
I teschi delle vittime del genocidio del 1994 in Ruanda al Kigali Memorial Center (foto CNS/Dai Kurokawa, EPA)
Raffaella Arrobbio laureata in filosofia e psicologia, studiosa di Buddhadharma, ha svolto attività di psicoterapia. Tra le sue pubblicazioni, i titoli La meditazione tra essere e benessere (cf. qui su SettimanaNews) e Fratelli Spirituali (cf. qui su SettimanaNews). Qui risponde alle domande di Giordano Cavallari sul tema della inevitabilità del male, della violenza, della guerra.
- Cara Raffaella, le guerre del mondo ti angustiano. Ti assicuro che angustiano anche me. Puoi descrivere cosa provi nel profondo di te stessa? Quali sono le domande che più insistentemente ti poni?
Davanti ai fatti orribili, spesso atroci, di questi ultimi anni resto attonita. Le domande che sorgono in me non riguardano prevalentemente il campo geopolitico, le sottigliezze diplomatiche, le responsabilità dei mondi finanziari, la nefandezza del continuare a costruire armi. Sono domande intorno all’essere umano: chi siamo? Come possiamo ancora essere così violenti?
- Pensavi o contavi – come contavo anch’io con buona parte della mia generazione – che le guerre sarebbero state superate nella storia per effetto di una migliore «qualità» umana dell’umanità stessa? Era giustificato questo pensiero, secondo te?
Senza dubbio era anche il mio pensiero. Sono sempre stata convinta che il periodo in cui viviamo, dopo l’orribile disastro delle due guerre mondiali, fosse l’inizio di un modo nuovo di convivenza tra i popoli. La nostra generazione è nata da genitori e nonni che gli orrori della guerra li avevano sperimentati; forse da loro abbiamo ricevuto questa visione ottimista, abbiamo respirato la spinta verso la vita che, in effetti, ha caratterizzato gli anni successivi alla Seconda guerra mondiale.
In realtà, guerre hanno continuato ad essercene in giro per il mondo – e purtroppo, in qualche modo, anche il nostro paese vi ha partecipato in alcuni casi –, ma l’atmosfera mentale finora è stata per lo più di fiducia che presto la guerra sarebbe stata bandita, che coloro che non volevano più la guerra alla fine sarebbero stati ascoltati, e che il mondo avrebbe conosciuto finalmente la pace. Non una pace frutto di trattati, o come esito di guerre vinte: una pace inerente, implicitamente sottesa a ogni relazione tra i popoli, anche in presenza di problematiche o difficoltà. Non so se questa fiducia fosse giustificata anzi, probabilmente era solo un’ingenua illusione.
Non dimentichiamo che alle spalle delle guerre, sempre, ci sono l’avidità e l’arroganza di alcuni, ci sono i motivi economici, perché la guerra è sempre un grande guadagno per alcuni, pochi a confronto delle masse devastate dai conflitti; ma questi pochi hanno il potere di guidare a loro vantaggio gli eventi che conducono alle guerre. Perché quei pochi hanno tanto potere di devastazione?
Perché esiste comunque sempre, dall’altra parte, un acritico consenso, causato da paura, bisogno di sicurezza, scarsa empatia o indifferenza verso il prossimo: queste sono altrettante facce dell’attaccamento egocentrico a un «io» che ritiene di essere importante più di ogni altro, mentre non si accorge, invece, di non essere separato da ogni altro.
Ricordo di aver letto un’affermazione di Gandhi in cui egli asseriva che, perché il mondo arrivasse a conoscere la pace, si sarebbe dovuto verificare un passaggio dall’amore per il potere al potere dell’amore. È questo il problema: l’ego ama il potere, e ciò conduce alla violenza. Per cambiare radicalmente direzione ci vuole un profondo cambiamento nell’essere umano, in ognuno di noi. Se miliardi di persone bandissero dalle loro vite la violenza che si nutre di egoismo e di disprezzo dell’altro da sé, allora forse quei pochi che alimentano le guerre per il proprio vantaggio economico non riuscirebbero a mobilitare gli eserciti e più nessuno abboccherebbe all’amo della necessità di combattere.
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- “L’uomo”, dunque, è sempre lo stesso, e cioè, naturalmente, egoista, aggressivo, violento?
C’è chi asserisce che l’essere umano sia “naturalmente” aggressivo. Ma che dire allora di coloro che aggressivi non sono, che coltivano la nonviolenza? Se alcuni sono pacifici, non aggressivi, non sopraffanno gli altri, allora questi non sono “naturali”? Io credo invece che in noi ci siano entrambe le tendenze: la tendenza al prendersi cura dell’altro, al non desiderare il conflitto e, quando questo si presenta, ad adoperarsi per risolverlo con mezzi pacifici; e la tendenza all’aggressione, alla sopraffazione, all’appropriazione.
