Il male, la violenza, la guerra

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genocidio

I teschi delle vittime del genocidio del 1994 in Ruanda al Kigali Memorial Center (foto CNS/Dai Kurokawa, EPA)

Raffaella Arrobbio laureata in filosofia e psicologia, studiosa di Buddhadharma, ha svolto attività di psicoterapia. Tra le sue pubblicazioni, i titoli La meditazione tra essere e benessere (cf. qui su SettimanaNews) e Fratelli Spirituali (cf. qui su SettimanaNews). Qui risponde alle domande di Giordano Cavallari sul tema della inevitabilità del male, della violenza, della guerra. 

  • Cara Raffaella, le guerre del mondo ti angustiano. Ti assicuro che angustiano anche me. Puoi descrivere cosa provi nel profondo di te stessa? Quali sono le domande che più insistentemente ti poni?

Davanti ai fatti orribili, spesso atroci, di questi ultimi anni resto attonita. Le domande che sorgono in me non riguardano prevalentemente il campo geopolitico, le sottigliezze diplomatiche, le responsabilità dei mondi finanziari, la nefandezza del continuare a costruire armi. Sono domande intorno all’essere umano: chi siamo? Come possiamo ancora essere così violenti?

  • Pensavi o contavi – come contavo anch’io con buona parte della mia generazione – che le guerre sarebbero state superate nella storia per effetto di una migliore «qualità» umana dell’umanità stessa? Era giustificato questo pensiero, secondo te?

Senza dubbio era anche il mio pensiero. Sono sempre stata convinta che il periodo in cui viviamo, dopo l’orribile disastro delle due guerre mondiali, fosse l’inizio di un modo nuovo di convivenza tra i popoli. La nostra generazione è nata da genitori e nonni che gli orrori della guerra li avevano sperimentati; forse da loro abbiamo ricevuto questa visione ottimista, abbiamo respirato la spinta verso la vita che, in effetti, ha caratterizzato gli anni successivi alla Seconda guerra mondiale.

In realtà, guerre hanno continuato ad essercene in giro per il mondo – e purtroppo, in qualche modo, anche il nostro paese vi ha partecipato in alcuni casi –, ma l’atmosfera mentale finora è stata per lo più di fiducia che presto la guerra sarebbe stata bandita, che coloro che non volevano più la guerra alla fine sarebbero stati ascoltati, e che il mondo avrebbe conosciuto finalmente la pace. Non una pace frutto di trattati, o come esito di guerre vinte: una pace inerente, implicitamente sottesa a ogni relazione tra i popoli, anche in presenza di problematiche o difficoltà. Non so se questa fiducia fosse giustificata anzi, probabilmente era solo un’ingenua illusione.

Non dimentichiamo che alle spalle delle guerre, sempre, ci sono l’avidità e l’arroganza di alcuni, ci sono i motivi economici, perché la guerra è sempre un grande guadagno per alcuni, pochi a confronto delle masse devastate dai conflitti; ma questi pochi hanno il potere di guidare a loro vantaggio gli eventi che conducono alle guerre. Perché quei pochi hanno tanto potere di devastazione?

Perché esiste comunque sempre, dall’altra parte, un acritico consenso, causato da paura, bisogno di sicurezza, scarsa empatia o indifferenza verso il prossimo: queste sono altrettante facce dell’attaccamento egocentrico a un «io» che ritiene di essere importante più di ogni altro, mentre non si accorge, invece, di non essere separato da ogni altro.

Ricordo di aver letto un’affermazione di Gandhi in cui egli asseriva che, perché il mondo arrivasse a conoscere la pace, si sarebbe dovuto verificare un passaggio dall’amore per il potere al potere dell’amore. È questo il problema: l’ego ama il potere, e ciò conduce alla violenza. Per cambiare radicalmente direzione ci vuole un profondo cambiamento nell’essere umano, in ognuno di noi. Se miliardi di persone bandissero dalle loro vite la violenza che si nutre di egoismo e di disprezzo dell’altro da sé, allora forse quei pochi che alimentano le guerre per il proprio vantaggio economico non riuscirebbero a mobilitare gli eserciti e più nessuno abboccherebbe all’amo della necessità di combattere.

***

  • “L’uomo”, dunque, è sempre lo stesso, e cioè, naturalmente, egoista, aggressivo, violento?

