il desiderio, ma di ascoltarlo in profondità, di orientarlo verso la verità, verso la Vita. Anche a costo di smarrirsi, di dubitare, di vacillare.
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Una domanda affiora in alcuni commenti: un Papa può essere inquieto? Non dovrebbe essere il “pastor angelicus”, il custode della verità, l’uomo della certezza assoluta? Ma proprio qui si coglie la radicale novità dell’approccio di Francesco.
Nella sua visione, l’inquietudine non è debolezza, ma apertura alla realtà. La fede non è la chiusura della ricerca, ma il suo compimento nel cuore di una relazione. E la verità non è un possesso da difendere, ma un cammino da percorrere insieme. Francesco è il papa dell’ascolto, del discernimento, della sinodalità. Tutti concetti che presuppongono conflitto, tensione, turbamento.
Nella modernità, spesso si è pensato che il pensiero razionale, coerente, logico, potesse risolvere ogni conflitto. L’utopia illuminista ha generato la distopia totalitaria proprio perché ha escluso l’inquietudine, l’ambiguità, l’imprevisto. Francesco, invece, accetta il paradosso come forma della verità. E la verità, scrive, «non si dà senza il turbamento del cuore».
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Un’altra voce ha sottolineato il legame tra il romanticismo di Francesco e il suo amore per la letteratura. È vero, come dimostra l’ultimo libro di Francesco dal titolo Viva la poesia!. In un mondo che ha perso la capacità di immaginare, il Papa ha restituito dignità alla parola poetica. Leggeva Dostoevskij, Borges, Manzoni, Hölderlin. Non per erudizione, ma perché la letteratura custodisce l’esperienza viva del cuore umano. Le storie raccontano quello che la filosofia spesso dimentica: il dolore, l’attesa, l’incontro, il fallimento, la grazia.
E nella letteratura emerge il tema del Destino, distinto dalla Sorte. La sorte è cieca, individuale, narcisista. Il destino è relazione, apertura, chiamata. Francesco parla spesso di vocazione, di chiamata alla pienezza, alla gioia, alla comunione. In un’epoca che ha smarrito il senso del futuro – e quindi anche della speranza – la riscoperta del destino come orizzonte di senso è forse il dono più grande del suo pontificato.
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Infine, una riflessione merita attenzione particolare: Francesco ha parlato a credenti e non credenti proprio perché ha parlato al cuore umano. È stato percepito come una minaccia sia da certi ambienti ecclesiali che da alcuni contesti laici radicalizzati, proprio perché non rientrava in nessuno schema ideologico.
È stato un leader spirituale perché non ha proposto formule, ma cammini. Non ha venduto soluzioni, ma ha ascoltato domande e alimentato la ricerca. Ha unito, nel suo messaggio, ciò che spesso è separato: la fede e la fragilità, la verità e il dubbio, la dottrina e la misericordia. E ha così mostrato che il cuore dell’uomo è uno, che sia credente o no.
Il romanticismo di Francesco, dunque, non è un’estetica dell’indeterminatezza, ma una visione profonda della fede come esperienza incarnata, una fede che nasce dall’ascolto del cuore, che attraversa il buio, che accoglie la ferita.






En” Insistencialismo y hombre actual”, a propósito de dos publicaciones de Ismael Quiles que el papa Francisco siendo Bergoglio presentó en una conferencia en el año 1989 -y que puede encontrarse en el último texto suyo de los recopilados en “Reflexiones en esperanza” y al que pueden acceder libremente en https://racimo.usal.edu.ar/435/ – , el papa Francisco hace referencia al hombre romántico y al hombre gnóstico y diferencia la interioridad del romántico de la interioridad óntica. Es interesante leerlo porque él mismo no parece identificarse con el hombre romántico descripto por Quiles, ni con el gnóstico, sino con el hombre piadoso, que se atreve a trascenderse hacia lo anterior como garantía que lo prepara para ser padre siendo hijo. Contingencia consciente. Francisco “conduce al romántico a la fecundidad y al gnóstico a la sabiduría, a ambos le sacia la sed … y se la aumenta”.
El de Insistencialismo y hombre actual es un texto riquísimo, aunque, en realidad, todos los recopilados en Reflexiones en esperanza son maravillosos. Y muy recomendables para conocer el corazón de Francisco.
Se posso dare io una definizione del povero Papa Francesco è questa: Un grande scienziato. Perché il Cattolicesimo oltre che religione è una grande scienza.
È il vivere la fede che stupisce la povera chiesa dei codicilli, dell’indifferenza all’altro, dell’assenza di con-passione e di SPIRITUALITÀ. solo specchiandomi in lui la mia fede si è sentita… normale. Grazie a Dio che l’ha regalato a questo povero mondo. Alla sua partenza ho pianto dolcemente 3 giorni di amore, di malinconia, di gratitudine.
Leggere queste riflessioni su Papa Francesco mi riempie di nostalgia e gratitudine. Ho sempre amato profondamente questo Papa proprio per la sua capacità di restare umano, semplice, vicino ai dolori e alle contraddizioni del nostro tempo. In un’epoca che ha smesso di sognare, lui ha avuto il coraggio di ricordarci che l’amore, la tenerezza e la misericordia sono ancora gesti rivoluzionari. La sua voce resta un faro per chi cerca il senso nel presente, senza illusioni ma con fede autentica.
È giusto e bello riflettere sul magistero di Papa Francesco. Credo che sia un ottimo esercizio: fa bene al cuore e alla mente! Tuttavia queste riflessioni sembrano venate di nostalgia: come se mancasse e allora bisogna parlarne per alimentare la grandezza del personaggio. Attenzione a non cedere ad una tentazione che lo stesso Francesco ha più volte messo in evidenza: non vivere il qui e l’ora. Bergoglio non lo vorrebbe! D’altronde la realtà è superiore all’idea…no?
Certo che manca. Non capisco quale sia il problema se in tantissimi abbiamo nostalgia di lui.
Esiste la logica del “morto un papa se fa un altro” cinica e direi al limite del disinteresse per la persona (come a dire uno vale l’altro) e chi sa che non è vero. Credo che per papà Francesco valga quello che vale per Giovanni XXIII. I papi che sanno toccare il cuore e non solo il cervello sono quelli che nessuno mai dimentica perché li si è amati. E quando ami davvero una persona come può pretendere che non manchi?
Credo che Spadaro abbia scritto la verità. Speriamo lo capiscano anche i signori degli equilibrismi, i rancorosi pieni di fiele e i difensori estenuanti dello status quo che scrivono commenti su queste pagine. Un papa così intelligente non arriverà più.
Quanta stima per Leone XIV. E ancor di più per la Provvidenza
A proposito di livore….
…il suo è incorreggibile
Più che romantico, direi post-moderno. Si addice assai meglio
Alla fine nemmeno più di tanto, è stato più vicino a GPII di Benedetto (soprattutto nell’ultima fase della malattia, rispetto alle dimissioni particolarissime di Ratzinger). Forse perchè proveniva da una realtà meno secolarizzata rispetto all’Europa.
Tra romantico e post moderno corre un abisso. Non ho dubbi che l’autore abbia ragione.