
Facciamo memoria del giorno della “nascita terrena di sant’Agostino” (13 novembre) con una riflessione a partire da un episodio della sua giovinezza, un furto di pere, che il grande vescovo di Ippona ricorda nelle sue Confessioni. Tutta la sua descrizione di tale furto − coglierà con la consueta finezza Hans Urs von Bathasar − è soltanto per lui motivo per ragionare intorno a una questione che penetra sempre più in profondità: se si può amare il male per sé stesso.
Tutte le volte che m’imbatto di scrivere su sant’Agostino (354-430), confesso di provare lo “sguardo intimorito” del rododendro, che dal basso guarda verso i distesi e profondi rami della quercia. Ma anche di scusarmi e qui adopero parafrasando le medesime parole di Agostino: «[…] ut ignoscant peto, ubi me magis voluisse quam potuisse dicere adverterint, quod vel ipsi melius intellegunt, vel propter mei eloquii difficultatem non intellegunt (chiedo di scusarmi se si accorgeranno che non ho potuto esprimere, come avrei voluto)»[1]. Ora il titolo del presente scritto viene proposto in occasione della data del 13 novembre, “giorno della nascita terrena” del grande sant’Agostino e riguarda: “Sant’Agostino. Quel piccolo ladro di pere”, vale a dire uno dei motivi toccati da Agostino, nella sua opera più celebre, famosa e studiata, Le Confessioni, in particolare l’argomento riguardante il “male”, che lo stesso argomenta all’interno del secondo libro dell’opera (cc. IV-X). (La memoria liturgica si festeggia il 28 agosto).
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Quid est Augustinus? È il più grande Padre della Chiesa, sicuramente di quella latina, vissuto tra il IV e V sec. d. C., nato in Africa, in Numidia (attuale Algeria), all’inizio della valle del Mejerda (la Bagrada degli antichi) nella piccola cittadina di montagna (700 m slm), Tagaste, il 13 novembre del 354 (il nome attuale della città è Souk Ahras [سوق أهراس] moderno centro agricolo algerino), da Monica, donna di profonda fede cristiana e da Patrizio (oggi diremmo non frequentante dei sacramenti). Agostino, – che morirà nel 430 d.C., sempre in Algeria a Ippona, attuale Annaba, dove fu vescovo (396-430) – indubbiamente è una delle figure più grandi dell’antichità e di tutta l’umanità. E in ogni ambito della conoscenza umana, è impossibile oggi trascurare, le disamine raccolte nelle sue numerose opere. Così descrive i primi anni di vita, fino al battesimo, ricevuto per mano di sant’Ambrogio a Milano nel 387, tra la notte del 24-25 aprile, il suo più autorevole biografo san Possidio (IV sec. – morto nel 437), vescovo di Calama, in Numidia, amico di Agostino per più di quarant’anni, che ne scrisse la Vita Sancti Augustini (Vita di Sant’Agostino).
«Suo padre, di nome Patrizio, uomo affettuosissimo ma facile all’ira, era un “modesto cittadino”, membro del consiglio municipale. Sebbene, ormai vescovo, dica di essere “nato da genitori poveri”, tuttavia in casa vi erano dei servi e i suoi avevano qualche proprietà. La madre, Monica, era una donna di alte qualità naturali, cristiana e assai pia. Tutta la famiglia credeva in Cristo, tranne il padre, che s’iscrisse tra i catecumeni verso il 370 e morì l’anno seguente, dopo aver ricevuto il battesimo. Ebbe certamente un fratello, Navigio, e una sorella di cui ignoriamo il nome, la quale, rimasta vedova, si consacrò a Dio e resse fino alla morte il monasterium faeminarum ad Ippona. Riguardo all’origine di Patrizio, bisogna notare che Agostino chiama sé stesso “africano” e non confuta l’appellativo di “punico” che alcuni avversari gli danno per scherno; ma si noti anche che in casa di Patrizio i padroni e i servi parlavano il latino. Dunque, se fu di stirpe africana, fu romano di lingua, di cultura e di cuore»[2].