Perché quest’ultima sembra più forte? Forse perché fa più rumore? O forse perché è più facile lasciarsi andare alla reazione e all’azione guidata dall’egocentrismo, piuttosto che costruire con calma relazioni pacifiche?
O forse perché siamo come ipnotizzati: la modalità prevalente che vediamo ripetersi tante e tante volte alla fine prende tutto il campo mentale: si forma la convinzione che non ci sia altro modo, che questo sia l’unico modo di confrontarsi con il mondo perché, in fondo, va avanti così da millenni; che sia il modo più premiante nonostante la sofferenza che porta con sé: e questo sia nelle singole vite che nella collettività.
Alcuni anni fa emersero dati interessanti in alcune ricerche sulla prima infanzia. I bambini sotto i due anni di età mostravano comportamenti di generosità, di empatia, di propensione a dare aiuto: una tendenza quindi all’altruismo molto più evidente e spontanea che nei bambini più grandi. Questa innata bontà viene purtroppo spesso soffocata dalla cosiddetta «educazione» e da tutto un insieme di modelli sociali tramite cui si apprendono, come premianti, i comportamenti di aggressività, appropriazione, lotta.
C’è poi un altro fattore di cui tener conto: la manipolabilità del cervello umano. Nel suo libro Il regno di Dio è in voi – testo fondamentale della dottrina della nonviolenza, libro la cui lettura trasformò Gandhi nell’apostolo della nonviolenza, per sua stessa ammissione – Lev Tolstoj, che scrive nell’ultimo decennio dell’Ottocento analizza a fondo come i governi riescano a convincere i popoli a massacrarsi a vicenda. Tra i diversi mezzi, egli descrive quella che definisce «l’ipnotizzazione del popolo», cioè l’impedimento, con vari mezzi, dello sviluppo interiore, morale, delle persone, mantenendole in uno stato mentale di torpore nel quale è agevole inserire, con abile propaganda, la concezione della vita su cui si fonda il potere del governo.
In questo modo, il nemico designato dal governo diventa “il mio/nostro nemico” nella mente manipolata del popolo: perciò questo andrà alla guerra convinto di uccidere – e farsi uccidere – per una giusta causa. Secondo Tolstoj, questa è un’importante spiegazione del fanatismo con cui le popolazioni abbracciano cause e comportamenti per le loro esistenze del tutto devastanti.
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- E le «cure» – quelle «religiose», in primo luogo, perché sembrano non aver funzionato o non funzionare?
Le parole con cui grandi Maestri hanno insegnato come potremmo vivere senza produrre e patire dolore, con lo sguardo rivolto verso l’alto, orientati alla nostra migliore possibilità umana, in una relazione tra noi basata sulla regola aurea della reciprocità, purtroppo sono, secondo me, troppo spesso considerate ideali talmente alti da non poter davvero essere attualizzati.
Eppure, sappiamo che qualcuno talvolta ha deciso di provare a metterle in pratica, arrivando a realizzare quella dimensione di coscienza che nel mondo cristiano definiamo santità.
Ma i santi non devono essere considerati casi speciali, irraggiungibili per noi poveri esseri ordinari. Proprio in questi giorni sono stati proclamati santi due giovani, Piergiorgio Frassati e Carlo Acutis: due ragazzi come tanti, ma diversi dai tanti perché hanno voluto provare a dare valore alla loro esistenza, seguendo perfettamente quelle indicazioni, semplici e chiare, che appaiono invece estranee o irrealizzabili ai più, da sempre.
Se, dunque, ancora, le indicazioni delle religioni non funzionano – sempre e ovunque – è perché non consideriamo quelle indicazioni come realistiche, pratiche, da attualizzare concretamente nelle nostre esistenze qui e ora. E da attualizzare soprattutto in casi di conflitti, anche tra nazioni.
Non sono insegnamenti validi soltanto quando si è in pace, al contrario, bisogna tenerli presenti soprattutto nei casi opposti: invece, proprio allora ci si comporta come se non fossero adeguati alla nostra realtà, sostituibili, lasciandoci così trascinare nel circolo vizioso della violenza, con le sue conseguenze di guerra e di morte.
«Non uccidere» significa non uccidere, sempre e comunque; «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano…» (Lc 6,27) significa esattamente questo, sempre e comunque. Dobbiamo ammettere che queste e altre simili indicazioni ancora non sono diventate il modus vivendi dell’umanità, e relegate al ruolo di cose belle da ascoltare – forse! – ma inutili nella vita concreta.
Le stesse istituzioni religiose non hanno dato sempre il buon esempio: ricordiamo le guerre compiute sotto le insegne religiose – le Crociate! – o comunque sostenute, quando non attivamente cercate. E le persecuzioni feroci dei cosiddetti «eretici», come avvenuto nella tragica vicenda degli albigesi: ricordo il massacro di Béziers nel 1209 ove i crociati trucidarono tutti gli abitanti obbedendo al comando del legato pontificio: «Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi», senza neppure distinguere tra cristiani «cattolici» ed «eretici».
