
Disponibile sulla piattaforma Disney+ dal 13 agosto scorso con cadenza settimanale, Alien: Earth (Alien: Pianeta Terra) è una serie televisiva creata da Noah Hawley, già autore dell’acclamata serie Fargo. È la prima serie televisiva del franchise di Alien ed è ambientata due anni prima degli eventi del film Alien del 1979 diretto da R. Scott. Si tratta pertanto di un nuovo atto di rifondazione della saga dopo l’ambizioso e sottovalutato tentativo dello stesso R. Scott con le pellicole prequel Prometheus (2012) e Covenant (2017).
La saga dell’alieno Xenomorfo creato da H.R. Giger, ispirato dagli orrori cosmici di H.P. Lovecraft, ha poi trovato nuova linfa vitale anche nelle sale cinematografiche con il recente Alien: Romulus (2024), sequel diretto del primo Alien, che però cercava in realtà di riallacciare i fili proprio con l’intricata mitologia ordita da Scott in Prometheus.

Al momento – con sei episodi all’attivo su otto – la serie di Hawley sembra volersi muovere su due registri: quello action inaugurato da J. Cameron con il sequel Aliens (1986) e quello filosofico portato avanti da Scott. La serie, che sta dividendo l’audience, servirà per capire che cosa gli sceneggiatori hanno in mente per un franchise di così lunga durata e che cosa vogliono i fan da una saga che sta per compiere oramai cinquant’anni. Insomma, per chi segue le vicende dello Xenomorfo fin dagli esordi non si può che avvertire una certa confusione.
A ben guardare però lo scompiglio in casa Alien lo portò proprio Scott. La saga, almeno nei primi quattro film principali, non ha mai avuto velleità teologiche e filosofiche. Il primo era semplice e geniale: l’uomo ha conquistato lo spazio e scopre di essere solo, finché non trova in un relitto alieno una forma di vita (parassita), che incarna al contempo la mostruosità della natura e la chirurgica precisione omicida dell’arma più evoluta. Le pellicole sequel di Alien non hanno mai tentato di scavare il background della creatura, né di porsi il problema della sua origine.
Con Prometheus Scott ha aperto un vaso di Pandora di teorie ed elucubrazioni che non è riuscito a finalizzare in un tutto coerente e compiuto, complice anche la non completa libertà artistica impostagli dalla produzione. Aspramente criticato, Prometheus era il tentativo di Scott di sfruttare la sua stessa opera per superarla, usare Alien per andare oltre Alien. La storia di Prometheus era geniale e coraggiosa perché riscriveva, o per meglio dire tradiva, un intero immaginario sedimentatosi nel corso degli anni, tra film, romanzi, fumetti e videogiochi.

In Prometheus scoprivamo che la vita umana sulla Terra fu resa possibile dagli Ingegneri, razza super evoluta che probabilmente acquisì tali conoscenze proprio dallo studio approfondito della natura dello Xenomorfo stesso. Ma questo incipit intriso di paleo-astronautica non era l’elemento più originale della pellicola. A bordo della spedizione che dovrà appurare l’esistenza di questi Ingegneri c’è David, un sintetico, un androide apice della capacità creativa dell’uomo. Qui Scott mostra il grande tema di Prometheus: chi è il creatore di chi? La creatura può essa stessa creare e superare il proprio creatore?
Erano temi che il regista inglese aveva già ben evidenziato nell’iconico Blade Runner (1982). Così David, tanto perfetto quanto privo di una strutta empatica, sfrutterà il terribile lascito degli Ingegneri per creare egli stesso la vita, ma il risultato della sua ambizione non sarà che morte e distruzione, il male. Con Prometheus Scott aveva dato vita a un grande mito gnostico che di fatto si lasciava Alien alle spalle per dire qualcosa di completamente nuovo.

Da Prometheus in avanti, quindi, emerge la difficoltà di capire come coniugare le ambizioni tematiche di Scott al tanto amato Xenomorfo simbolo della saga, che però di fatto Scott aveva reso obsoleto, aprendo una ferita all’interno del franchise stesso, frattura che il cinema mainstream non è stata capace di seguire e gestire. Abbandonato in questo progetto dall’industria cinematografica, probabilmente intimorita dalla complessità dei temi proposti, Scott è però riuscito a portare avanti le sue ossessioni filosofico-teologiche con una serie che può essere considerata come il vero erede spirituale di Prometheus e più in generale di Alien, e che forse merita proprio di essere ripresa oggi in parallelo con la neonata Alien: Earth.
Con all’attivo due stagioni andate in onda su HBO tra il 2020 e il 2022,[1] Raised by Wolves[2] è una serie di fantascienza che fin dai primi minuti ci riporta nel mondo di Prometheus per estetiche e temi e che pur sviluppandosi con una narrazione autonoma sviluppa i temi del prequel di Alien in un modo sbalorditivo, dimostrando una verve creativa non comune nell’attuale panorama delle produzioni seriali. Creata da Aaron Guzikowski e prodotta da Scott, che ne dirige i primi episodi, la serie appare inequivocabilmente come il tentativo di portare avanti la mitologia gnostica elaborata dal registra nelle pellicole di Prometheus e Covenant.