C’è chi asserisce che l’essere umano sia “naturalmente” aggressivo. Ma che dire allora di coloro che aggressivi non sono, che coltivano la nonviolenza? Se alcuni sono pacifici, non aggressivi, non sopraffanno gli altri, allora questi non sono “naturali”? Io credo invece che in noi ci siano entrambe le tendenze: la tendenza al prendersi cura dell’altro, al non desiderare il conflitto e, quando questo si presenta, ad adoperarsi per risolverlo con mezzi pacifici; e la tendenza all’aggressione, alla sopraffazione, all’appropriazione.

Perché quest’ultima sembra più forte? Forse perché fa più rumore? O forse perché è più facile lasciarsi andare alla reazione e all’azione guidata dall’egocentrismo, piuttosto che costruire con calma relazioni pacifiche?

O forse perché siamo come ipnotizzati: la modalità prevalente che vediamo ripetersi tante e tante volte alla fine prende tutto il campo mentale: si forma la convinzione che non ci sia altro modo, che questo sia l’unico modo di confrontarsi con il mondo perché, in fondo, va avanti così da millenni; che sia il modo più premiante nonostante la sofferenza che porta con sé: e questo sia nelle singole vite che nella collettività.

Alcuni anni fa emersero dati interessanti in alcune ricerche sulla prima infanzia. I bambini sotto i due anni di età mostravano comportamenti di generosità, di empatia, di propensione a dare aiuto: una tendenza quindi all’altruismo molto più evidente e spontanea che nei bambini più grandi. Questa innata bontà viene purtroppo spesso soffocata dalla cosiddetta «educazione» e da tutto un insieme di modelli sociali tramite cui si apprendono, come premianti, i comportamenti di aggressività, appropriazione, lotta.

C’è poi un altro fattore di cui tener conto: la manipolabilità del cervello umano. Nel suo libro Il regno di Dio è in voi – testo fondamentale della dottrina della nonviolenza, libro la cui lettura trasformò Gandhi nell’apostolo della nonviolenza, per sua stessa ammissione – Lev Tolstoj, che scrive nell’ultimo decennio dell’Ottocento analizza a fondo come i governi riescano a convincere i popoli a massacrarsi a vicenda. Tra i diversi mezzi, egli descrive quella che definisce «l’ipnotizzazione del popolo», cioè l’impedimento, con vari mezzi, dello sviluppo interiore, morale, delle persone, mantenendole in uno stato mentale di torpore nel quale è agevole inserire, con abile propaganda, la concezione della vita su cui si fonda il potere del governo.

In questo modo, il nemico designato dal governo diventa “il mio/nostro nemico” nella mente manipolata del popolo: perciò questo andrà alla guerra convinto di uccidere – e farsi uccidere – per una giusta causa. Secondo Tolstoj, questa è un’importante spiegazione del fanatismo con cui le popolazioni abbracciano cause e comportamenti per le loro esistenze del tutto devastanti.

***

  • E le «cure» – quelle «religiose», in primo luogo, perché sembrano non aver funzionato o non funzionare?

Le parole con cui grandi Maestri hanno insegnato come potremmo vivere senza produrre e patire dolore, con lo sguardo rivolto verso l’alto, orientati alla nostra migliore possibilità umana, in una relazione tra noi basata sulla regola aurea della reciprocità, purtroppo sono, secondo me, troppo spesso considerate ideali talmente alti da non poter davvero essere attualizzati.

Eppure, sappiamo che qualcuno talvolta ha deciso di provare a metterle in pratica, arrivando a realizzare quella dimensione di coscienza che nel mondo cristiano definiamo santità.

Ma i santi non devono essere considerati casi speciali, irraggiungibili per noi poveri esseri ordinari. Proprio in questi giorni sono stati proclamati santi due giovani, Piergiorgio Frassati e Carlo Acutis: due ragazzi come tanti, ma diversi dai tanti perché hanno voluto provare a dare valore alla loro esistenza, seguendo perfettamente quelle indicazioni, semplici e chiare, che appaiono invece estranee o irrealizzabili ai più, da sempre.