Ricordo il concetto di «guerra giusta», che troviamo già ipotizzata in sant’Agostino, per venire poi perfezionato da san Tommaso d’Aquino. I primi cristiani rifiutavano di combattere nell’esercito dell’impero romano; ma poi si è fatta confusione tra il comandamento dell’incondizionato amore universale e la realpolitik: un passaggio dal potere dell’amore all’amore per il potere.
Nell’ultimo secolo bisogna dire che tutti i papi, a partire da Benedetto XV e fino all’attuale, hanno condannato la guerra e invocato la pace tra le nazioni; tuttavia è difficile che quanto viene detto dal pulpito possa aver presa sulla mente della maggioranza della gente e controbilanciare i potenti messaggi ipnotici di morte, che provengono incessantemente da ogni parte.
- Buddha e Gesù sono «fratelli spirituali» – come hai scritto nel tuo libro – anche perché totalmente nonviolenti?
Assolutamente sì: nonviolenza significa non nuocere a nessun essere vivente, significa amore universale e incondizionato. Questo è il punto in cui gli insegnamenti del Buddha e del Cristo convergono, interpellandoci a collaborare alla creazione di nuove modalità nella relazione tra noi e con il Tutto.
Nel mio libro Fratelli Spirituali ricordo un episodio emotivamente molto intenso a cui ho avuto la fortuna di partecipare: si tratta dell’incontro avvenuto a Livorno nel giugno 2014 tra il Dalai Lama e il vescovo di Livorno, monsignor Giusti. In un clima non solo di rispetto e di stima reciproci ma anche di affettuosa commozione, i due rappresentanti religiosi – buddhista e cristiano – tenendosi per mano si definirono fratelli spirituali perché entrambi «praticanti l’amore universale». Entrambi parlarono in questi termini della propria esperienza concordando sul fatto che le filosofie e le teologie possono essere differenti, ma lo scopo è comune: la pratica dell’amore universale.
Questo è – e dovrebbe essere – il cristianesimo. Ci sono miliardi di cristiani nel mondo, ma le guerre non si sono mai interrotte. Il Vangelo viene letto, commentato, insegnato, ma poi, tanti, è come dicessero «d’accordo, questo è quanto sta scritto qui, però la vita è un’altra cosa; abbiamo ora il tal nemico, dobbiamo combatterlo anche con la violenza se necessario».
La dissonanza tra questi due pensieri sembra non essere mai colta dalla mente umana, addestrata purtroppo a credere, acriticamente, agli altri messaggi che riceve, quando questi sono ripetuti con convinzione, voce autorevole e forte perché siano accettati dalla maggioranza.
Abbiamo il bell’esempio di qualcuno che ha saputo scegliere di non cadere nella rete della violenza, seguendo, dentro di sé, la parola evangelica: mi riferisco a Franz Jägerstätter, il contadino austriaco beatificato da papa Benedetto XVI nel 2007. Quest’uomo, nato nel 1907, all’avvento del nazismo si informa a fondo e comprende che il nazismo è incompatibile con il suo essere cattolico: perciò non aderisce in alcun modo al nazismo e, quando sarà richiamato alle armi, rifiuterà di giurare fedeltà a Hitler. Il 9 agosto del 1943 verrà ghigliottinato, secondo la legge del terzo Reich riguardo a renitenti e dissidenti.
La forza della fede unita alla capacità di pensiero critico, secondo me, hanno nutrito il coraggio e la determinazione di questo giovane uomo che ha consapevolmente scelto di perdere tutto, fino alla sua stessa vita, per non tradire la sua fede cristiana. Un esempio luminoso, che fa sorgere la domanda: perché non centinaia, o migliaia, o milioni di Franz Jägerstätter?
- E in ambito buddhista?
Non posso parlare per tutto l’universo, alquanto variegato, dei paesi a prevalenza buddhista. Posso supporre che anche qui si possano essere verificati episodi contrari all’etica dell’amore universale, non è certo da escludere!
Però conosco più da vicino il mondo tibetano in cui il buddhismo entrò dall’VIII sec. radicandosi in profondità nella mentalità popolare, tanto da permanere ancora oggi, nonostante la violenta repressione messa in atto dal governo cinese a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso.
Quella del Tibet è stata una tragedia epocale, consumatasi nel silenzio del mondo. Se la cultura tibetana non è ancora scomparsa è soltanto grazie alla fuga di migliaia di tibetani che in India – a Dharamsala sede del Dalai Lama anch’egli fuggito dal Tibet nel 1959 – hanno potuto e saputo mantenere la lingua, le arti, la medicina, e la filosofia buddhista unitamente alle pratiche meditative e liturgiche tramandate nei secoli. Tutto ciò sta lentamente scomparendo nella sua patria di origine: un genocidio culturale vero e proprio, consumatosi con grande violenza.
