
Nel corso di un breve dialogo sulla possibilità del paradiso in terra, uno dei personaggi minori de L’idiota, il principe Šč., rivolge le seguenti parole al protagonista, il principe Myškin, in risposta all’invito di questi al sentimento e alla pratica del perdono: «Caro principe, […] non è facile trovare il paradiso in terra, e voi ci fate proprio un po’ di assegnamento: il paradiso è una cosa difficile, principe, molto più difficile che non paia al vostro ottimo cuore».[1]
In merito a questa possibilità, vi è poi un’immagine, un’immagine di vita vera, in questo caso, ricordata anche da Isabella Adinolfi nelle pagine che introducono il volume a due voci, la sua e quella di Giorgio Brianese, dal titolo «Il Paradiso sulla terra». La religione di Dostoevskij e Tolstoj.

Tolstoi e l’anelito alla libertà
È l’immagine di un Tolstoj ormai anziano, affaticato, che, nel cuore della notte, fugge da quello che agli occhi di molti era considerato un vero e proprio paradiso sulla terra, un «luogo dell’anima»[2] – scrive Adinolfi –, una «patria spirituale»:[3] Jàsnaja Poljàna. Anche qui, in questa dimora fisica per lo spirito, Tolstoj sentiva di correre il rischio di tradirlo, lo spirito, di non corrispondere alle sue esigenze, sentiva tutte le sue contraddizioni di uomo riaffacciarsi, pronte a trascinarlo verso il basso, a farlo cadere, e, forse, sentiva anche quel che aveva dichiarato Ivan Karamazov: l’impossibilità, o almeno la difficoltà, di amare l’umanità concreta, reale, vicina, a cominciare proprio dall’essere a lui più prossimo, la moglie.
La domanda che siamo chiamati a porci nel parlare di paradiso sulla terra, allora, riguarda innanzitutto la sua possibilità: è possibile un paradiso terrestre o, piuttosto, è questo un sogno – come quello di Versilov ne L’adolescente – e nulla più? E, nel caso in cui fosse un compito, invece, un compito per l’uomo, graverebbe per intero sulle sue mortali spalle? Sarebbe all’altezza, l’uomo, l’uomo da solo, di un simile compito?
All’interno del volume di Adinolfi e Brianese, uno dei saggi dedicati da Adinolfi a Tolstoj pone fin dalle sue prime pagine il tema intrinsecamente connesso alle domande appena sollevate: è il tema della libertà umana. Il saggio in questione indaga la filosofia della storia dell’autore di Guerra e pace tra fatalismo e moralismo, estendendo la riflessione alla sfera della morale non soltanto collettiva, storica, ma anche e soprattutto individuale, privata.
Se, nella vita sociale, pubblica, il rapporto tra necessità e libertà, per il singolo, si determina a favore della prima, poiché è il potere, qui, a fare da padrone, e se nel divenire storico e in quella sua manifestazione che è la guerra agisce la mano di un Dio onnipotente che eccede lo sguardo e la ragione degli uomini, è nella vita intima, interiore, che Tolstoj avverte il respiro di una volontà originariamente libera.
Questa volontà, certo, incontra degli ostacoli nel tentativo di farsi azione – degli ostacoli che non di rado sono inalienabili –, certo è una volontà chiamata a distinguere quello che è il suo campo d’azione, il ciò che dipende da me, da quello che non lo è, il ciò che non dipende da me, e che tuttavia si contraddistingue come libera nelle intenzioni, fosse anche nell’intenzione di sottomettersi con umiltà a ciò che non può essere cambiato.
Per Tolstoj, quindi, l’individuo dispone di una libertà che non è assoluta, che non è sinonimo di onnipotenza, ma che, piuttosto, è situata: è la libertà della coscienza, limitata, sì, ma reale, condizione di possibilità della conversione interiore e della successiva condotta pratica morale, una libertà interiore che però mai sottrae l’uomo al compito di esercitarla esteriormente, fattivamente, o almeno di provarci.
Dostoevskij e il bene della libertà
E Dostoevskij – come insiste Nikolaj Berdjaev – ha fatto della libertà «il midollo»[4] di tutta la sua produzione, l’ha difesa con forza, tragicamente, ritenendo la libertà irrinunciabile per la dignità dell’uomo, facendosi carico, per essa, del dolore, della colpa, della morte, in una parola, del negativo.
Dostoevskij non difende la libertà in quanto bene ma in quanto tale, in quanto libertà che, in virtù di sé stessa, può esercitarsi per il bene o per il male: «la libertà del bene presuppone la libertà del male».[5] Vi è una certa libertà, quindi, quella che sfocia in arbitrio, che si sottomette al potere e agisce per il male, ma vi è un’altra libertà, la libertà in Cristo e con Dio, che rende pensabile e forse anche possibile la salvezza, il paradiso, già a partire dalla terra.
