Il cervello che spera: neurobiologia e speranza

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«La speranza è la cosa con le piume che si posa sull’anima», scriveva Emily Dickinson. Ma cosa succede nel nostro cervello quando speriamo? Non è solo poesia. La speranza, oggi, è al centro di una crescente attenzione scientifica: è una forza psichica profonda, concreta, radicata nel nostro cervello nei circuiti della motivazione, della previsione e della resilienza. È una bussola invisibile che agisce e ci orienta, ci sostiene e ci spinge ad agire anche nei momenti più incerti.

Cos’è la speranza, dal punto di vista neurobiologico?

La speranza è un’emozione anticipatoria positiva. Si attiva quando immaginiamo un futuro migliore e crediamo che esista almeno una possibilità concreta di raggiungerlo. È una spinta interiore che unisce pensiero e sentimento, desiderio e possibilità. Dal punto di vista neurobiologico, coinvolge processi complessi: pianificazione, previsione del futuro, regolazione emotiva e motivazione all’azione.

La speranza non è quindi un semplice «stato d’animo positivo»: è un vero e proprio processo cognitivo-emotivo integrato, che ci spinge a vivere con uno sguardo orientato al futuro. È quel mix potente di un’emozione positiva che anticipa il domani, unita a un pensiero realistico che ci dice: «È difficile, ma ce la posso fare».

Le aree del cervello coinvolte nella speranza

La speranza ha una base neurologica precisa. Diversi studi di imaging cerebrale mostrano come essa attivi reti complesse, molte delle quali legate alla motivazione, alla memoria autobiografica e alla capacità di affrontare l’incertezza.

  • Corteccia prefrontale ventromediale (vmPFC)

È una regione cerebrale fondamentale per la valutazione del valore emotivo delle esperienze, per l’integrazione tra emozioni e ragionamento e per la stima delle probabilità di esiti positivi. Quando immaginiamo il futuro, è la vmPFC che ci aiuta a dare senso alle possibilità, attribuendo loro un significato personale e valutando quanto valgano per noi.

Se questa regione è ben funzionante e ben integrata con le altre reti cerebrali, siamo più capaci di mantenere una visione fiduciosa anche nelle difficoltà: è proprio qui che la speranza trova la sua radice affettiva e razionale. Una maggiore attivazione della vmPFC è stata associata a livelli più alti di resilienza: la capacità di non cedere alla disperazione, di leggere nei propri vissuti elementi di significato, e di orientare le scelte sulla base di ciò che conta davvero.

  • Corteccia prefrontale dorsolaterale (dlPFC)

È una regione chiave del cervello esecutivo, coinvolta nella pianificazione, nella regolazione degli impulsi, nel problem-solving e nel controllo cognitivo. È ciò che ci consente di rimanere focalizzati su un obiettivo, modulare le emozioni, valutare strategie alternative e adattarci di fronte agli ostacoli.

Quando speriamo in qualcosa, non ci limitiamo a desiderarlo: la speranza attiva la dlPFC per tradurre il desiderio in azione, per sostenere nel tempo comportamenti coerenti con ciò che vogliamo raggiungere. In altre parole, è in questa regione che la speranza prende forma come virtù: perseveranza, capacità di resistere alla frustrazione e di intravedere soluzioni anche in situazioni difficili. La speranza, così, non è solo un sentimento positivo, ma una competenza neurocognitiva che si allena e si agisce.

  • Striato ventrale e nucleus accumbens

Lo striato ventrale, in particolare il nucleus accumbens, è una delle principali sedi del sistema dopaminergico del cervello, coinvolto nei processi di motivazione, anticipazione della ricompensa e comportamento orientato a un obiettivo. Quando speriamo in qualcosa – che sia un cambiamento, una guarigione, una possibilità nuova – questo circuito si attiva, rilasciando dopamina: il neurotrasmettitore che segnala al cervello che «qualcosa di buono potrebbe arrivare». Non si tratta solo del piacere legato alla ricompensa reale, ma dell’anticipazione del risultato desiderato. È questa attivazione che ci spinge ad agire, a proseguire, a resistere.

  • Amigdala

L’amigdala è una piccola ma potente struttura del sistema limbico, deputata alla regolazione delle risposte emotive, in particolare quelle legate alla paura, al pericolo, all’incertezza e alla valutazione dei rischi. Infatti, in situazioni ambigue o minacciose, si attiva rapidamente per orientare l’organismo verso la sopravvivenza, modulando attenzione, memoria ed eccitazione fisiologica. Ma quando entra in gioco la speranza, l’attivazione dell’amigdala tende a diminuire. Mentre paura e ansia accendono il sistema di allarme, la speranza contribuisce a placarlo. La mente si apre a nuovi scenari, il corpo si rilassa, e l’energia emotiva si organizza non più per la difesa, ma per il movimento costruttivo verso il possibile.

  • Default Mode Network (DMN)

È una rete cerebrale che si attiva quando la mente non è concentrata su compiti esterni, ma rivolta all’interno. È implicata nei processi di auto-riflessione, memoria autobiografica, immaginazione mentale e pensiero prospettico – ossia la capacità di proiettarsi nel futuro. Proprio per questo, svolge un ruolo cruciale nella costruzione di scenari di speranza: immaginare possibilità future, pensare a sé stessi nel tempo che verrà, attribuire senso alle esperienze, sono tutte funzioni che poggiano sull’integrità e sull’attività della DMN. È la rete che ci permette di raccontarci storie su chi siamo e su chi potremmo diventare.

Speranza e neuroplasticità: il cervello si può allenare

La speranza si può coltivare, si può allenare, proprio come si allena un muscolo. E la ricerca lo dimostra.