La storia segue inizialmente le vicende di due androidi (Madre e Padre), in fuga con degli embrioni umani dalla Terra, devastata da una guerra che vede contrapposte le fazioni degli atei e dei mitraici, i fedeli del culto di Sol. Madre non è un semplice robot nutrice ma una potentissima macchina da guerra (denominata Necromante) creata dai fedeli mitraici ma riprogrammata dalla fazione atea con il compito di crescere bambini umani in un misterioso pianeta (Kepler-22 b), e dar così vita a una nuova umanità del tutto priva di qualsiasi credo religioso.
La più grande difficoltà per gli androidi si rivela essere infatti quella di sopprimere nei bambini umani l’istinto alla credenza. Già nei primi minuti della serie viene presentato una dei grandi temi di Prometheus, la fede. Il programma di Madre è quello di promuovere «la fede dell’umanità in se stessa ed eliminare nell’uomo la fede in un principio trascendente l’umano», ma le difficoltà di questo compito educativo sono evidenti e insormontabili fin dall’inizio e sono il motore dell’intera serie. L’intento degli sceneggiatori è quello di mostrare che con o senza Dio l’uomo non può che muoversi se non in un orizzonte di fede e che in realtà il problema di atei e mitraici è il medesimo: dare forma al mondo attraverso un atto di fede.

Uno dei bambini cresciuti da Madre è Campion, il possibile profeta atteso della terra desolata nelle scritture mitraiche. Campion soffre per la morte dei propri fratelli ed è proprio la morte che lo spinge alla fede in Dio, al desiderio di pregare. «La morte rafforza la fede», dirà Padre, e questo è il dono-dannazione di un essere consapevole della propria mortalità. Campion è anche colui che secondo le scritture mitraiche dovrà fondare la città di Mitra, città della pace, sintesi definitiva tra tecnologia e natura, abolizione di ogni fanatismo e ideologia, in cui l’uomo diventa pianamente uomo e nel cui centro cresce l’albero della conoscenza delle scritture mitraiche.
Altro tema fondamentale che la serie sviluppa e che era centrale anche nel nuovo corso pensato da Scott per Alien è quello che vede fronteggiare il Demiurgo e la figura della madre. Il Demiurgo, incarnato qui dal misterioso ri-programmatore di Madre, incarna l’ossessione creativa: egli concepisce se stesso come artista ma deve rinunciare al vero potere del creatore, cioè la creazione «dal nulla». Violentatore della materia, che piega alla sua volontà, il demiurgo scottiano non può mai creare da solo, ha bisogno del grembo da fecondare affinché la sua idea possa venire alla luce nel mondo, nello spazio e nel tempo.

La madre era centrale nella saga di Alien e lo era ancora di più in Prometheus: l’androide-demiurgo David ha bisogno che la dott.ssa Swan diventi la madre della sua creatura. Ma ogni volta il risultato di questo concepimento è anti-messianico. Il mostro, bellissimo solo allo sguardo perverso del demiurgo, finisce sempre per essere un flagello per l’umanità. Da qui il problema sull’origine del male, ancora più potente in Raised by Wolves perché è proprio Madre a partorire il serpente, lo stesso serpente che intaccherà l’albero della vita su Kepler-22, in un tentativo di una vera e propria versione alternativa del testo biblico.
Qui Scott dimostra la sua conoscenza profonda di una costellazione di simboli rintracciabile nel corso della storia umana che vede la donna legata al serpente, un archetipo che si è prodotto con regolarità in tempi e in luoghi molto distanti. Il vero nome di Madre non a caso è Lamia, la serpentina divoratrice di bambini del mondo classico.

Troppo poco è qui lo spazio per descrivere nel dettaglio i temi di una serie che è vera fantascienza e che pertanto prende sul serio la razionalità scientifica così come la sua ombra intrisa di mitologia e fanatismo religioso ma che appunto trova nella fede il loro punto di incontro e insieme di un conflitto che non può trovare soluzione.
C’è una scena del film The Martian (2015) di R. Scott che vale la pena ricordare, perché sintesi efficace di quanto sopra descritto.
Abbandonato su Marte, il protagonista, interpretato da Matt Damon, è costretto a sopravvivere cercando di utilizzare ogni mezzo possibile. Per favorire la coltivazione delle piante in una serra da lui costruita deve innescare una reazione chimica e per farlo gli serve il fuoco, elemento, come lui stesso descrive, odiato dalla NASA perché «il fuoco nello spazio uccide sempre tutti», tanto che nella base spaziale non c’è nessun materiale combustibile. Ma tra gli effetti personali di un componente della missione c’è sempre un piccolo crocefisso di legno, da cui il protagonista ricaverà delle scaglie per innescare la combustione e garantirsi così la sopravvivenza su Marte.
La scena può sembrare di poco conto, ma se si pensa all’insistenza con la quale Scott ha affrontato certi temi in alcune delle sue pellicole più importanti la sequenza di The Martian è l’ennesimo conferma di una vera ossessione: la fede nel suo aspetto salvifico ma anche potenzialmente mostruoso e distruttivo.

Così tra il leggendario Xenomorfo portato nuovamente in scena, forse goffamente, dalla divisiva Alien: Earth, fino al serpente cosmico partorito da Madre in Raised by Wolves, anche la cultura pop si fa ambasciatrice di un dubbio con il quale l’uomo non riesce a fare del tutto pace, e cioè che la creazione non sia buona e che dietro la sua apparente bellezza si nasconda il volto tremendo di un dio mortale, forse anche lui in cerca della propria origine.
[1] Una terza stagione chiesta a gran voce dai fan probabilmente non vedrà mai la luce.
[2] Il titolo è un riferimento a Romolo e Remo; nella serie il dente di Romolo è una potentissima reliquia e Romulus è anche il titolo del nuovo film della saga cinematografica di Alien. Si esplicita così anche nel titolo l’appartenenza al mondo creato da R.Scott.