Per entrambi gli autori, allora, se vi è un essere potenzialmente in grado di farsi carico della propria sorte, tanto nel bene quanto nel male, quell’essere è l’uomo: sintesi di necessità e libertà, di materia e spirito, complesso, dunque, e con ciò tragico, poiché conteso tra due estremi, all’uomo è possibile cadere nell’abisso così come tentare l’ascesa al cielo, ed è possibile dar vita a entrambi nel qui e ora della sua esistenza terrena.
La risposta alla domanda sulla possibilità del paradiso, insomma, è affermativa, ed è nell’essenza umana che giace la sua condizione di possibilità. Il Regno di Dio è in voi, titola un’opera di Tolstoj del 1893: il monito è quello di esserne degni, di metterlo in pratica attraverso scelte di vita originate dalla coscienza, da quella luce interiore che porta il nome di Dio; e una delle versioni del paradiso sulla terra presenti nella produzione di Dostoevskij – come osserva Adinolfi nell’introduzione al volume – è quella di derivazione evangelica che la Chiesa d’Oriente ha tradotto come «il regno di Dio è dentro di voi», dando così al regno di Dio una connotazione mistica, spirituale, definendo questo regno non come un qualcosa di lontano nello spazio e nel tempo bensì come un qualcosa di radicato nell’interiorità di ciascuno, disponibile a partire dal qui e ora.
Dostoevskij, tuttavia, che in sé stesso avverte l’eco della polifonia dei suoi personaggi, la fede e l’incredulità, la speranza e il dubbio, riconosce l’uomo come un figlio che, nel suo progredire, mai cessa di avere bisogno della guida e dell’intervento del Padre; nel cammino di purificazione intrapreso dall’uomo dostoevskijano, dunque, il tocco della grazia è ancora e sempre richiesto, atteso, invocato, soprattutto necessario. Come osserva Adinolfi, la «rigenerazione spirituale»,[6] per Dostoevskij, non può che sopraggiungere dall’alto, il paradiso sulla terra è possibile a partire dall’io che guarda dentro e sopra di sé, lassù, dove Dio è e continua a essere, prendendo le distanze, in questo, dalla lettura che invece ne dà Brianese, una lettura più dichiaratamente immanente, ancorata alla terra, priva di quelle che Brianese definisce nietzechianamente «sovraterrene speranze».[7]
Un imperativo morale o un dono dall’alto?
Quello tentato da Tolstoj, invece – continua Adinolfi – è un «perfezionamento morale»[8] autonomo che viene a gravare per intero sulle spalle dell’uomo. Per lo scrittore di Jàsnaja Poljàna quello del paradiso sulla terra, in ultimo, sarà un imperativo morale, un compito etico, e, dunque, un lavoro tutto interiore, un lavoro della coscienza, unica fonte dell’azione morale; le mani dell’uomo, nelle quali è posta la possibilità della salvezza, tendono, sì, verso l’alto, ma così come si tende verso l’ideale, verso il dover essere, un alto che non ha nulla a che vedere con la dimensione del mistero, dei sacramenti, della grazia: sono mani, dunque, che non giungono ad accarezzare e meno che mai a essere accarezzate dalle mani di Dio.
Tolstoj non cesserà di pronunciare il Suo nome, quel nome che gli aveva indicato la via di uscita dal nichilismo, solo, verrà comprendendo che quel nome risuona dentro di sé e che è a partire dal suo stesso io, dal suo io spirituale, che leva la Sua voce.
Il cuore del messaggio cristiano, allora, così come la sua figura cardine, quella del Cristo, sono per Tolstoj un fatto etico, un esempio di moralità che chiunque intenda tentare l’instaurazione del paradiso sulla terra è chiamato a seguire. Come scrive Adinolfi: «se il misticismo di Dostoevskij è di natura religiosa, è cristiano, il misticismo di Tolstoj è un misticismo senza Dio, senza Cristo, il Dio-Uomo. Diversamente da Dostoevskij che benedice la vita religiosamente, Tolstoj la benedice eticamente».[9]
Ciò che si impone all’attenzione dei lettori di Adinolfi e Brianese, però, è l’incessante, tormentata ricerca che accomuna Dostoevskij e Tolstoj oltre qualsivoglia differire delle rispettive concezioni di questa, una ricerca che muove dalla presa d’atto dello scarto tra la dimensione dell’essere e quella del dover essere.
Il paradiso, da entrambi, è ricercato, meditato, tentato proprio perché non è ancora reale, proprio perché quel mondo che si apre dinnanzi ai loro occhi e che diviene bersaglio delle rispettive denunce rappresenta semmai l’opposto della condizione edenica.
