Il Tour di Italo Zilioli

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Italo Zilioli, classe 1941, corridore professionista dal 1962 al 1976. Nel Tour del 1970 vinse la seconda tappa e portò la maglia gialla per 6 giorni. In questa intervista ricorda quei giorni e come è cambiato il ciclismo. La proponiamo mentre si sta concludendo la Grande Boucle 2025.

  • Caro Italo, sei noto, nell’ambiente, come un “saggio”, oltre che un “signore” del ciclismo, vero?

Non penso di essere saggio perché i saggi sono normalmente i vecchi, mentre io non mi ritengo vecchio, perciò non sono saggio.

  • Puoi raccontarci il tuo Tour del 1970 in maglia gialla?

Erano gli anni in cui dominava le corse un corridore che risponde al nome di Eddy Merckx. Io ero, in quell’anno, suo compagno di squadra e di stanza alla Faemino. Eddy aveva vinto il prologo a cronometro e indossava la maglia gialla. Probabilmente l’avrebbe tenuta sulle sue spalle dal prologo sino all’ultima tappa.

Nella seconda tappa io sono entrato in una fuga “da lontano” con una quindicina di corridori, ridottisi a quattro verso l’arrivo; in fuga, con me, oltre al mio compagno di squadra Georges Vandenberghe, belga, c’erano il francese Berland e Walter Godefroot, un altro corridore belga tra i più forti nelle corse di un giorno. Avrei potuto non impegnarmi nella fuga, essendo Eddy il leader della classifica; invece, sono stato quello che più di tutti ci ha messo l’anima per arrivare al traguardo. Dei quattro o cinque minuti di vantaggio che avevamo, a pochi chilometri dall’arrivo, restava poco. Essere raggiunti significava, allora, essere derisi dal gruppo; mentre oggi, per tante ragioni, è tutto il contrario: chi va in fuga e viene ripreso, diventa l’eroe della giornata.

In vista dell’arrivo piovigginava: prendendo una curva a destra “a tutta” ho sentito dietro di me il fragore delle biciclette che strisciano sull’asfalto; due erano caduti: Godefroot e Derland; ho rallentato un poco per attendere il mio compagno che non era caduto. Abbiamo fatto gli ultimi due chilometri in coppia, spingendo a tutta forza sui pedali, perché Godefroot si era rialzato immediatamente e stava recuperando terreno. Ho vinto la tappa e ho indossato la maglia gialla.

Io naturalmente ero contento, non pensando di aver fatto un torto a Eddy “strappandogli” la maglia, perché, per me, era un fatto scontato che, alla fine, avrebbe vinto comunque lui.

  • E lui come l’ha presa, quando vi siete ritrovati in albergo, nella stessa stanza?

Eddy non era per niente arrabbiato. Disse: «è una bella soddisfazione per te». Ha solo aggiunto che il Tour era ancora lungo e c’era ancora tanta fatica da fare: quelle energie spese mi sarebbero mancate in seguito: parole che mi hanno fatto riflettere. Lui era un “super”, un “campionissimo”, e nonostante vincesse sempre, tanto da essere soprannominato “il cannibale”, sapeva dosare le sue grandissime energie. La verità è che tutti avremmo voluto essere “cannibali”, ma il vero “cannibale” poteva essere solo lui. A dispetto della denominazione poco benevole, Merckx era leale e corretto, a differenza di tanti altri…

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Eddy Merckx, Felice Gimondi e Italo Zilioli al Giro dell’Appennino del 1971

  • Come è finito quel Tour?

Ho portato la maglia gialla per sei giorni. Avevo pochi secondi di vantaggio in classifica su Merckx. È arrivata una tappa molto importante col traguardo a Valenciennes, sul pavé. Forai una gomma in un momento “caldo” della gara. Tutti i compagni di squadra erano impegnati a tenere davanti al gruppo Eddy, come fanno tutti coi loro campioni; perciò, nessuno si fermò per darmi una ruota di scambio; pertanto, ho dovuto attendere un po’, sinché è arrivata la macchina della squadra per la sostituzione, ma ormai la corsa era andata avanti senza di me. I giornali sportivi hanno tentato di mettermi in polemica con Eddy e con la mia squadra, sostenendo che la maglia gialla era stata abbandonata. Ma io non ho acceso alcuna polemica: si doveva fare così; è stato giusto così. Quel giorno Eddy ha ripreso la maglia gialla e l’ha portata sino alla fine del Tour.