Bene, in tutto questo, non si rilevano atti di ribellione armata da parte dei tibetani, se non in rare occasioni; ci sono state in Tibet manifestazioni del tutto disarmate da parte della popolazione esasperata, spesso conclusesi purtroppo nel sangue ad opera dei militari cinesi intervenuti per disperdere la rivolta.
Tutta la popolazione ancora oggi ascolta e mette in pratica le parole con cui il Dalai Lama chiede di non generare altro odio, altra violenza, di non cadere nella trappola dell’uccidere l’avversario. Questo accade perché la penetrazione dell’insegnamento buddhista è viva, e diffusa è la confidenza nell’adagio «Mai si placa l’odio con l’odiare, con il non odiare si placa» (Dh. I,5). Quali che siano le sofferenze subite, la quasi totalità della gente rifugge l’idea di uccidere e di fare del male a chi gliele infligge, riponendo le speranze nei tentativi di dialogo che fin dall’inizio il Dalai Lama – Nobel per la pace 1989 – cerca di portare avanti, tra alti e bassi.
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- Si può dire che esista uno specifico femminile “sentire” su questi temi, tanto da differenziare la donna dall’uomo?
Mi viene in mente il racconto del Ratto delle Sabine ad opera dei primi romani capeggiati da Romolo. Non avendo un numero sufficiente di donne tra loro, pensarono di rimediare a questa carenza con il rapimento di donne dall’antico popolo dei Sabini. Gli uomini Sabini ovviamente sono andati ad assalire i romani per riprendersi le donne, ma queste ultime si sono messe in mezzo ai due schieramenti chiedendo di interrompere l’ostilità. Motivo? Alcune di loro erano rimaste incinte. Dunque, il loro ragionamento è stato il seguente: ormai siete parenti, romani e sabini, quindi smettete di combattere.
Al di là che si tratti di una leggenda o meno, ciò che colpisce in questo racconto è il primato della Vita: le nuove nascite annunciate fermano il movimento mortifero dei due schieramenti. Queste donne incarnano bene il tradizionale specifico femminile: preservare e mettere al primo posto la continuità della Vita. Tutto il resto è secondario rispetto a questo compito di cura e di accoglienza. Tuttavia, anche gli uomini si sono fermati, ascoltando le donne: anche in loro, possiamo pensare, può darsi lo stesso rispetto per la Vita, ritenuta di importanza primaria rispetto ad ogni contesa in atto.
Ma, secondo me, non è soltanto, o non solo, una questione di maschile e di femminile, che non devono essere concepiti in rigida opposizione: ognuno di noi – se ascoltiamo la psicologia junghiana – ha in sé la controparte psichica del sesso opposto, con le sue qualità e i suoi difetti.
Credo piuttosto che sia più una questione di Eros e di Thanatos, di Amore/Vita e Morte, due forze primordiali che sono in noi: l’istinto alla Vita, l’Eros nel linguaggio psicologico, e l’istinto mortifero, Thanatos, che conduce a distruzione e morte. Queste due forze opposte sono attive in ognuno di noi, in equilibrio dinamico.
Quando prevale Eros – l’istinto di Vita – è forte la spinta vitale, la gioia del creare e costruire sia nell’esistenza singola sia nella collettività, ed è forte anche la percezione della naturalità del nostro essere umani, non individui isolati ma connessi con la natura; inoltre, non meno importante, è l’apertura verso il trascendente, verso Qualcosa o Qualcuno che tutto sostiene, nella cui forza amorevole l’individuo si percepisce immerso.
Quando prevale Thanatos, l’ombra della morte avvolge la società e si manifesta in molti modi, a partire da un oscuramento del trascendente e, in parallelo, all’esaltazione della pura e semplice materialità, avvitandosi sempre più in azioni e pensieri che altra morte produrranno, sia per gli individui – pensiamo quale esempio estremo al tasso di suicidi in crescita – sia per i popoli e le nazioni. Non è difficile capire quale delle due forze stia prevalendo oggi. Non dobbiamo però precipitarci a dire: «ora finirà tutto male, per forza!».
Una volta a Jung qualcuno chiese se riteneva possibile una Terza guerra mondiale, magari nucleare. La sua risposta fu: «Dipende da quante persone sapranno reggere dentro di sé la tensione degli opposti». Questo rimanda alla responsabilità personale di ognuno di noi, evidentemente, perché quante più persone saranno capaci di riequilibrare dentro di sé la bilancia, muovendone di nuovo l’ago verso la Vita – intesa in tutti i suoi significati prima delineati rapidamente – tanto più sarà improbabile cadere in un finale catastrofico.
- Oggi, è giusto e doveroso rimanere turbati e inquieti o dobbiamo cercare di liberarci da questa inquietudine e come?
La paura, il turbamento e l’inquietudine fine a sé stessa non sono utili: non risolvono le situazioni esterne e ci mantengono in uno stato mentale negativo, debole. Generano un senso di impotenza, una sfiducia nelle forze sane, vitali, che pure sono presenti in noi umani. E, ciò che è peggio, alla fine producono una sconfortata acquiescenza alla realtà così come ci viene presentata.