Uno dei due saggi di Adinolfi su Dostoevskij titola Nell’inferno del sottosuolo. Qui, nel sottosuolo, si agitano le pulsioni più basse di una volontà libera ma unicamente per sé, per il proprio capriccio, una volontà inquinata dal risentimento, orientata al dominio, una volontà propria a un io «chiuso in se stesso»,[10] incapace di aprirsi all’A/altro.
Il nichilismo non è uno spettro bensì la realtà, la realtà concreta, per Dostoevskij, ed è la negazione di Dio da parte dell’uomo seguita dal tentativo di sostituirvisi, di prendere il Suo posto. Quella della modernità è una ribellione contro Dio con intento correttivo – si pensi a Kirillov de I demoni e al grande inquisitore della Leggenda –: Dio è accusato del male che l’umanità infligge a sé stessa, è accusato di aver fallito nell’impresa di instaurare il paradiso in terra, e l’uomo moderno, allora, tenta di fare da sé, andando a disperdere l’originaria volontà di salvezza in una volontà di potenza tutta razionale.
Non è questa, però, la via per il paradiso: ogni ideologia rivoluzionaria che volta le spalle a Dio non può che fallire in ciò che è possibile solo per mezzo della fede, per mezzo di un cuore aperto all’amore divino, a quell’amore che getta la sua luce anche nell’oscurità, anche nel sottosuolo, dove, accanto a Stavrogin e al vecchio Karamazov, si muovono figure come quella della compassionevole Liza delle Memorie.
Dostoevskij, in questo, segue Kierkegaard: è solo per mezzo della fede che si fa possibile l’uscita dal nichilismo e la successiva vita nel segno dell’amore cristiano.
Nella sua produzione politica anche Tolstoj nega che quello del paradiso sulla terra possa configurarsi come un progetto politico, poiché nella dimensione politico-statale viene a mancare, per definizione, quel fondamento morale che solo può preparare il terreno per una ritrovata condizione edenica.
Se, anche nel suo caso, era stato il cristianesimo a salvarlo dalla disperazione, quello stesso cristianesimo, col tempo, verrà ricondotto da Tolstoj al suo nucleo etico – amore incondizionato e nonviolenza – e riconosciuto come una sorta di etica, appunto, di regola pratica per la vita, senza più dogmi, mistero, grazia.
Condizione di possibilità per il passaggio da quella che Adinolfi definisce «la morale delle regole» a quella definita, invece, come «la morale del cuore», allora, è il rivolgimento della coscienza del singolo, la quale è illuminata dall’incontro con il Vangelo, in particolare dal Discorso della montagna, una coscienza che Tolstoj incita affinché persegua l’ideale, faccia suoi i comandamenti e la condotta di Cristo, ma in virtù delle proprie sole forze. Come afferma Henry Gifford, per tutta la vita Tolstoj ha ricercato e tentato di mettere in pratica «un’etica inattaccabile».[11]
Alcuni dei suoi ritratti letterari, pensiamo a Nechljudov o padre Sergij, una volta aperto il Vangelo e compreso il compito dell’uomo nella sua vita terrena, vi si dedicano con tenacia, fatica, anche tormento, così come ha fatto egli stesso in prima persona fino al suo ultimo giorno, e cercano di realizzare quel compito autonomamente; è questa la fine della narrazione, è questa la fine della parabola del narratore: una volontà che intende costruire da sé il paradiso sulla terra ricorrendo allo sforzo titanico di un uomo che prova a farsi Cristo nel qui e ora senza invocare l’intervento della grazia, senza sperare nella redenzione, nella vita futura.
Ad accomunare Dostoevskij e Tolstoj è l’appello alla coscienza individuale del singolo, riconosciuta come punto di partenza per l’instaurazione del paradiso terrestre; a dividerli, invece, il rapporto di questa coscienza con la dimensione del trascendente, con la grazia, la redenzione, l’escatologia.
L’uomo non basta a sé stesso
Che questa coscienza, per Dostoevskij, non basti a sé stessa, che l’uomo, da solo, non possa farcela, si presagisce dalla figura del principe Myškin, il principe Cristo che, agli occhi dei più, è il principe idiota; la luce che egli emana, la luce del perdono, della pietà, dell’amore divino, non basta a risollevare le sorti nemmeno di lui medesimo, meno che mai della condizione umana sulla terra.
E, tuttavia, l’epilogo della vicenda non toglie valore alla sua fede, anzi, proprio in virtù della fede egli sarà salvo, se non qui, sulla terra, almeno altrove, dopo la morte; quella di abbracciare la fede e di comportarsi in conformità con i suoi comandamenti è una scelta che chiama in causa innanzitutto la responsabilità del singolo individuo, anche se questo, poi, con Dostoevskij, necessiterà della grazia di Dio.