***

  • Che corridore era, dunque, Italo Zilioli?

Io ero un corridore istintivo, insicuro, non certo un “guerriero”. Il mio istinto quasi mi imponeva – perché seguivo le mie emozioni – di vincere nella maniera più difficile, ossia arrivando al traguardo “solo”. Lo confermano i risultati: una cinquantina di corse vinte, di cui allo sprint solo cinque o sei.

Oggi sono ricordato più per le corse che ho perso che per quelle che ho vinto: per le tre volte consecutive in cui mi sono piazzato al secondo posto nel Giro d’Italia, nel ’64, nel ’65 e nel ’66.

Dicevano, per questo, che fossi adatto alle grandi Corse a tappe. Ma io, tuttora, non mi considero un corridore di quel genere, perché, per vincere i grandi Giri, bisogna avere una attitudine psicologica diversa dalla mia, bisogna saper programmare, pianificare, come sanno fare solo i veri “imprenditori”. Seguendo l’istinto ogni tanto ti va bene, ma sovente manchi l’obiettivo.

Per me la bicicletta è sempre stata, sin da ragazzino, sinonimo di libertà, di passione, di divertimento anche nella fatica. Da professionista, naturalmente, la bicicletta è diventata, anche per me, un mestiere, ma, sotto sotto, l’ho sempre vissuta alla mia maniera, cioè per divertirmi.

  • Eri un emotivo in corsa e fuori dalla corsa?

Sì, mi capitava la notte di avere incubi e di gridare col cuore in gola “al fuoco al fuoco!”, oppure “chi c’è là!?”. In me c’era una tensione che sfogavo in quel modo. Era un problema che condizionava non poco il mio riposo, il mio recupero dopo ogni tappa e ogni gara, quindi il mio rendimento. Spaventavo anche i miei compagni di stanza. Mi ricordo che una notte il titolare dell’albergo in cui alloggiavamo – pensando che ci fossero i ladri – è andato all’ingresso del locale imbracciando un fucile; al mattino lo hanno rassicurato dicendogli che «Italo è solito dare i numeri».

L’unico che non si è mai impressionato è stato Eddy: si svegliava e mi diceva con calma «Italo, sta tranquillo, non c’è niente», come avrebbe detto un papà al figlio piccolo; poi lui si riaddormentava subito, mentre io ci mettevo ancora un bel po’.

  • Eri un corridore speciale, ma “complicato”: per questo hai cambiato diverse squadre?

Col mio modo di essere al mondo, cercavo sempre l’ambiente ideale. Il 1970 alla Faemino, a fianco di Eddy – il più grande corridore e, per giunta, il mio amico – è stato uno dei miei migliori anni perché il clima della squadra mi trasmetteva entusiasmo e sicurezza: quell’anno ho vinto una ventina di corse, compresa una Corsa a tappe in Spagna – la Settimana Catalana – battendo Luis Ocaňa e Raymond Poulidor.

  • Ricordo che il grande giornalista Sergio Zavoli aveva fatto di te un bel ritratto, vero?

Sì, in un libro – Viaggio intorno all’uomo – mi ha descritto perfettamente. Lui sapeva penetrare in maniera impeccabile nella personalità di chi intervistava. Il pezzo iniziava così – vado a memoria: Italo Zilioli così esile, incerto, sensibile, ha i turbamenti, le scontrosità, gli entusiasmi e le sofferenze di una fanciulla o di un intellettuale tormentato. Così, a prima vista, non sembra per nulla adatto al mestiere che fa, eppure lo fa bene, a volte da vero campione.

  • Come fai a ricordare a memoria queste parole?

Faccio fatica a ricordare i particolari delle corse, mentre il mio amico Franco Balmamion ricorda tutto! Ma le cose e le parole che mi toccano e mi emozionano, le ricordo tutte e bene.

***

  • Nei filmati dell’epoca non ti ho visto mai manifestare una grande esultanza, anche da vincitore. Come mai?

