“Senza alibi”: sul Giubileo degli operatori di giustizia

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Sabato 20 settembre 2025, oltre quindicimila operatori del diritto hanno gremito Piazza San Pietro per il Giubileo degli operatori di giustizia. Alla celebrazione hanno preso parte giuristi provenienti da oltre cento Paesi, segno della dimensione universale della giustizia e del suo legame con la dignità umana.

Papa Leone, rivolgendosi a magistrati, avvocati, professori e a quanti lavorano quotidianamente al servizio della giustizia, ha richiamato tutti a non rifugiarsi dietro formalismi o alibi istituzionali: «Non lasciate che la giustizia diventi una formula astratta o una tecnica senz’anima: la giustizia è custodia della dignità di ogni persona». Il Papa ha ricordato che il male non va soltanto sanzionato, ma riparato, richiamando la vocazione educativa della giustizia e la necessità di farne un luogo di umanizzazione e non di esclusione.

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Chiunque ami i gialli sa che cos’è un alibi, parola latina che significa «altrove». L’indagato, al momento del delitto, non era lì ma «altrove»: ha un alibi. Anche noi viviamo spesso di alibi. L’intreccio di genetica ed epigenetica ci rende unici, e per questo parliamo di «trovare il proprio posto nel mondo» o di «sentirsi fuori posto»: nella storia della umanità non ci sarà mai nessuno come noi. Ma per paura di questa unicità, o per pigrizia e mancanza di amore, ci schermiamo da noi stessi e dal mondo. Così non scopriamo il nostro destino, accontentandoci del posto che altri ci impongono (uniformandoci) o bramando quello che altri già occupano (conformandoci), con inevitabili delusioni.

Virginia Woolf chiamava «momenti di essere» quei frammenti di vita in cui siamo davvero presenti a noi stessi, irripetibili e insostituibili. Ma per arrivarci occorre passare dalla solitudine, esperienza difficile perché associata al vuoto e quindi al nulla: «non sono niente di speciale, non c’è posto per me». In realtà solo un recipiente «vuoto» e «integro» può accogliere. Anche per chi amministra la giustizia, come per ciascuno di noi, il rischio è quello di vivere di alibi: rifugiarsi in ruoli, funzioni, formalismi che allontanano dalla verità. La solitudine e il riconoscersi “generati” sono esperienze che ci restituiscono invece al reale, ci ricordano che ogni vita e ogni giustizia nascono da una relazione e si compiono solo in essa.

In questa prospettiva, proprio come ha ricordato il Papa in piazza San Pietro, il Giubileo invita i giudici e gli operatori a interpretare la legge «nella misura più umana possibile», un’indicazione che rimanda direttamente al bisogno di superare l’astrazione tecnica per ritrovare la concretezza del volto umano della giustizia.

Lo stesso vale per ciascuno di noi: senza alibi, restare nel qui e ora – non nel delitto ma nel reale – ci rende «capaci» e «integri». La solitudine è una faccia a faccia non narcisistico con sé stessi.

Gli alibi servono a fuggire da dolori e paure, ma soprattutto per chi è in formazione il vuoto acuisce il bisogno di evasione. Eppure proprio nel vuoto si scopre la propria forma: la vita che si dà in me è unica, come diversa è la forma di ogni bicchiere. La solitudine, a differenza dell’isolamento, apre: il solitario è «unico», come un pezzo di puzzle, e solo tra due unicità può esserci vera intimità. L’università dovrebbe offrire questo: accesso a un mondo che si riceve attraverso legami. Perché la solitudine è unicità e originalità, e rende «capaci» di accogliere. Nella parabola dei talenti si dice che ciascuno li riceve «secondo le sue capacità»: cioè ciascuno riceve vita sulla base di quanta ne può contenere, tutta quella che può contenere (i talenti non sono le capacità, come semplifica una certa lettura da predestinazione o da performance, ma la vita che vuole riempirci alla nostra misura).

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Ma non solo la vita interiore e i rapporti personali rischiano di essere coperti da alibi: anche la tecnica, quando sostituisce anziché sostenere le nostre capacità, diventa un rifugio che ci separa dal reale. Fino agli anni Novanta la conoscenza era custodita nei libri e nelle enciclopedie (le più moderne in cd-rom). Poi, con i motori di ricerca, si è spostata online. Con i cellulari è entrata in tasca e, sui social, nella vita quotidiana. Oggi, con l’intelligenza artificiale – che segna quasi un “prima e dopo Cristo” dell’apprendimento – non solo la conoscenza, ma la stessa intelligenza sembra dislocarsi fuori di noi.