«Nacque nella provincia d’Africa, nella città di Tagaste, da genitori dell’ordine dei curiali, di onesta condizione e cristiani. Fu da loro allevato e educato con ogni cura e anche con notevole spesa, e fu inizialmente istruito nelle lettere profane, cioè in tutte quelle discipline, che chiamano liberali. Così insegnò prima grammatica nella sua città e poi retorica a Cartagine, capitale dell’Africa. Successivamente insegnò anche al di là del mare, a Roma e a Milano, dove allora risiedeva la corte dell’imperatore Valentiniano II. In questa città era allora vescovo Ambrogio, uomo eccellente fra i migliori e sommamente gradito a Dio. Questi predicava molto frequentemente la parola di Dio nella chiesa, e Agostino seduto in mezzo alla gente lo stava a sentire con la massima attenzione. In effetti, tempo prima quando era ancora giovane a Cartagine, Agostino era stato sviato dall’errore dei Manichei: perciò assisteva alle prediche di Ambrogio con più attenzione degli altri, per vedere se fosse detta qualcosa a favore o contro quell’eresia. E per clemenza di Dio liberatore, che ispirò il cuore del suo sacerdote, avvenne che certe questioni riguardanti la legge fossero risolte in senso avverso all’errore dei Manichei; così Agostino gradualmente fu istruito, e a poco a poco per benevolenza divina quella eresia fu cacciata dal suo animo. In poco tempo fu confermato nella fede cattolica e in lui nacque l’ardente desiderio di progredire nella religione per ricevere l’acqua della salvezza nei giorni della Pasqua che erano prossimi. Così, grazie all’aiuto divino, per opera di un vescovo di tale levatura quale era Ambrogio, Agostino ricevette la dottrina della Chiesa cattolica, apportatrice di salvezza, e i sacramenti divini»[3].
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Tuttavia, prima di passare al quid del nostro tema è d’uopo soffermarsi ancora sull’opera agostiniana per eccellenza, su alcuni particolari riguardanti Le Confessioni. L’Ipponate inizia la stesura dell’opera nel 397 e la terminerà quattro anni dopo nel 401. E all’età di 76 anni, rispondendo all’amico Dario, che gli aveva chiesto le sue Confessioni, scrive: «Poiché dunque non sono riuscito a spiegarti a parole quanta gioia ho avuto dalla tua lettera, ti ho detto perché mi ha fatto piacere; lascio ormai a te immaginare quel che non sono riuscito a esprimerti a sufficienza, quanto cioè mi ha fatto piacere. Ricevi dunque, figlio mio, signore mio illustre e cristiano non già nell’apparenza esteriore, ma per la carità cristiana, ricevi − dico − i libri delle mie Confessioni che hai desiderati. Osservami in essi e non lodarmi più di quel ch’io sono; in essi credi a me e non ad altri sul mio conto. In essi considerami e osserva che cosa sono stato in me stesso, per me stesso e se vi troverai qualcosa che ti piacerà di me, lodane con me non me stesso, ma Colui che ho voluto venga lodato nei miei riguardi. Poiché è stato lui a farci e non già noi da noi stessi. Noi infatti eravamo periti ma è stato lui a rifarci, lui che ci aveva fatti. Quando in essi m’avrai trovato, prega per me, affinché io non faccia regressi, ma sia messo in grado di fare progressi. Prega, figlio mio, prega. So quel che dico, so quel che chiedo. Non ti sembri una cosa fuor di proposito e in un certo senso superiore ai tuoi meriti. Mi priverai d’un aiuto prezioso, se non lo farai. E non tu soltanto, ma anche tutti coloro, che mi vogliono bene per averti inteso parlare di me, preghino per me. Fa sapere loro che sono stato io a chiederti ciò e, se voi mi attribuite importanza, fate conto che questa mia domanda sia un comando; concedeteci, a ogni modo, quel che domandiamo oppure ottemperate a quel che vi comandiamo. Pregate per noi. Leggi la Scrittura e vi troverai che i capi (del gregge cristiano), gli Apostoli, domandarono ciò ai loro figli oppure lo comandarono ai loro uditori»[4].