Se badi, una volta si esultava molto meno di oggi; spesso bastava un braccio alzato: in fondo significava solo aver attraversato per primo una linea tracciata sull’asfalto.

Era poi nel mio carattere non esagerare mai: era più importante quello che avevo dentro di me di ciò che potevo manifestare fuori.

  • Ti chiedo ora di tornare ancora più indietro nel tempo: come hai iniziato ad andare in bici?  

Dopo le scuole superiori, a sedici anni, fui assunto come disegnatore alla Magnadyne. Avevo un amico coetaneo che aveva il papà “patito” di Coppi: a quattordici anni gli ha comprato la bici e la divisa della Bianchi. Così anch’io andai col mio papà a comprare la mia prima bici da corsa, una Frejus presa per andare in giro col mio amico, non per correre.

La bicicletta per me significava la voglia di evadere dai soliti giochi, dal quartiere della periferia della Torino operaia in cui vivevo; rappresentava la voglia di libertà di noi ragazzi del quartiere, a quei tempi.

  • Alle gare come sei arrivato?

Trovai per strada un ciclista che mi chiese: «perché non corri in bicicletta?»: non so, forse aveva visto qualcosa in me che mi distingueva da altri sulla bici. Mi ha indicato una società sportiva – la Gios – che si occupava dei giovani. Sono andato e mi hanno iscritto.

Nel ’58 ho fatto le mie prime tre gare, da allievo del primo anno. Ricordo bene la mia prima gara forse più di tutte le altre, appunto perché mi ha emozionato tantissimo: non ero allenato, non sapevo correre; facevo fatica a “tenere le ruote”, cioè a non farmi distaccare dall’ultimo corridore del gruppo.

Era una gara di ottanta chilometri circa. Verso la fine c’erano già dieci corridori avvantaggiati, ma io neppure lo sapevo, Dopo aver fatto tanta fatica in precedenza, mi sono sentito meglio, con più fiato in gola; seguendo perciò il mio istinto innato, in una curva a due chilometri dal traguardo, mi sono “buttato” avvantaggiandomi di trenta o quaranta metri, mantenendoli sino all’arrivo: 11° e felice.

I “secondi posti” mi hanno perseguitato poi per tutta la carriera, come una una ossessione: ho iniziato nel ’58 con un secondo posto, poi, oltre gli storici secondi posti consecutivi al Giro d’Italia, ne ho collezionati altri – almeno una trentina -, per chiudere quindi la carriera nel ’76 al secondo posto nel Giro dell’Emilia vinto da Roger De Vlaeminck.  “Eterno secondo”, come Gaetano Belloni? Il mio destino? Non so…

Sta di fatto che dopo quel piazzamento – quell’undicesimo posto – è subentrata in me una passione che non mi ha più abbandonato. Da un artigiano torinese ho acquistato una bicicletta da corsa su misura per me e, nel ’59, al secondo anno nella categoria allievi, ho vinto una dozzina di corse, tra cui il Campionato italiano a Sanremo.

  •  I tuoi genitori ti han lasciato fare?

Ero un ragazzo piuttosto introverso e taciturno, specie in casa. Ad un certo punto, ho preso la mia decisione e i miei genitori mi hanno lasciato fare. Venivano alle corse di nascosto: io non volevo infatti che vedessero quanta fatica stavo facendo; avrei voluto che mi ricordassero come ero in casa: silenzioso e apparentemente tranquillo.

A differenza di altri genitori non hanno mai cercato di dissuadermi o di dirmi che dovevo andare a lavorare.

  • Come sei diventato professionista? 

A Torino, in quegli anni, aveva sede la Carpano, una importante società professionistica di cui era manager Vincenzo Giacotto. Giacotto mi fece avvicinare, sul finire del ’59, da un giornalista de La Stampa per un contatto di interesse al professionismo.

Entrai alla Carpano facendo l’impiegato nell’ufficio di Giacotto che voleva introdurmi a poco a poco nell’ambiente. A ventun anni – con la deroga di un giorno – sono passato al professionismo e ho partecipato alla prima gara – il Giro dell’Appennino – passando da solo in cima alla salita della Bocchetta.

***

  • Dopo il professionismo, cosa hai fatto nella vita?