Questa accelerazione ci trasforma, o la struttura del Sapiens resta la stessa? Certo mutano le abilità: con il cambio automatico guidare è più facile, ma si diventa più disattenti; con i cellulari molti ragazzi non sanno più leggere l’orologio a lancette, ma sanno girare un video; strumenti di traduzione simultanea ci sollevano dall’imparare le lingue: perderemo capacità o guadagneremo comprensione reciproca?

Già Platone temeva che la scrittura avrebbe fatto «perdere» la memoria: non più «mandata» a mente, ma «demandata» al supporto scritto. Aveva ragione, ma proprio grazie a ciò – oltre ad averci lasciato i suoi capolavori – la memoria si alleggerì del peso della conservazione tipico delle culture orali, aprendosi a nuove forme di sapere. Nessuno oggi tornerebbe indietro. Da questo punto di vista l’IA avrà un impatto pari, se non superiore, all’invenzione della scrittura. Il fine della tecnica è sempre stato sollevare l’uomo dal lavoro per restituirgli tempo e riposo. Ma oggi emergono due paradossi. Primo: il tempo liberato lo spendiamo in altra tecnologia (le e-mail, nate per semplificare, sono diventate un lavoro a parte). Secondo: per la prima volta, nel XX secolo, abbiamo creato strumenti che possono distruggerci – dalla bomba atomica alle possibili derive dell’IA, se lasciata senza regole alle big tech e all’industria bellica, come avvertono gli stessi Hinton e Bengio.

E allora la domanda resta: in mezzo a mutamenti così profondi delle nostre abilità, qualcosa di essenziale nell’umano rimane invariato? È questa la stessa domanda che ha attraversato la celebrazione giubilare: come custodire l’umanità dentro sistemi che rischiano di ridurre la persona a numero, caso, pratica burocratica?

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Tutti, proprio tutti nella storia, abbiamo una sola cosa in comune: il fatto di essere figli. Questa condizione è quindi per natura il cardine dell’esistenza, e quindi rafforzare, aiutare, confortare – in una parola educare – questa condizione è la chiave di ogni vita riuscita, in particolare se in formazione. Ma che significa sentirsi (non basta esserlo materialmente) «generato»? Sperimentare che la vita che abbiamo è ricevuta, non ce la siamo data da soli ed è illusorio volerlo fare, e che per ri-generarla bisogna attingere a una fonte che non è in noi. Diventare «sempre più» figli significa (imparare a) ricevere la vita, sentirsi voluti al mondo e saper cercare nel mondo ciò che ci serve per compierci, qualsiasi siano le condizioni contingenti.

Come ha ricordato il Papa, «la giustizia è custodia della dignità di ogni persona» e dunque non può ridursi a calcolo o a formalismo, ma deve essere generativa.

E non è questione di poco conto, perché poi da quanto sono e mi sento generata dipende quanto sarò generativa, cioè capace di creare e ampliare la vita: è genuino, generoso, gentile chi si sente voluto al mondo, solo chi è grato della vita ricevuta ne provoca altrettanta.

Il verbo che racchiude ogni atto creativo è «amare» ma si coniuga nei modi originali in cui ciascuno di noi pro-crea, cioè fa vita nuova o fa nuova la vita: scrivere, dipingere, accarezzare, cucinare, incoraggiare, studiare, suonare, raccontare, passeggiare, curare, guardare negli occhi, lavorare, fare sport, prendere per mano, riposare, correggere, parlare, abbracciare, ascoltare, sorridere… Tutto ciò che è fatto per amore e per amare ha un effetto d’essere: (ri-)genera.

Il parallelismo è evidente: così come nella vita personale gli alibi ci separano dal reale, anche nel mondo della giustizia gli alibi – che siano burocratici, culturali o politici – rischiano di diventare una maschera che copre la verità e svuota la responsabilità. Per questo il Papa ha parlato del Giubileo come di un «laboratorio di speranza»: una chiamata a vivere e amministrare la giustizia come atto di verità e di rigenerazione per ciascuno e per la collettività. Il Giubileo ci ricorda che non basta stare «altrove»: la giustizia, come la vita, si compie solo se la abitiamo senza alibi.

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