Cinquant’anni dopo, “Born To Run” parla ancora ai giovani

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Bruce Springsteen in concerto e New York, 21 agosto 1978 (AP Photo/Jim Pozarik)

L’iconico album di Bruce Springsteen, Born to Run, pubblicato nel 1975, ha compiuto cinquant’anni questa settimana. Eppure, nonostante il tempo trascorso, la sua esplorazione della fede e della speranza rimane sorprendentemente attuale per i giovani adulti, me compresa. L’album esercita un fascino particolare sulle nuove generazioni, e non a caso: quando scrisse la title track, Springsteen aveva poco più di vent’anni ed era a un bivio cruciale della sua vita.

In un nuovo libro, Tonight in Jungleland: The Making of Born to Run, il biografo Peter Ames Carlin racconta come l’album abbia rappresentato un punto di svolta fondamentale per Springsteen. I suoi primi due lavori non erano stati un successo commerciale, e la Columbia Records minacciava di rescindere il contratto se non fosse riuscito a produrre un brano di maggiore impatto. Born to Run nacque proprio sotto questa pressione.

L’album salvò la carriera musicale di Springsteen e lo lanciò verso una fama internazionale. Tuttavia, la sua creazione fu segnata da frustrazione e disperazione, con il sogno dell’artista sospeso a un filo.

Born to Run coglie con spietata precisione l’instabilità emotiva e spirituale della giovinezza. Da neolaureata, mi riconosco spesso nel difficile equilibrio tra speranze e paure. Vedo i miei coetanei arrancare tra lavori precari e relazioni incerte, e io stessa mi ritrovo a dubitare delle mie scelte. Anche nei momenti più sereni, l’impazienza per un futuro meno confuso si fa sentire.

Nel brano di apertura, Thunder Road, il protagonista invita una giovane donna, «Mary», a fuggire con lui dalla loro «città piena di perdenti». Come un eroe all’inizio della sua impresa, Springsteen apre con ottimismo e determinazione, esortando la sua riluttante compagna ad avere fiducia: «mostrami un po’ di fede, c’è della magia nella notte» («show a little faith, there’s magic in the night»).

Ma, con il procedere dell’album, la fede del narratore lascia spazio alla paura. In Backstreets, la fine della relazione con «Terry» assume i tratti di una catastrofe esistenziale. Il tentativo di affrontare insieme le difficoltà del mondo fallisce, e il narratore si ritrova a «piangere lacrime di incredulità», costretto ad ammettere che anche loro erano «come tutti gli altri», incapaci di sfuggire al dolore.

La tensione tra ottimismo e cinismo non appartiene solo alla giovinezza, ma l’irrequietezza dei vent’anni trova un’espressione straordinaria in un brano come Born to Run, che apre il secondo lato dell’album. Qui ritorna il tema della «città di perdenti» già presente in Thunder Road, ma con un’urgenza nuova: fuggire dalla trappola mortale del paese natale non è più un desiderio, ma una necessità vitale.

Eppure, nonostante il mondo esterno appaia sempre più cupo, il protagonista rimane determinato a credere che insieme a «Wendy» potranno «farcela in qualche modo». Si aggrappa alla speranza di un futuro migliore, pur ammettendo l’incertezza che lo accompagna: «un giorno, ragazza, non so quando, arriveremo in quel posto che vogliamo davvero, e cammineremo al sole…» («someday girl, I don’t know when, we’re gonna get to that place where we really want to go, and we’ll walk in the sun…»).

I racconti di Born to Run hanno un valore evidente sul piano narrativo, ma Carlin sottolinea un livello simbolico ancora più profondo. Riprende infatti una interpretazione avanzata da Jon Landau, critico musicale e poi manager di Springsteen.

Secondo Landau, l’arco narrativo dell’album è paragonabile alla storia di Gesù. Si apre con l’invito rivolto a «Mary» a compiere un atto di fede e termina con le grida disperate di Jungleland. Per Landau, questo passaggio rappresenta nascita, vita e morte, con l’apice drammatico di Jungleland che richiama la crocifissione. «Inizia con un’allusione a Maria e finisce con un’allusione alla crocifissione», spiegò Landau a Carlin. «Quindi: nascita, vita e morte. Questo è l’album».

Quando Carlin chiese a Springsteen cosa pensasse di questa interpretazione, il musicista rispose che gli sembrava «abbastanza giusta».

Che si accetti o meno la lettura di Born to Run come una riscrittura dei Vangeli, è innegabile che l’album sollevi domande spirituali profonde, soprattutto nel brano finale. Jungleland si chiude con la tragica fine del «Rat», ucciso subito dopo aver conquistato la «ragazza scalza» inseguita per tutta la canzone. La speranza sembra soccombere alla disperazione. Dove lo ha portato tutta quella corsa? A cosa è servita?

Apprezzo che Jungleland sollevi questi interrogativi senza offrire una risposta definitiva. Mi piace che l’album dia voce all’incertezza della giovinezza senza la pretesa di risolverla. E se davvero lo leggiamo come un’allegoria dei Vangeli, allora possiamo trovare conforto nel pensare che le urla di Springsteen non rappresentino una fine cupa, bensì la promessa di un nuovo inizio.

Molto è cambiato dal 1975. Ma sono convinta che anche tra cinquant’anni i giovani continueranno a riconoscersi in questo album e a trovare consolazione nella sua onestà e complessità emotiva. Alcune verità non invecchiano mai. Born to Run è una di queste.

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