Studi su pazienti depressi hanno evidenziato che interventi mirati (come la terapia della speranza o la psicoterapia orientata al futuro) modificano l’attività cerebrale. In particolare, aumentano la connettività tra le aree prefrontali e il sistema dopaminergico. Questo significa che il cervello può apprendere a sperare, come apprende una lingua o uno strumento musicale.

Allenare la speranza è, quindi, allenare la resilienza e la capacità di visione, e non è solamente un dono o una virtù riservato a pochi, ma una capacità neurocognitiva che può essere nutrita, stimolata, potenziata.

Quando la speranza si incrina: implicazioni cliniche

Nei disturbi dell’umore, come la depressione, la speranza spesso si spegne. Le aree cerebrali che la sostengono sono meno attive, la dopamina rallenta.

Nel trauma (PTSD), invece, la speranza è un potente fattore protettivo: aiuta a riorganizzare i ricordi, a ridare un senso all’esperienza vissuta.

Persino la speranza spirituale attiva le stesse aree della speranza «laica» – ma con una particolarità: coinvolge anche il precuneo, area legata al senso del sé profondo, alla contemplazione e alla connessione.

La speranza, anche nelle sue declinazioni più intime e personali, è quindi un faro neurobiologico: ci orienta, ci protegge, ci muove. Come scriveva Papa Francesco: «La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte».

Educare alla speranza: un compito possibile (e urgente)

In un mondo instabile, accelerato e a volte disorientante, educare alla speranza diventa un atto rivoluzionario. Per educatori, genitori, terapeuti e formatori, non si tratta di trasmettere ottimismo ingenuo, ma di costruire con i giovani scenari di possibilità reali nei quali scienza e fede sono due sguardi sulla stessa direzione.

Infatti, la bellezza di questo tempo è che scienza e spiritualità si avvicinano: la prima mostra come la speranza si radichi nel cervello umano e sia essenziale per la nostra salute mentale; la seconda ci ricorda che siamo fatti per la luce, e che il nostro desiderio di bene ha un fondamento profondo, antropologico e spirituale.

Come genitori ed educatori, possiamo aiutare le persone – giovani e adulti – a tenere insieme questi due sguardi: la concretezza della neuroscienza e il respiro della fede. Perché la speranza è, da sempre, il motore dell’umano.

Come possiamo sostenere la speranza nei giovani?

  1. Allenare la visione

Chiedere ai ragazzi: «Cosa sogni?», «Cosa immagini tra cinque anni?», non è un esercizio vuoto. È una forma di attivazione neurocognitiva. Li aiuta a usare la corteccia prefrontale e a mettere in moto i meccanismi di proiezione e motivazione.

  1. Rinforzare la fiducia nei piccoli passi

Aiutare i giovani a vedere che “è possibile cominciare da qui”, anche se la meta è lontana, li ancora alla realtà e rafforza lo striato ventrale. Il piccolo traguardo raggiunto è dopamina pura: carburante per andare avanti.

  1. Legittimare l’incertezza, senza lasciarci dentro

Spiegare che avere paura o essere confusi non è il contrario della speranza. È parte del viaggio. L’amigdala si calma se le emozioni vengono ascoltate, non negate.

  1. Diventare modelli di speranza credibile

Non serve essere sempre positivi. Serve mostrarsi capaci di immaginare soluzioni, tollerare l’attesa, costruire narrazioni non fataliste. La speranza è anche una questione di linguaggio.

  1. Creare contesti che nutrono

Un ambiente relazionale accogliente, dove l’errore non è punito ma accolto come parte dell’apprendimento, è una vera palestra neurobiologica per la speranza.

In conclusione

Comprendere la speranza come un processo neurobiologico integrato — e non solo come un’emozione o un concetto astratto — ci offre strumenti concreti per nutrirla nei contesti educativi, terapeutici e spirituali.

Per un educatore, significa creare ambienti dove i bambini e i ragazzi possano vedere possibilità anziché solo ostacoli, dove la fatica non venga punita ma accompagnata, dove ogni passo avanti, anche il più piccolo, venga riconosciuto e valorizzato.

Per chi lavora nella relazione d’aiuto, significa aiutare le persone a ritrovare accesso ai circuiti della motivazione, anche dopo traumi o perdite. Significa accompagnare a riconnettersi con la parte viva del sé, quella che ancora immagina, che ancora desidera, che ancora sceglie.

Per questo, sostenere la speranza nei giovani significa offrire loro molto più che parole: significa educare alla possibilità, al futuro, alla forza di non arrendersi anche quando il cammino è incerto.

E per chi si muove in ambito spirituale, significa coltivare un ascolto profondo del desiderio, quel movimento interiore che orienta verso il senso e verso l’Altro. Significa credere, anche biologicamente, che la vita tende alla vita, e che dentro ognuno di noi esiste una forza che ci invita a muoverci, anche quando tutto sembra fermo.

Perché sperare – ora lo sappiamo – non è debolezza. È un atto di intelligenza profonda, di cura e di fiducia. È un movimento del cervello e dell’anima nella stessa direzione. Ognuno di noi può essere un architetto di possibilità interiori e può aiutare le nuove generazioni a credere che qualcosa di speciale, per loro, può ancora accadere. E che vale la pena camminare in quella direzione, insieme.

Laura Ricci, psicologa, supervisore, docente di psicologia della Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e Presidente di Doceat, associazione per il sostegno e lo sviluppo delle persone e delle organizzazioni (www.doceat.org)

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7 Commenti

  1. Mariagrazia Gazzato 4 agosto 2025
  2. Fabio 4 agosto 2025
  3. Laura Ricci 2 agosto 2025
  4. Roberto 31 luglio 2025
    • Laura Ricci 2 agosto 2025
  5. Francesco Pieri 30 luglio 2025
  6. Nelu Luca 30 luglio 2025

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