Sono le parole del visitatore misterioso ricordate da padre Zosima a testimoniare come la possibilità del paradiso sulla terra risieda dentro ciascuno, nell’interiorità, nella coscienza che sceglie la via dell’amore universale e del perdono: a questa coscienza, poi, verrà tesa la mano da Dio. «Il paradiso – ricorda Zosima – è nascosto dentro ognuno di noi. Ecco, ora è qui nascosto anche dentro di me e, se voglio, domani stesso per me comincerà realmente e durerà tutta la mia vita».[12]
Con la pretesa, o forse la speranza, di farcela da sé, questo è ciò che ha cercato di fare anche Tolstoj: dare inizio al paradiso sulla terra a partire da sé, dalle sue scelte di vita, dal farsi egli stesso incarnazione dei principi divini dell’amore incondizionato, del perdono, del rifiuto della violenza, così come quel suo Platon Karataev di Guerra e pace che «viveva in un rapporto amorevole con tutto ciò che la vita gli faceva incontrare».[13]
Tolstoj, però, a differenza di padre Zosima e del suo autore, cerca di fare questo guardando solo a terra, all’uomo e al suo sforzo etico, a Dio, sì, ma quel Dio che incontrava dentro di sé.
È nell’ultimo saggio del volume, infine, dedicato al rifiuto della caccia e al vegetarianesimo di Tolstoj, che si affaccia un interrogativo che crea il ponte con ulteriori riflessioni oggi più che mai urgenti: è solo tra esseri umani la possibilità del paradiso sulla terra?
Nel rifiutare la violenza non soltanto contro i propri simili ma contro ogni forma di vita animale, Tolstoj sembra perseguire l’ideale di una compassione universale, di un universalismo etico che, però, di nuovo, chiama in causa i nostri limiti, la nostra fallibilità, la nostra impossibilità di sopperire per intero e autonomamente allo scarto tra reale e ideale.
L’immagine con cui conclude Adinolfi, infatti, è quella dell’albero del racconto Tre morti, quell’albero che, quando la scure si abbatte su di lui, trema, si piega ed è attraversato dallo spavento.
La domanda sul potere effettivo e risolutivo della nostra condotta, però, come testimoniato da Dostoevskij e Tolstoj, non ci solleva dall’obbligo morale di metterla in pratica. Ricordando le parole di Tolstoj: «fa’ quel che devi, accada quel che può», ovvero, guarda a te stesso, comincia tu, singolo individuo, a dare ascolto alla tua coscienza.
Isabella Adinolfi, Giorgio Brianese, «Il Paradiso sulla terra». La religione di Dostoevskij e Tolstoj, Il Nuovo Melangolo, Genova 2024, pp. 200, € 20,00, EAN: 9788869834127.
[1] F.M. Dostoevskij, L’idiota, trad. it. di A. Polledro, Torino, Einaudi, 2014, p. 337.
[2] I. Adinolfi, In luogo di prefazione. “Il paradiso sulla terra” in Dostoevskij e Tolstoj, in I. Adinolfi, G. Brianese, Il Paradiso sulla terra. La religione in Dostoevskij e Tolstoj, Genova, il nuovo melangolo, 2024, pp. 7-32, p. 23.
[3] Ibidem.
[4] N. A. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, trad. it. di B. Del Re, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 2002, p. 49.
[5] Ivi, p. 51.
[6] I. Adinolfi, In luogo di prefazione. “Il paradiso sulla terra” in Dostoevskij e Tolstoj, cit., p. 30.
[7] G. Brianese, Il silenzio di Cristo: la “Leggenda del grande inquisitore” di Fëdor Dostoevskij, in I volti moderni di Gesù. Arte Filosofia Storia, a cura di I. Adinolfi, G. Goisis, Macerata, Quodlibet, 2013, pp. 249-271, p. 271.
[8] I. Adinolfi, In luogo di prefazione. “Il paradiso sulla terra” in Dostoevskij e Tolstoj, cit., p. 30.
[9] Ivi, p. 29.
[10] I. Adinolfi, Nell’inferno del sottosuolo, in I. Adinolfi, G. Brianese, Il Paradiso sulla terra. La religione in Dostoevskij e Tolstoj, cit., pp. 76-93, p. 91.
[11] H. Gifford, Tolstoj, trad. it. di G. Balestrino, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 59.
[12] F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, trad. it. di P. Maiani e L. Satta Boschian, Milano, BUR, 2022, p. 328.
[13] L. N. Tolstoj, Guerra e pace, trad. it. di P. Zveteremich, Milano, Garzanti, 2020, p. 1177.






Meravigliosa disamina, molto e sempre attuale. Scelte da fare in vita per qui e per l’altrove. Adoro i due autori che si mettono a confronto e li ho sempre accomunati. Questo articolo mi ha aiutato a capire similitudini e differenze tra di loro. Grazie