Il potere con l’altro

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La mostra Sulla guerra – Appunti su guerra e pace («De bello – Notes on war and peace»), organizzata nello spazio Gres Art 671 a Bergamo dalla Fondazione Pesenti, è anche un luogo di incontri per una cultura della pace.

Il titolo, in latino e inglese, ricorda che le lingue di derivazione latina, per dire «guerra», hanno scelto l’antico tedesco werran (oggi war in inglese), che significa confondere, mischiare, invece del latino bellum, troppo simile a bellus (bello), che indica ordine e armonia. La storia della lingua ci dice che bellezza e guerra sono incompatibili e inconfondibili – un contrasto che la mostra rende evidente.

Tra le opere colpisce la serie Lost&Found dell’artista ucraina Masha Shubina, che ha dipinto ordigni bellici su tovaglie, tovaglioli e tendine ricamati a mano dalla nonna: i gesti di chi fa casa e di chi la disfa, sovrapposti sullo stesso tessuto.

Voglio allora raccontare due storie, una ucraina e una palestinese.

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La prima è quella di Viktoria, dottoressa ucraina di 30 anni. All’inizio dello scontro era a Kyiv, ma non è tornata nella sua città d’origine: «I nostri militari avrebbero avuto bisogno di cure mediche. E poiché sono un medico, ho deciso di rimanere».

Viktoria lavora in ambulanza, perché ci vogliono quattro ore per arrivare dal fronte al primo ospedale: «Non esiste un paziente stabile in guerra: può diventare critico durante il viaggio».

Ha toccato la morte dal primo giorno, soccorrendo un giovane paramedico arrivato in Ucraina come volontario: «Abbiamo lottato più di mezz’ora, ma non è stato possibile salvarlo. Ho chiuso i suoi occhi e l’ho affidato a Dio, affinché lo accogliesse dopo un sacrificio così grande: esser venuto da un altro Paese per aiutarci. Gli sono molto grata».

Le parole di Viktoria ricordano i ricami della nonna di Shubina: «Uno sguardo, un sorriso, una parola di incoraggiamento: sono cose che i protocolli non specificano ma fanno parte del mio lavoro». Racconta che spesso i pazienti la tengono per mano, soprattutto chi ha lesioni agli occhi: «In una delle evacuazioni portavamo un soldato che non riusciva a vedere. Mi teneva la mano e quando la toglievo per fare un’iniezione all’altro ferito, si agitava e mi chiedeva: “Viktoria, dove sei? Voglio sentire la tua mano”».

Alla giornalista che le ha chiesto dove trova la forza ha risposto: «I barlumi di speranza sono nella fede. Credo che il Signore abbia seminato un seme di sé e della sua speranza in ogni persona… quindi vado al fronte, contribuisco a salvare vite umane e faccio il possibile. Se sono una piccola goccia nell’oceano, ringrazio Dio per questo».

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Poco più in là, nella mostra, c’è uno spazio “bellico” delimitato da tre foto gigantesche del fotoreporter Gabriele Micalizzi, stampate su tessuti grezzi cuciti tra loro, come arazzi medievali. La trama grossa del tessuto rende tangibili le asperità dell’evento, anche agli occhi.

Una di queste foto è intitolata L’umarell ed è stata scattata a Gaza: un ragazzo palestinese, seduto tra i gas lacrimogeni durante una manifestazione, osserva da una striscia di pace la violenza che lo circonda.

Ho collegato la fotografia alla storia di Zeina, una bambina palestinese di quattro anni, raccontata su VaticanNews. È ricoverata nel reparto di oncologia pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma, insieme alla sorellina di due anni e alla madre, Manar Farhat Murtaja.

«Siamo qui da quattro mesi, non sono mai uscita; mangiamo e dormiamo tutte e tre in questa stanza. Grazie a un corridoio umanitario siamo arrivate a Roma. Zeina stava male ma a Gaza non c’era possibilità né di curarla né di diagnosticare la malattia. Gli ospedali più vicini erano distrutti e le poche strutture in funzione danno la precedenza ai feriti estratti dalle macerie».

Il marito di Manar è rimasto a Gaza: «Riesco a parlare con lui solo qualche volta. Abbiamo perso tutto: la nostra casa non c’è più, e con essa anche mio padre, ucciso dalle bombe israeliane».

Come il ragazzo nella foto, Manar guarda la distruzione e rimpiange ciò che le è sempre stato vicino e irraggiungibile: «Ho quasi 30 anni e non sono mai uscita da Gaza. Non avrei mai immaginato che la prima volta sarebbe stato per curare mia figlia. Mi sarei accontentata di vedere Gerusalemme, che è a soli 60 km da dove vivevo, ma era un sogno».

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Mostra deriva dalla radice mon- (la stessa di monito, ammonire, mostruoso) che significa «avvertire, far sapere, ricordare».

Che cosa ci avverte, questa mostra?

Che gli uomini da sempre cercano di diventare se stessi – di «individuarsi» – o con la guerra o con l’amore. La storia di Caino e Abele lo racconta perfettamente: gli uomini, a differenza degli animali, non uccidono per necessità, ma per essere «unici». Lo stesso motivo per cui cercano l’amore.

Ma mentre il violento vuole l’unicità solo per sé, chi ama la riconosce anche all’altro, lo vede «unico» come un altro se stesso, e rinuncia al potere su di lui.

Due sono sempre le strade, in ogni relazione – tra amici, coppie, popoli: o l’io cerca di esistere a scapito dell’altro, o a favore dell’altro. O prende la vita, o la dà. O fa il bellum, o il bello. E mentre il potere sull’altro dà solo l’illusione di essere unici – ma ci lascia soli – il potere con l’altro rende unici davvero e libera dalla solitudine.

Lo scriveva così David Foster Wallace in Infinite Jest: «Si è, solo ed esclusivamente e completamente, ciò per cui si morirebbe senza pensarci due volte. Tu, per cosa moriresti senza pensarci due volte?».

Come i ricami di Shubina, le fotografie di Micalizzi e le storie di Viktoria e Manar, anche questa mostra ci ricorda che «fare il bello» – non il bellum – è l’unico modo per restare umani.

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4 Commenti

  1. Mihajlo 17 agosto 2025
    • Michele Biaggi 17 agosto 2025
      • Mihajlo 18 agosto 2025
  2. Mariagrazia Gazzato 15 agosto 2025

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