Io sono convinta che la via migliore consista nel coltivare invece la fiducia che esiste una possibilità migliore per noi tutti, perché questa possibilità migliore vive da sempre in noi stessi: possiamo definirla come una salute di base che esiste nell’essere umano ma che dobbiamo coltivare, liberandola dalla visione negativa e limitante con cui i modelli sociali ed educativi (o diseducativi!?) che ci circondano vorrebbero condizionare la nostra esistenza.
Possiamo coltivare uno sguardo chiaro, un pensiero attento, una forte fiducia nel Bene, che, alla fine, trionfa necessariamente. Il nostro cervello, se come ho detto prima è manipolabile in direzione negativa e a fini distruttivi per la vita e la società, tuttavia è anche educabile in direzione opposta, indirizzando il pensiero e l’emotività verso la Vita, la gioia della costruzione e della condivisione di relazioni umane basate su attenzione, gentilezza, compassione e azioni positive verso gli altri, nostri simili.
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- Come orientare la nostra personale speranza nel verso politico-collettivo?
La speranza risiede nella nostra capacità di rivoluzionare/convertire noi stessi innanzitutto: uscire dal torpore mentale che acconsente a ciò che accade perché non ha la forza di reagire, rinchiudendosi in sé e chiudendo i contatti col mondo esterno. Purtroppo, questo atteggiamento di chiusura e di avvitamento su sé stessi è aggravato negli ultimi tempi dall’avvento del digitale, che ha un potenziale disumanizzante su cui si dovrebbe riflettere per tempo: sembra fornire tutto ciò che si può desiderare, compresa la relazione col mondo, salvo togliere la cosa più importante, ossia il contatto con la vita autentica intorno a noi e in noi. Non a caso questo si correla ad un aumento di comportamenti autodistruttivi o, all’opposto, di violenza: la perdita di contatto con la forza della Vita fa pendere la bilancia dal lato opposto, come ho accennato; così prevalgono le tendenze mortifere.
Possiamo capovolgere la situazione di chiusura e di timore per riacquistare fiducia in noi stessi e nelle qualità positive che ogni essere umano possiede: benché spesso siano molto nascoste e poco incentivate, esse sono in noi, sono innate e aspettano soltanto di essere scoperte.
È questa la base della speranza in un rinnovamento. La costruzione della pace è un movimento prima di tutto interiore, in ognuno di noi, che ha la capacità di allargarsi alla collettività: se la pace è prima di tutto una qualità della nostra interiorità, allora la pace potrà essere diffusa ovunque.
Se alle nuove generazioni non si riuscirà a trasmettere questa modalità di apertura al Bene che è in noi e in ogni altro simile, penso che esse non potranno che ripetere gli stessi errori e produrre altri eventi distruttivi.
La speranza risiede quindi nella volontà di educare – portar fuori dall’oscurità – le qualità relazionali migliori, quali l’empatia, la compassione, l’amorevolezza, l’attenzione e la cura dell’altro fin dall’infanzia, con programmi educativi mirati, con insegnanti che sappiano essi stessi essere modello di ciò che possono trasmettere!
Non si tratta di materie scolastiche, ma di apprendimento di un modo di relazione che superi la competizione, la lotta, il narcisismo, il cinismo, l’insensibilità. Esistono già programmi creati con questo intento come il Seelearning Social Emotional Ethical Learning, nato nel 2019, diffuso in varie parti del mondo, e presente anche in Italia con l’associazione EduEES.
Ritengo davvero importante l’Educazione emotiva etica e sociale: può sembrare una piccola cosa, certo, ma ogni cosa positiva, per piccola che sia all’inizio, ha influenza sul tutto.
Riguardo ai mali da cui il nostro discorso è iniziato, è importante rendersi conto che esiste una responsabilità collettiva nel mantenimento della situazione generale. Nell’universo tutto è interrelato: tutto è relazione, a partire dal mondo delle particelle subatomiche, agli atomi, alle molecole, per arrivare a livelli crescenti di complessità, fino al corpo fisico e la mente.
Si può dire che la relazione sia la base della realtà, anzi che la relazione sia la realtà stessa: inter-essere è il termine coniato dal monaco buddhista Thich Nhat Hanh per esprimere questa fondamentale relazione, interazione, interdipendenza universale, per la quale possiamo dire che esista, nel bene e nel male, una responsabilità collettiva.
Nessuno è indipendente da tutto il resto e, come dicevo, grazie all’interrelazione universale, anche il più piccolo gesto positivo ha il potere di influenzare il quadro complessivo del mondo. Gli insegnamenti evangelici, secondo me, in più punti, proprio questo dicono: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te, fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te, o rispondi all’odio con l’amore, ama in modo incondizionato. Invitano a un’azione, a un pensiero, a una parola che siano fonte di Bene, che modifichino un percorso negativo in una strada di amore; e poiché ogni cosa è connessa con tutto il resto, incessantemente, questo può trasformare a poco a poco la realtà generale.