Se, dunque, ancora, le indicazioni delle religioni non funzionano – sempre e ovunque – è perché non consideriamo quelle indicazioni come realistiche, pratiche, da attualizzare concretamente nelle nostre esistenze qui e ora. E da attualizzare soprattutto in casi di conflitti, anche tra nazioni.

Non sono insegnamenti validi soltanto quando si è in pace, al contrario, bisogna tenerli presenti soprattutto nei casi opposti: invece, proprio allora ci si comporta come se non fossero adeguati alla nostra realtà, sostituibili, lasciandoci così trascinare nel circolo vizioso della violenza, con le sue conseguenze di guerra e di morte.

«Non uccidere» significa non uccidere, sempre e comunque; «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano…» (Lc 6,27) significa esattamente questo, sempre e comunque. Dobbiamo ammettere che queste e altre simili indicazioni ancora non sono diventate il modus vivendi dell’umanità, e relegate al ruolo di cose belle da ascoltare – forse! – ma inutili nella vita concreta.

Le stesse istituzioni religiose non hanno dato sempre il buon esempio: ricordiamo le guerre compiute sotto le insegne religiose – le Crociate! – o comunque sostenute, quando non attivamente cercate. E le persecuzioni feroci dei cosiddetti «eretici», come avvenuto nella tragica vicenda degli albigesi: ricordo il massacro di Béziers nel 1209 ove i crociati trucidarono tutti gli abitanti obbedendo al comando del legato pontificio: «Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi», senza neppure distinguere tra cristiani «cattolici» ed «eretici».

Ricordo il concetto di «guerra giusta», che troviamo già ipotizzata in sant’Agostino, per venire poi perfezionato da san Tommaso d’Aquino. I primi cristiani rifiutavano di combattere nell’esercito dell’impero romano; ma poi si è fatta confusione tra il comandamento dell’incondizionato amore universale e la realpolitik: un passaggio dal potere dell’amore all’amore per il potere.

Nell’ultimo secolo bisogna dire che tutti i papi, a partire da Benedetto XV e fino all’attuale, hanno condannato la guerra e invocato la pace tra le nazioni; tuttavia è difficile che quanto viene detto dal pulpito possa aver presa sulla mente della maggioranza della gente e controbilanciare i potenti messaggi ipnotici di morte, che provengono incessantemente da ogni parte.

  • Buddha e Gesù sono «fratelli spirituali» – come hai scritto nel tuo libro – anche perché totalmente nonviolenti?

Assolutamente sì: nonviolenza significa non nuocere a nessun essere vivente, significa amore universale e incondizionato. Questo è il punto in cui gli insegnamenti del Buddha e del Cristo convergono, interpellandoci a collaborare alla creazione di nuove modalità nella relazione tra noi e con il Tutto.

Nel mio libro Fratelli Spirituali ricordo un episodio emotivamente molto intenso a cui ho avuto la fortuna di partecipare: si tratta dell’incontro avvenuto a Livorno nel giugno 2014 tra il Dalai Lama e il vescovo di Livorno, monsignor Giusti. In un clima non solo di rispetto e di stima reciproci ma anche di affettuosa commozione, i due rappresentanti religiosi – buddhista e cristiano – tenendosi per mano si definirono fratelli spirituali perché entrambi «praticanti l’amore universale». Entrambi parlarono in questi termini della propria esperienza concordando sul fatto che le filosofie e le teologie possono essere differenti, ma lo scopo è comune: la pratica dell’amore universale.

Questo è – e dovrebbe essere – il cristianesimo. Ci sono miliardi di cristiani nel mondo, ma le guerre non si sono mai interrotte. Il Vangelo viene letto, commentato, insegnato, ma poi, tanti, è come dicessero «d’accordo, questo è quanto sta scritto qui, però la vita è un’altra cosa; abbiamo ora il tal nemico, dobbiamo combatterlo anche con la violenza se necessario».

La dissonanza tra questi due pensieri sembra non essere mai colta dalla mente umana, addestrata purtroppo a credere, acriticamente, agli altri messaggi che riceve, quando questi sono ripetuti con convinzione, voce autorevole e forte perché siano accettati dalla maggioranza.

