
Che relazione è emersa tra Trump e i principali leader arabo-musulmani? Di certo il presidente statunitense ha lodato molto la ricchezza alcuni di loro. Il disastro di Gaza è rimasto sullo sfondo, quasi mai citato. Ciò che è emerso sono loro, i leader.
Non si può che partire dalla novità emersa a Sharm el Sheikh. Il presidente turco, Erdogan, ha firmato il documento di Sharm el Sheikh quale quarto mediatore, seduto accanto a Trump, all’egiziano al-Sisi e all’emiro del Qatar, al Thani e davanti al grande emiciclo dal quale assistevano tutti gli altri leader presenti.
È un fatto che da giorni veniva indicato come decisivo l’intervento, nella fase conclusiva della corsa verso l’accordo, di Erdogan. Trump da quando è arrivato in mattinata a Gerusalemme a quando ha posto fine in serata a questa giornata mondiale, non ha risparmiato economi a nessuno dei suoi interlocutori. Ma quelli rivolti a Erdogan cambiano qualcosa, pur essendo noti da tempo i suoi buoni rapporti con il leader turco.
Innanzitutto perché lui non è arabo, ma turco e così i grandi sponsor dell’intesa si estendono al di là dei confini arabi dando ad Erdogan un ruolo a lungo cercato ma mai conseguito prima. I noti rapporti di Erdogan con l’emiro del Qatar, che li fanno sovente indicare come i veri punti di riferimento per il mondo dei Fratelli Musulmani, non certo amati dalle altre monarchie arabe, fanno sì che cambi la fotografia politico-culturale degli equilibri regionali.
La tesi più accreditata, e naturale, è quella per cui Erdogan sarebbe stato decisivo per convincere Hamas, o parte della sua leadership, a far pendere la bilancia dalla parte del «sì». E forse questo si collega con la decisione di Trump di autorizzare Hamas a svolgere provvisoriamente funzioni di polizia a Gaza.
Impossibile non notare anche che nel tempo di Trump la Turchia ha conseguito un ruolo cruciale anche nella nuova Siria di Ahmed al-Sharaa, il terrorista trasformato in statista, che sta trattando un accordo di armistizio (poi si vedrà se sarà anche di pace) con Israele. Ankara con la cerimonia di Sharm el Sheikh ha ottenuto un riconoscimento pieno del suo ruolo regionale.
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L’immagine di Erdogan seduto lì, al tavolo dei mediatori, ha segnato un momento decisivo, un’immagine forte, che cambia molto, ma è stato impossibile non vedere come decisiva quella che riguarda solo Trump; c’era solo lui sul palco di Sharm el-Sheikh, senza neanche il padrone di casa al-Sisi al suo fianco, a ricevere uno ad uno i leader mondiali convenuti per la cerimonia della firma che ha posto termine a due anni di guerra.

Poi li ha fatti accomodare alle spalle sue e degli altri mediatori, dopo aver posato per una fotografia con ciascuno di loro sempre con il pollice alzato, come molti arabi hanno fatto anche loro. Poi un breve ringraziamento a tutti prima di dire: «Qui, alle mie spalle, ci sono leader tra i più ricchi al mondo», richiamando l’importanza che gli investimenti avranno nella costruzione della nuova Gaza.
Questa è probabilmente una chiave di lettura sulla quale soffermarsi: i soldi, la potenza economica che quei leader incarnano, personalmente. C’è stato anche un minuto per il primo saluto con Abu Mazen, presidente di un’Autorità Palestinese che ha ottenuto un piccolo posto a Sharm el Sheikh. Per sentir parlare di diritto a una prospettiva di «autodeterminazione palestinese» si è dovuto attendere il saluto conclusivo del presidente al-Sisi, che Trump ha sempre lodato, come ogni altro interlocutore, ma soprattutto quale generale: «lui cancella il crimine», ha detto così Donald Trump.
Gaza è in condizioni disperate, ma Trump ha detto poco al riguardo, come non ha cercato una soluzione complessiva alla questione palestinese, sapendo bene l’intrattabilità della questione relativa alla Cisgiordania. Anche gli arabi lo sanno. Insieme, preservando una speranza di due Stati accennata nel testo dell’accordo, hanno puntato a convenire, per ora, soltanto su Gaza, che se non è tutto non è poca cosa, dovendosi ricostruire proprio tutto, strutture e infrastrutture.
Così, il sostegno di un mondo arabo cambiato profondamente, nel quale − principale differenza − non c’è più un blocco che si opponga alle cosiddette petromonarchie del Golfo e quindi all’Arabia Saudita che di fatto guida tutti, è il sostegno di un mondo ansioso di porre termine all’instabilità che derivava da Gaza e che finiva col coinvolgerlo.
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L’idea di Trump dunque ora pone al centro i turchi e i giovani monarchi arabi con il loro pragmatismo tecnocratico: il suo chiaro successo, averli tutti dentro, è stato determinato dalla nuova realtà, dalla scomparsa del vecchio «fronte del rifiuto» arabo, nessuno più discute la primazia del Golfo. La scelta su Hamas che svolge provvisoriamente funzioni di polizia è sorprendente: ma nell’assenza dell’Autorità Palestinese di Abu Mazen e del contingente internazionale ancora in via di formazione può apparire un passo necessario. E qui va ricordata l’indiscrezione pubblicata dal sito americano Axios per il quale i mediatori americani nella fase conclusiva della trattativa avrebbero incontrato direttamente i mediatori di Hamas.
Trump sa bene comunque di non potersi legare solo a turchi e qatarini. Forse per questo ha detto di volere accanto a sé nel nascituro comitato di supervisori di Gaza l’egiziano al-Sisi, che con i Fratelli Musulmani ha un rapporto opposto a quello di Erdogan. E probabilmente ha lo stesso senso equilibratore la scelta, annunciata dallo stesso Trump, di far fermare proprio in Egitto, a Sharm el-Sheikh, i mediatori americani rimasti in Medio Oriente per avviare la «fase due», quella che dovrebbe portare alla nuova Gaza. Dunque non in Qatar, ma in Egitto.