E ancora Agostino all’amico: «Quanto io faccia questa medesima cosa che mi hai domandata per te lo vede Colui che speriamo ci esaudisca, Colui che vedeva che lo facevo anche prima. Ma dammi anche in ciò il contraccambio dell’affetto. Noi siamo i vostri pastori, voi il gregge di Dio. Considerate e riflettete che i nostri pericoli sono maggiori dei vostri e perciò pregate per noi. Ciò torna a vantaggio sia vostro che nostro, affinché rendiamo conto favorevole di voi al Principe dei pastori e capo di noi tutti, e nello stesso tempo sfuggiamo alle lusinghe di questo mondo, più pericolose che non le molestie, salvo quando la pace del mondo ci giova per trascorrere – come l’Apostolo ci esorta di pregare – una vita quieta e tranquilla, in tutta pietà e carità. Se infatti venisse a mancare la pietà e la carità, che cosa sarebbe la pace e la tranquillità, al riparo da tutti gli altri mali del mondo, se non un’esca, un invito o un aiuto alla scostumatezza e alla dissolutezza? Pregate dunque per noi, dovunque voi siate, affinché possiamo trascorrere una vita quieta e tranquilla, in tutta pietà e carità, come prego io per voi dovunque siamo noi, poiché dappertutto è presente il Signore al quale noi apparteniamo»[5].
Da ribadire che Le Confessioni di Agostino, si diffusero largamente fin da subito e tra l’altro fino al Medioevo e ancora oggi rimane uno dei testi più letti ed edificanti. «L’opera se ne sta sola e senza confronti non soltanto tra gli altri numerosi libri di Agostino, ma nel suo tempo, anzi nella letteratura universale. A dispetto di tutti i tentativi di trovarvi dei precursori – c’erano state tra i romani delle “mémoires”, come quelle di Varrone, di Cicerone, le autoconsiderazioni di Marco Aurelio e i quasi interminabili autorispecchiamenti di Gregorio di Nazianzo – qui nasce qualcosa di totalmente nuovo che si tradisce già nel titolo: una lunga preghiera che intende essere una lode (confessio) di Dio, unitamente a una confessione vera e propria (sempre confessio) della propria esistenza passata, traviata e rientrata sulla via di Dio, del suo stato attuale e delle sue radici nei fondamenti della creazione e nel grembo della Chiesa, verso la quale mira la creazione»[6].
Tant’è che in tempi più recenti a tal proposito una curiosità personale. Negli anni passati partecipando ai Simposi Rosminiani di Stresa (Verbania), durante una pausa dei lavori, scambiando dei pareri con il prof. Giovanni Reale (1931-2014) precisò a noi giovani discenti che: «Ogni giorno al mondo vengono pubblicati un libro di o su Platone e Agostino»[7]. Ecco, un ulteriore modo, per rimarcare l’inestimabile importanza dello scritto del vescovo africano. Ed è lo stesso Ipponate che descrive nelle Ritrattazioni[8], il significato delle Confessioni. «I tredici libri delle mie Confessioni lodano Dio giusto e buono per le azioni buone e cattive che ho compiuto, e volgono a Dio la mente e il cuore dell’uomo. Per quanto mi riguarda hanno esercitato questa azione su di me mentre li scrivevo e continuano ad esercitarla quando li leggo. Che cosa ne pensino gli altri è affare loro: so però che sono molto piaciuti e tuttora piacciono a molti fratelli. I libri che vanno dal primo al decimo, hanno me come oggetto, i rimanenti tre trattano delle Sacre Scritture a partire dalle parole: In principio Dio fece il cielo e la terra, fino al riposo del sabato. Nel quarto libro, confessando la sofferenza del mio animo per la morte di un amico, avevo detto che le nostre due anime formavano un’anima sola. Ed avevo aggiunto: Temevo forse di morire, pensando che così sarebbe del tutto morto colui che avevo molto amato. Questa però mi sembra più una declamazione inconsistente che una confessione profonda, anche se in qualche modo questa banalità è attenuata dall’aggiunta di un forse. Nel tredicesimo libro non ho adeguatamente meditato le parole: Il firmamento è stato creato fra le acque spirituali superiori e le acque materiali inferiori. Trattasi comunque di un argomento assai oscuro. Quest’opera incomincia così: Grande sei, Signore»[9].