Abbiamo il bell’esempio di qualcuno che ha saputo scegliere di non cadere nella rete della violenza, seguendo, dentro di sé, la parola evangelica: mi riferisco a Franz Jägerstätter, il contadino austriaco beatificato da papa Benedetto XVI nel 2007. Quest’uomo, nato nel 1907, all’avvento del nazismo si informa a fondo e comprende che il nazismo è incompatibile con il suo essere cattolico: perciò non aderisce in alcun modo al nazismo e, quando sarà richiamato alle armi, rifiuterà di giurare fedeltà a Hitler. Il 9 agosto del 1943 verrà ghigliottinato, secondo la legge del terzo Reich riguardo a renitenti e dissidenti.

La forza della fede unita alla capacità di pensiero critico, secondo me, hanno nutrito il coraggio e la determinazione di questo giovane uomo che ha consapevolmente scelto di perdere tutto, fino alla sua stessa vita, per non tradire la sua fede cristiana. Un esempio luminoso, che fa sorgere la domanda: perché non centinaia, o migliaia, o milioni di Franz Jägerstätter?

  • E in ambito buddhista?

Non posso parlare per tutto l’universo, alquanto variegato, dei paesi a prevalenza buddhista. Posso supporre che anche qui si possano essere verificati episodi contrari all’etica dell’amore universale, non è certo da escludere!

Però conosco più da vicino il mondo tibetano in cui il buddhismo entrò dall’VIII sec. radicandosi in profondità nella mentalità popolare, tanto da permanere ancora oggi, nonostante la violenta repressione messa in atto dal governo cinese a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso.

Quella del Tibet è stata una tragedia epocale, consumatasi nel silenzio del mondo. Se la cultura tibetana non è ancora scomparsa è soltanto grazie alla fuga di migliaia di tibetani che in India – a Dharamsala sede del Dalai Lama anch’egli fuggito dal Tibet nel 1959 – hanno potuto e saputo mantenere la lingua, le arti, la medicina, e la filosofia buddhista unitamente alle pratiche meditative e liturgiche tramandate nei secoli. Tutto ciò sta lentamente scomparendo nella sua patria di origine: un genocidio culturale vero e proprio, consumatosi con grande violenza.

Bene, in tutto questo, non si rilevano atti di ribellione armata da parte dei tibetani, se non in rare occasioni; ci sono state in Tibet manifestazioni del tutto disarmate da parte della popolazione esasperata, spesso conclusesi purtroppo nel sangue ad opera dei militari cinesi intervenuti per disperdere la rivolta.

Tutta la popolazione ancora oggi ascolta e mette in pratica le parole con cui il Dalai Lama chiede di non generare altro odio, altra violenza, di non cadere nella trappola dell’uccidere l’avversario. Questo accade perché la penetrazione dell’insegnamento buddhista è viva, e diffusa è la confidenza nell’adagio «Mai si placa l’odio con l’odiare, con il non odiare si placa» (Dh. I,5). Quali che siano le sofferenze subite, la quasi totalità della gente rifugge l’idea di uccidere e di fare del male a chi gliele infligge, riponendo le speranze nei tentativi di dialogo che fin dall’inizio il Dalai Lama – Nobel per la pace 1989 – cerca di portare avanti, tra alti e bassi.

***

  • Si può dire che esista uno specifico femminile “sentire” su questi temi, tanto da differenziare la donna dall’uomo?

Mi viene in mente il racconto del Ratto delle Sabine ad opera dei primi romani capeggiati da Romolo. Non avendo un numero sufficiente di donne tra loro, pensarono di rimediare a questa carenza con il rapimento di donne dall’antico popolo dei Sabini. Gli uomini Sabini ovviamente sono andati ad assalire i romani per riprendersi le donne, ma queste ultime si sono messe in mezzo ai due schieramenti chiedendo di interrompere l’ostilità. Motivo? Alcune di loro erano rimaste incinte. Dunque, il loro ragionamento è stato il seguente: ormai siete parenti, romani e sabini, quindi smettete di combattere.

Al di là che si tratti di una leggenda o meno, ciò che colpisce in questo racconto è il primato della Vita: le nuove nascite annunciate fermano il movimento mortifero dei due schieramenti. Queste donne incarnano bene il tradizionale specifico femminile: preservare e mettere al primo posto la continuità della Vita. Tutto il resto è secondario rispetto a questo compito di cura e di accoglienza. Tuttavia, anche gli uomini si sono fermati, ascoltando le donne: anche in loro, possiamo pensare, può darsi lo stesso rispetto per la Vita, ritenuta di importanza primaria rispetto ad ogni contesa in atto.