Per tutti i corridori il “dopo” è un problema. Io non ho saputo fare altro nella vita che restare nel mondo del ciclismo: prima, per tre anni, come direttore sportivo coi professionisti, poi, per altri dieci anni, coi dilettanti alla SiSport Fiat. Nel 1990 la SiSport Fiat non era più interessata a sponsorizzare il ciclismo e quindi rimasi senza lavoro.

Mi giunse, però, nella primavera di quell’anno, una telefonata dell’avvocato Carmine Castellano, direttore del Giro d’Italia, che mi chiedeva di entrare a far parte della organizzazione delle corse de La Gazzetta dello Sport. Ho iniziato allora una collaborazione che è durata diciotto anni, quale responsabile delle partenze delle corse.

  • Tu ritieni che il ciclismo sia molto cambiato? Come?

È evidente, anche a chi non lo segue molto, che è cambiato: le biciclette sono molto diverse, l’abbigliamento dei corridori anche, così come l’alimentazione, la preparazione e il modo di correre. Tutto è cambiato, come è cambiato anche il mondo. Oggi c’è troppa velocità e di conseguenza ci sono troppe cadute rovinose. Le strade con spartitraffico e le rotonde non sono fatte certamente per la sicurezza dei corridori.

Sì, io ho visto da vicino cambiare questo mondo, al punto da non riconoscere più il mio ciclismo e il mio mondo. Adesso c’è molta meno libertà, meno estro, meno fantasia nelle corse; ci sono meno possibilità per tanti corridori di affermarsi: come vediamo, del resto, in questo Tour, ci sono tre o quattro “fenomeni” e sono sempre loro a giocarsi i traguardi importanti; hanno alle spalle “squadroni” in grado di ingaggiare ottimi corridori, ben remunerati, che si mettono al loro servizio. Così, le corse si sviluppano col solito “schema fisso”: con una fuga in partenza che, di solito, viene ripresa in vista del traguardo.

***

  • Perché gli italiani non sono più protagonisti delle corse in bici, come lo sei stato tu?

Oggi il ciclismo è mondiale, ossia globale: i corridori non sono solo di nazionalità europee, come un tempo: è perciò più difficile emergere. Ci sono poi, numericamente, meno ragazzi italiani che vanno in bicicletta. I giovani più interessanti, già a diciotto anni, sono ingaggiati dalle cosiddette squadre “di sviluppo”, che fanno capo agli stessi squadroni professionistici di cui ti dicevo prima, che lasciano loro poco tempo per crescere e maturare, sottoponendoli troppo presto a stress e a grandi fatiche per ottenere, in fretta e subito, i risultati: così tanti si “bruciano”. Ma sono discorsi, questi, che ho già fatto tante volte, e che mi fanno apparire troppo vecchio per il ciclismo contemporaneo…

  • Segui le corse in TV?   

Sì, ma senza esagerare: non mi va di stare ore e ore davanti alla TV per seguire corse piuttosto prevedibili e discorsi scontati.

  • La bici è tutta la tua vita? E la famiglia, e altro?

Con la vita che ho passato sulla bicicletta e tra le biciclette – e con lo scrupolo, forse esagerato, con cui penso di averla vissuta questa vita – ho effettivamente trascurato gli affetti e la famiglia, cosa abbastanza comune tra chi fa sport a certi livelli o è impegnato in lavori che portano lontano da casa. Ma sono contento delle mie scelte e non ho rammarichi. Ho coltivato la passione per la musica e suono la fisarmonica: ho frequentato per dodici anni un Istituto musicale. Adesso suono la fisarmonica per divertirmi, così come vado in bicicletta per tenermi in salute, anche mentalmente.

  • Ti sono rimasti gli amici delle corse di un tempo?

Con Franco Balmamion mi sento spesso. Con tanti altri mi sento al telefono, non infrequentemente, per rinnovare i nostri comuni ricordi: quanti ricordi!

  • Un’ultima domanda: quando partivi per le gare, ti facevi il segno della croce?

No, non ho mai fatto il segno della croce prima di partire: ritenevo dentro di me che fosse solo una esibizione. Non ti so dire altro. Ora mi fa solo piacere che una rivista cattolica si occupi anche di sport, di ciclismo e anche di me.

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