Di tutte le osservazioni, assai interessanti sia dal punto di vista storico che da quello metodologico, veicolate da questo scritto in questo momento non mi sento di lasciarmi coinvolgere che dal msg che da esse si può ricevere (provare ad applicare) nei confronti delle guerre che stanno dilagando con tutta l’indifferenza per l’uomo e la sua sopravvivenza elementare che esse comportano. Le soluzioni escogitate dalla riflessione orientale nel senso dell’ astrazione e del distacco mentale che rappresentano un riassunto di disposizioni improntate alla compassione comprensiva e al self-control sono la rappresentazione di un grado altissimo di civiltà, nata e, quando ci e’riuscita, sopravvissuta in un contesto di grande violenza e disparità sociale. Secondo me il difetto di questo atteggiamento, che è eccellente a livello di volontà e capacità performativa di convivenza in una situazione culturale che lo dia come premessa culturale scontata, o per lo meno auspicabile da un punto di vista ideale e progettuale. Purtroppo il punto dirimente, all’effetto pratico collettivo, non credo che ora come ora stia nemmeno – oggettivamente – nel grado personale di fede in Dio, o di capacità di affidamento ottimista nella fondamentale bontà dell’ uomo: ciò che sgomenta a livello esistenziale qui in occidente e nella spietatezza della guerra già guerreggiata altrove è l’assoluto rovesciamento di segno nell’ attribuzione di valore alle premesse dei comportamenti e dei motivi delle finalizzazioni. Lo stravolgimento annichilente anche di quanto sussiste in vita portato con sé dalle catastrofi belliche pare già in atto e il modo per uscirne temo che non sia affidabile alla speranza di autoeducazione o autolimitazione individuale. Tutti gli esempi di eroismo e di santità individuali che ha portato sono alti e significativi ma proposti in mezzo alla violenza o già in stto o culturalmente predominante, sono dei focus su nobili modi di estinguersi e sparire al mondo. E non si tratterebbe dell’orientamento a un progetto di vita opzionale ma l’ accettazione per l’appunto di un gioco di rimessa per una serie collettiva di vinti.
Secondo me il limite della filosofia orientale è che spinge al disimpegno. Nel senso che non conosce il concetto di incarnazione e tende a diventare molto astratta nei suoi principi. Se in qualche modo tutto finisce per essere bene non si capisce perchè doversi impegnare per sconfiggere quello che comunemente chiamiamo male. Ho provato più volte ad accostarmi ma inutilmente, il limite fondamentale mi pare questo. (Tra l’altro rimane per assurdo particolarmente permeabile all’influsso della tecnologia, soprattutto nella sua versione estrema e disincarnata.)
Intervista e commenti interessanti, ma in quasi tutti sembra di rilevare la incapacità di andare nello spirito. Nessuno fa riferimento alla preghiera, all’ offerta di sé, si resta ai livelli intermedi, psicologici, antropologici, sociologici… Gesù si è dato in pienezza. Lui è il solo modello di amore con la A maiuscola… Se devo scendere dalla croce per pormi al livello del Buddha, sto riducendo il cristianesimo a mera esperienza umana e quindi non ce la facciamo. Solo in Cristo c’è salvezza, perché solo Lui ci ha insegnato come fare vivendolo di persona. I birmani a prevalenza assoluta buddista stanno cacciando dalla loro nazione milioni di islamici rohingya…, la cosa non può non farci riflettere…
In quest’articolo mi ha, tra l’altro, profondamente colpito il comando impartito dal legato pontificio ai crociati in occasione del massacro di Beziers, ove furono uccisi tutti gli abitanti, senza distinguere tra cattolici e albigesi: “Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi” – i SUOI! – ennesima prova che il Male è presente nell’animo di ogni uomo, credente e non credente, ed è forse inestirpabile
Davanti alla violenza che ci circonda e ci coinvolge la domanda non è discutere dell’uomo e delle sue inclinazioni che sono da sempre un coacervo di solidarietà e potere. La vera domanda, purtroppo senza risposta, è dov’è il Dio che guida la storia. Queste guerre sono benedette dalle chiese, la chiesa ortodossa di Russia, la gran parte degli ortodossi di Israele, la diplomazia accomodante del Vaticano, ben lontana dalla dura verità che testimoniava Papa Francesco. Cos’è l’uomo ormai lo sappiamo. Ora dovremmo chiederci cos’è Dio, cosa sono le religioni che ci siamo costruiti con le nostre filosofie.
Faccio notare che tecnicamente sono sempre esistite le eresie e le cattive interpretazioni del Vangelo e delle religioni. Spesso i gruppi più fondamentalisti sono proprio settari, ognuno convinto di essere meglio del gruppo. E’ settario anche pensare che il solo ed unico Papa Francesco o Papa X sia veramente cristiano, nell’ultimo secolo tutti i Papi hanno condannato la guerra, senza che tra parentesi, gli uomini , cristiani o meno, si siano degnati di ascoltare.