Ma, secondo me, non è soltanto, o non solo, una questione di maschile e di femminile, che non devono essere concepiti in rigida opposizione: ognuno di noi – se ascoltiamo la psicologia junghiana – ha in sé la controparte psichica del sesso opposto, con le sue qualità e i suoi difetti.

Credo piuttosto che sia più una questione di Eros e di Thanatos, di Amore/Vita e Morte, due forze primordiali che sono in noi: l’istinto alla Vita, l’Eros nel linguaggio psicologico, e l’istinto mortifero, Thanatos, che conduce a distruzione e morte. Queste due forze opposte sono attive in ognuno di noi, in equilibrio dinamico.

Quando prevale Eros – l’istinto di Vita – è forte la spinta vitale, la gioia del creare e costruire sia nell’esistenza singola sia nella collettività, ed è forte anche la percezione della naturalità del nostro essere umani, non individui isolati ma connessi con la natura; inoltre, non meno importante, è l’apertura verso il trascendente, verso Qualcosa o Qualcuno che tutto sostiene, nella cui forza amorevole l’individuo si percepisce immerso.

Quando prevale Thanatos, l’ombra della morte avvolge la società e si manifesta in molti modi, a partire da un oscuramento del trascendente e, in parallelo, all’esaltazione della pura e semplice materialità, avvitandosi sempre più in azioni e pensieri che altra morte produrranno, sia per gli individui – pensiamo quale esempio estremo al tasso di suicidi in crescita – sia per i popoli e le nazioni. Non è difficile capire quale delle due forze stia prevalendo oggi. Non dobbiamo però precipitarci a dire: «ora finirà tutto male, per forza!».

Una volta a Jung qualcuno chiese se riteneva possibile una Terza guerra mondiale, magari nucleare. La sua risposta fu: «Dipende da quante persone sapranno reggere dentro di sé la tensione degli opposti». Questo rimanda alla responsabilità personale di ognuno di noi, evidentemente, perché quante più persone saranno capaci di riequilibrare dentro di sé la bilancia, muovendone di nuovo l’ago verso la Vita – intesa in tutti i suoi significati prima delineati rapidamente – tanto più sarà improbabile cadere in un finale catastrofico.

  •  Oggi, è giusto e doveroso rimanere turbati e inquieti o dobbiamo cercare di liberarci da questa inquietudine e come?

La paura, il turbamento e l’inquietudine fine a sé stessa non sono utili: non risolvono le situazioni esterne e ci mantengono in uno stato mentale negativo, debole. Generano un senso di impotenza, una sfiducia nelle forze sane, vitali, che pure sono presenti in noi umani. E, ciò che è peggio, alla fine producono una sconfortata acquiescenza alla realtà così come ci viene presentata.

Io sono convinta che la via migliore consista nel coltivare invece la fiducia che esiste una possibilità migliore per noi tutti, perché questa possibilità migliore vive da sempre in noi stessi: possiamo definirla come una salute di base che esiste nell’essere umano ma che dobbiamo coltivare, liberandola dalla visione negativa e limitante con cui i modelli sociali ed educativi (o diseducativi!?) che ci circondano vorrebbero condizionare la nostra esistenza.

Possiamo coltivare uno sguardo chiaro, un pensiero attento, una forte fiducia nel Bene, che, alla fine, trionfa necessariamente. Il nostro cervello, se come ho detto prima è manipolabile in direzione negativa e a fini distruttivi per la vita e la società, tuttavia è anche educabile in direzione opposta, indirizzando il pensiero e l’emotività verso la Vita, la gioia della costruzione e della condivisione di relazioni umane basate su attenzione, gentilezza, compassione e azioni positive verso gli altri, nostri simili.

***

  • Come orientare la nostra personale speranza nel verso politico-collettivo?