Lo show di Trump, autentica e sola stella di questa cerimonia, ci dice che il suo peso è stato messo tutto sull’accordo. L’enfasi posta su di sé, sulla sua tesi ribadita anche ieri che il Medio Oriente trova la pace dopo 3 mila anni, può rientrare nel personaggio. Come anche lo stile hollywoodiano del suo ricevere da solo, sul grande palco, ogni singolo leader «accorso», per fare una foto con lui e poi salutarlo (da segnalare l’assenza del principe ereditario saudita, Muhammad bin Salman, una scelta significativa), restando l’assoluto padrone della scena. Trump ha anche lodato l’idea di un palco che poneva tanti re e presidenti alle spalle sue e dei suoi co-firmatari.
Le prospettive di sviluppo, non di progresso, sono affidate ai re, ai loro fondi di investimento dai tanti zeri; il resto si vedrà dopo. Questo sistema di governo è quello in cui loro credono per i loro stessi Paesi, non solo per Gaza. Non c’è stato alcun riferimento a ciò che questi due anni tremendi hanno significato per Gaza, per il mondo arabo e anche per l’islam. È strano: i riferimenti alla Bibbia in mattinata sono stati tanti; ma nel pomeriggio di Sharm el Sheikh, dove Trump è arrivato con tre ore ritardo, nessuno ha parlato del Corano.
Evidentemente le giovani corone, tutte immerse nel paradigma tecnocratico, sebbene con le loro diversità, hanno paura del fondamentalismo. Paura che − con un distinguo relativo a Qatar e Turchia su cui si dovrà riflettere − probabilmente ispira la loro ostilità per Hamas e l’urgenza di trovare una soluzione per Gaza e la sua popolazione. La quale non deve uscire da quei confini per il timore di rabbia ed estremismo, oltre che di instabilità.
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Il pragmatismo trumpiano si è incontrato con il pragmatismo arabo che aveva anch’esso un problema con la sua opinione pubblica, tenuta dai regimi nel pieno silenzio.
Comporre il mosaico di corone arabe rimane complesso anche per Trump, ma l’urgenza determinatasi dopo ciò che più li ha preoccupati, l’attacco militare israeliano al Qatar, insieme alla scomparsa del vecchio fronte opposto ai sauditi, ha consentito a Trump di arrivare a questo risultato.
Ora però, se per Trump il problema della piazza può considerarsi alle spalle, per le corone arabe il problema del fondamentalismo rimane. È un problema che deriva dalla scissione che accompagna quel sistema, lontano da larghe parti della popolazione. La scelta tecnocratica può ammorbidire alcune difficoltà sociali dovute alla miseria. Ma non offre Stati che affrontino la necessità, soprattutto dei giovani, di sentirsi cittadini.
Il problema ha radici antiche, che risalgono ai tempi del colonialismo. La stessa Arabia Saudita nasce dalla conquista da parte della tribù saudita di un territorio che era anche di altre tribù, non solo di quella dei Saud e il tipo di islam che sposarono dava legittimazione a quella conquista. Ora non è più così. Quel matrimonio è finito. Mohammad bin Salman guarda altrove. Ma perché possa definire un carattere nuovo del suo regno ci vorrà ancora tempo. Sono processi lunghi. Non sembra che la monarchia costituzionale sia il suo modello. Forse la monarchia tecnocratica potrebbe essere la scelta, difficile dire se transitoria.
Certo, il one man show di Trump ha confermato che l’idea partecipativa è lontana da Sharm el Sheikh, come un islam ufficiale rigenerato dalla cura dei monarchi. Ma questo, forse, si vedrà col tempo. Di certo i lavori sono in corso. Gaza, se tutto andrà in porto, potrebbe essere l’esperimento del modello tecnocratico. La questione palestinese, infatti, è rimasta molto sullo sfondo.







Ottima analisi in cui si può riconoscere l’apparizione di un nuovo dio che sovrasta le tre religioni Abramiche e cerca di unirle: è apparso prima negli Stati Uniti per poi diffondersi in tutto il globo terrestre. Quando il poco probabile presidente Trump ha lanciato l’idea di un piano di pace per il Medio Oriente, un mondo da sempre intriso di religione e dei fantasmi che ne derivano, aveva in mente una nuova fede, più unificante ma potenzialmente più dirompente: Il dio Dollaro. Venerato soprattutto da chi ne ha molti, osteggiato da chi non riceve le sue benedizioni. Trump, a Sharm, in Egitto, ha puntato soprattutto sui primi – i petrolieri arabi nuovi ricchi – e poi su quelli che ne hanno più bisogno. Pensava alla stabilità geo-politica necessaria per continuare il flusso del benessere verso le casse dei pochi…e far almeno sognare chi aspira.
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