” è dov’è il Dio che guida la storia.”
Già questa è un’altra questione, ne abbiamo parlato qualche giorno fa, ognuno rispanda come può.
È chiaro che il Padreterno tiene le fila della storia e la conduce a nuon fine, ma non secondo criteri mondani. Nell’Apocalisse c’è un messaggio chiaro e decisivo. Quando si parla di chi aprirà il idate di chi praticamente possiederà la chiave per guidare la storia umana a compimento, si sente un grido”il leone di Israele aprirà il libro”, ma il leone di israele non apre nessun libro e ad aprire il libro sarà invece un Agnello e per di più sgozzato. È chiaro che non sarà la forza, la potenza, a portare avanti la storia, ma la debolezza…Tutti coloro che usano la forza, la violenza, i soldi e quant’altro sono destinati a fallire…dare consigli al Padreterno su come condurre la storia non si può se non per andare fuori strada…se solo ci accorgessimo minimamente dell’estrema tenerezza del suo amore non staremmo a polemizzare…Un abele debole e perdente è un “uomo” , un caino forte e vincente”non è ancora un “uomo”…entrambi, pare, siano morti ma un essere imano che ripudia la violenza, coltiva la benevolenza,un “uomo” che sceglie la debolezza del servizio, è destinato a vivere per sempre nell’Eterno…
Abbiamo visto ieri la bontà e le buone intenzioni di chi si definisce pacifista, auspica la fine della violenza in Palestina e poi improvvisa una guerriglia nelle città devastando tutto quello che trova. Gli istigatori delle violenza sono quelli che predicano bene e razzolano malissimo, producendo libri e articoli e andando in Tv a fomentare la massa contro chiunque non stia dalla loro parte. I putiniani, per esempio che se la prendono col governo da mane a sera perché spende per il riarmo (e per aiutare gli ucraini), i pacifinti che stanno sulle barricate per la pace in Palestina e quando manifestano mettono le città a ferro e fuoco. Sobillati da certa politica che non fa che gettare benzina sul fuoco solo per ottenere consensi o recuperare quelli persi…le parole andrebbero sempre dosate con cura quando si ha responsabilità politica o quando si pretende di fare i profeti della pace nel mondo…
Questo commento è vergognoso. Non credo proprio lei sia stata in alcuna piazza, altrimenti usando un barlume di onestà intellettuale avrebbe potuto notare quante madri con i propri figli, anziani per mano, studenti con i propri professori, famiglie intere, etc… hanno partecipato. Certamente ci sono state azioni violente ed esecrabili, ma non possono e non debbono cancellare la stragrande maggioranza delle volontà di persone che erano lì a manifestare pacificamente il proprio pensiero ed il dissenso politico alle scelte del nostro governo, come quello di altri paesi. Queste modalità di trattare l’argomento sono ben note. La letteratura, lo sappiamo, è piena di casi nei quali gli agitatori sono infiltrati che nulla hanno a che vedere con la matrice della protesta, anzi sono lì per cancellarne mediaticamente il valore mandati da chi ne ha vantaggio. In effetti sui giornali, se fa caso, si è parlato marginalmente della enorme partecipazione dei cittadini, di tutte le età e di tutti i ceti sociali, bensì principalmente di qualche imbecille che certo non aveva in cuore la pace per Gaza. Ad ogni modo, mi creda, si può cercare di spostare l’attenzione con questi trucchetti, ma la sostanza non cambia: i cittadini hanno manifestato una grande forza, che non si può contenere.
Le credo, ho visto alcune immagini della devastazione in molte città italiane, le sue sono illazioni, i violenti hanno voluto la violenza, hanno cercato gli scontri con la polizia, 60 agenti sono finiti all’ospedale, poteva finire anche molto peggio se la polizia non si fosse limitata nel contenimento e ignorato le provocazioni, qualcuno avrebbe potuto farsi male. La causa degli scioperi di questi giorni, cioè la fine delle violenze a Gaza è una ottima causa, ma la violenza che si è vista qui durante le manifestazioni pacifiche contrasta col pacifismo ed è più simile al terrorismo. Le manifestazioni por Palestina sono sacrosante, ma le sigle sindacali hanno indetto scioperi che nulla hanno a che vedere con migliorare la vita dei lavoratori, sono stati scioperi contro il governo, quindi con finalità politiche. Le molte persone in buona fede hanno sfilato pacificamente e la loro intenzione era ottima, ma i sindacati di base strumentalizzano queste persone per questioni meramente politiche. E questo offre il destro a gruppi di infiltrati violenti che devastano e distruggono e ovviamente coprono con la violenza la finalità pacifica dello sciopero.