La speranza risiede nella nostra capacità di rivoluzionare/convertire noi stessi innanzitutto: uscire dal torpore mentale che acconsente a ciò che accade perché non ha la forza di reagire, rinchiudendosi in sé e chiudendo i contatti col mondo esterno. Purtroppo, questo atteggiamento di chiusura e di avvitamento su sé stessi è aggravato negli ultimi tempi dall’avvento del digitale, che ha un potenziale disumanizzante su cui si dovrebbe riflettere per tempo: sembra fornire tutto ciò che si può desiderare, compresa la relazione col mondo, salvo togliere la cosa più importante, ossia il contatto con la vita autentica intorno a noi e in noi. Non a caso questo si correla ad un aumento di comportamenti autodistruttivi o, all’opposto, di violenza: la perdita di contatto con la forza della Vita fa pendere la bilancia dal lato opposto, come ho accennato; così prevalgono le tendenze mortifere.

Possiamo capovolgere la situazione di chiusura e di timore per riacquistare fiducia in noi stessi e nelle qualità positive che ogni essere umano possiede: benché spesso siano molto nascoste e poco incentivate, esse sono in noi, sono innate e aspettano soltanto di essere scoperte.

È questa la base della speranza in un rinnovamento. La costruzione della pace è un movimento prima di tutto interiore, in ognuno di noi, che ha la capacità di allargarsi alla collettività: se la pace è prima di tutto una qualità della nostra interiorità, allora la pace potrà essere diffusa ovunque.

Se alle nuove generazioni non si riuscirà a trasmettere questa modalità di apertura al Bene che è in noi e in ogni altro simile, penso che esse non potranno che ripetere gli stessi errori e produrre altri eventi distruttivi.

La speranza risiede quindi nella volontà di educare – portar fuori dall’oscurità – le qualità relazionali migliori, quali l’empatia, la compassione, l’amorevolezza, l’attenzione e la cura dell’altro fin dall’infanzia, con programmi educativi mirati, con insegnanti che sappiano essi stessi essere modello di ciò che possono trasmettere!

Non si tratta di materie scolastiche, ma di apprendimento di un modo di relazione che superi la competizione, la lotta, il narcisismo, il cinismo, l’insensibilità. Esistono già programmi creati con questo intento come il Seelearning Social Emotional Ethical Learning, nato nel 2019, diffuso in varie parti del mondo, e presente anche in Italia con l’associazione EduEES.

Ritengo davvero importante l’Educazione emotiva etica e sociale: può sembrare una piccola cosa, certo, ma ogni cosa positiva, per piccola che sia all’inizio, ha influenza sul tutto.

Riguardo ai mali da cui il nostro discorso è iniziato, è importante rendersi conto che esiste una responsabilità collettiva nel mantenimento della situazione generale. Nell’universo tutto è interrelato: tutto è relazione, a partire dal mondo delle particelle subatomiche, agli atomi, alle molecole, per arrivare a livelli crescenti di complessità, fino al corpo fisico e la mente.

Si può dire che la relazione sia la base della realtà, anzi che la relazione sia la realtà stessa: inter-essere è il termine coniato dal monaco buddhista Thich Nhat Hanh per esprimere questa fondamentale relazione, interazione, interdipendenza universale, per la quale possiamo dire che esista, nel bene e nel male, una responsabilità collettiva.

Nessuno è indipendente da tutto il resto e, come dicevo, grazie all’interrelazione universale, anche il più piccolo gesto positivo ha il potere di influenzare il quadro complessivo del mondo. Gli insegnamenti evangelici, secondo me, in più punti, proprio questo dicono: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te, fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te, o rispondi all’odio con l’amore, ama in modo incondizionato. Invitano a un’azione, a un pensiero, a una parola che siano fonte di Bene, che modifichino un percorso negativo in una strada di amore; e poiché ogni cosa è connessa con tutto il resto, incessantemente, questo può trasformare a poco a poco la realtà generale.

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14 Commenti

  1. Maria Laura Innocenti 1 ottobre 2025
    • Sara 1 ottobre 2025
  2. Don Paolo Andrea Natta 1 ottobre 2025
  3. Lucio 24 settembre 2025
  4. Luigi 23 settembre 2025
    • Sara 23 settembre 2025
      • Salfi 25 settembre 2025
  5. Mariagrazia Gazzato 23 settembre 2025
    • Laura Revelli 23 settembre 2025
      • Mariagrazia Gazzato 24 settembre 2025
        • Laura Revelli 25 settembre 2025
  6. Salfi 23 settembre 2025
  7. Fabrizio Mastrofini 23 settembre 2025
    • Mihajlo 23 settembre 2025

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