La libertà di espressione è la base della democrazia, la libertà di insultare, di istigare alla violenza o di manifestare in maniera violenta è la base della protervia, della maleducazione e della inciviltà e della supponenza di stare sempre dalla parte della ragione e all’arroganza di poter imporre sempre le proprie idee agli altri. Anche con la forza.
Questo a mio parere è vergognoso e questi sono “trucchetti” che servono a strumentalizzare le proteste pacifiche e in buona fede di migliaia di persone che convinte di sfilare per una buona causa finiscono per trovarsi loro malgrado coinvolte nella violenza di qualche centinaio di delinquenti.
La sua replica mi sembra scritta con frullatore, più che con una tastiera. Nelle proteste di piazza sono sempre gli infiltrati di parte opposta a determinare le violenze, con l’obiettivo di cancellare mediaticamente il valore della protesta stessa; questo lo dicono la storia a e la sociologia; le illazioni sono altre. Se non arriviamo al punto di capire che il focus sulle azioni violente non può e non deve cancellare la protesta pacifica, siamo ancora molto indietro. I governi sono attaccati su tanti temi; anche il nostro se ne deve fare una ragione. Peraltro in italia viviamo un’anomalia: il controllo delle TV di stato è abbastanza innegabile. Le TV private, meglio le più importanti e la maggior parte di esse, sono legate alla famiglia del fondatore di uno dei partiti di maggioranza. il controllo di molti giornali ed i conflitti di interesse come quello del signor Angelucci, parlamentare, sono sotto gli occhi di tutti. SI vorrebbe quindi che il dissenso scomparisse del tutto, se non colgo male. Se non si può manifestare il proprio punto di vista, senza che colui che è criticato sia risentito, si connoti vittima o addirittura peggio, siamo arrivati alla fine della nostra sofferente democrazia. La violenza, concludo, è violenza, ma non si può fare di tutte le erbe un fascio; potrei giocare con le parole dicendo che il fascio tende ad assimilare canonicamente tutte le erbe ed è quello che andrebbe evitato nel focalizzare una protesta, tanto pacifica quanto immensa, su imbecilli infiltrati, perché di questo parliamo. La matematica può aiutare: se consideriamo che i fermati per le violenze occorse pare siano meno di 20 ed i partecipanti oltre 500.000 si capisce di cosa stiamo parlando. Inoltre, cosa che dubito, vorrei conoscere chi sono i fermati e di quale orientamento politico sono. Non darei per scontato nulla, cara Sig.ra Gazzato, ovvero mi risulterebbe faticoso credere abbiano in tasca la tessera CGIL, più facilmente me li aspetto militanti su altri terreni
Questa innata bontà viene purtroppo spesso soffocata dalla cosiddetta «educazione» e da tutto un insieme di modelli sociali tramite cui si apprendono, come premianti, i comportamenti di aggressività, appropriazione, lotta.
Dentro di noi c’è un caino e un abele, scorre nelle nostre vene lo stesso sangue. Essere caino o abele dipende non dal sangue, ma dalle scelte.grande problema è far passare caino e la sua violenza per vincente. Se fosse mostrato chiaramente che tra i due abele non violento è un uomo e caino violento non è ancora un uomo…forse potremmo finalmente cominciare a indirizzare l’umanità verso il bando della violenza e della guerra. Finché sui libri di storia saranno chiamati “grandi” coloro che hanno perpetrato guerre e distruzioni e non col loro vero nome di “criminali” e subumani, non si andrà da nessuna parte…nella storia abbiamo solo un uomo tale in pienezza: Gesu Cristo…la sua parola è faro per chiunque voglia realizzare nella sua esistenza scelte di umanità piena…
Detto francamente: intervista troppo lunga e anche poco utile. La psicologia del profondo dovrebbe prendere atto che dopo 126 anni dal 1899 (Freud, L’interpretazione dei sogni) il mondo non è cambiato, semmai peggiorato e le varie scuole che si contendono allievi, stanno fuori dalla realtà drammatica del presente, non prevengono, non fanno riflettere a livello sociale, sui media non esistono e non si sentono. Nei conflitti di oggi la voce delle associazioni professionali di psicologi e terapeuti nel mondo è completamente assente. Dunque: inutilità. Prendano sul serio la loro inutilità e incapacità di intervenire sui meccanismi profondi della violenza, dell’odio, e sugli interessi economici collegati. Su questo aspetto l’intervista tace del tutto. Occasione sprecata. Le religioni: prendano atto del loro fallimento nel predicare benessere spirituale, armonia, pace. Soprattutto le religioni orientali. Quanto a noi non stiamo messi meglio. 1,4 miliardi di cattolici nel mondo non fermano le guerre; 2 miliardi di cristiani non fermano le guerre e i conflitti. Mi sembra necessaria una presa di coscienza profonda capace di far ripartire una visione seria della realtà con il contributo vero di tutte le scienze umane. Dunque questa intervista a cosa potrà mai servire?
E’ una critica distruttiva… ma azzeccata