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Tuttavia, i protagonisti dell’opera de Le Confessioni, sono Dio e l’uomo. Si potrebbe dire l’uomo irrequieto, l’uomo che non si accontenta della superficialità della vita, ma che intende approdare work progress alla certezza esistenziale o di più all’Eschaton. «Ripresa e Er-örterung (ri-collocazione) in senso radicalmente immanentistico di san Paolo e Agostino, combinata con la interpretazione della Critica kantiana in una chiave integralmente ontologica»[10]. Senza entrare diffusamente − una sintesi proveremo a farla più avanti − nelle dinamiche dei tredici libri delle Confessioni, ma limitandoci in specie al “Secondo libro”, e in particolare ai capitoli IV,9 – X,18, dove l’Ipponate si sofferma a un episodio che lo rese protagonista all’età di sedici anni, il noto appunto, episodio del «furto di pere»[11]. Tutta la seguente descrizione spiega Balthasar, di un furto è soltanto motivo per una questione che penetra sempre più in profondità: se si può amare il male per sé stesso. «Essa non viene di certo risolta semplicemente con la dichiarazione (neoplatonica) che il male è qualcosa che non è (ossia una mancanza del vero bene). La soluzione in II, IV, 12 e 13 (perversa imitazione di Dio) scava più a fondo. Qui non si tratta di paura psicologica o di un pessimistico tormento di sé, ma si tratta di un’inchiesta nelle “profondità di Satana” (Ap 2,24), del piacere proprio delle bestie apocalittiche nell’oltraggiare Dio. Del resto, già Ovidio aveva detto: “Ciò che è permesso non dà nessun divertimento, ciò che è proibito pungola e brucia di più” (Amos II, 19, 3)»[12].
Lo stesso Agostino in età adulta sarà in grado di trovare le motivazioni e le ragioni della sua teodicea, a tal punto che scorrendo le opere di Agostino di frequente, direttamente o indirettamente, si riscontra la costante speculativa filosofica e teologica, scaturito dal noto episodio giovanile. Il trend teodicedico dell’opera del grande padre della Chiesa si scorge già nella dedica a Romaniano del Contra Academicos, il primo dialogo scritto a Cassiciaco all’indomani della conversione. «Difatti quella che volgarmente si chiama fortuna è retta da un certo ordine occulto e noi non intendiamo per caso negli eventi se non qualche cosa, la cui spiegazione razionale ci è nascosta. Niente di conveniente o non conveniente avviene in una parte che non convenga e non si adatti al tutto»[13].
Ecco come descrive Agostino, nelle Confessione, l’episodio del furto. «La tua legge, Signore, condanna chiaramente il furto, e così la legge scritta nei cuori degli uomini, che nemmeno la loro malvagità può cancellare. Quale ladro tollera di essere derubato da un ladro? Neppure se ricco, e l’altro costretto alla miseria. Ciò nonostante, io volli commettere un furto e lo commisi senza esservi spinto da indigenza alcuna, se non forse dalla penuria e disgusto della giustizia e dalla sovrabbondanza dell’iniquità. Mi appropriai infatti di cose che già possedevo in maggior misura e molto miglior qualità; né mi spingeva il desiderio di godere ciò che col furto mi sarei procurato, bensì quello del furto e del peccato in sé stessi. Nelle vicinanze della nostra vigna sorgeva una pianta di pere carica di frutti d’aspetto e sapore per nulla allettanti. In piena notte, dopo aver protratto i nostri giochi sulle piazze, come usavamo fare pestiferamente, ce ne andammo, giovinetti depravatissimi quali eravamo, a scuotere la pianta, di cui poi asportammo i frutti. Venimmo via con un carico ingente e non già per mangiarne noi stessi, ma per gettarli addirittura ai porci. Se alcuno ne gustammo, fu soltanto per il gusto dell’ingiusto. Così è fatto il mio cuore, o Dio, così è fatto il mio cuore, di cui hai avuto misericordia mentre era nel fondo dell’abisso. Ora, ecco, il mio cuore ti confesserà cosa andava cercando laggiù, tanto da essere malvagio senza motivo, senza che esistesse alcuna ragione della mia malvagità. Era laida e l’amai, amai la morte, amai il mio annientamento. Non l’oggetto per cui mi annientavo, ma il mio annientamento in sé stesso io amai, anima turpe, che si scardinava dal tuo sostegno per sterminarsi non già nella ricerca disonesta di qualcosa, ma della sola disonestà»[14].
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Per completezza riportiamo, ampi stralci dei capitoli inerenti al furto delle pere. «Ma io, sciagurato, cosa amai in te, o furto mio, o delitto notturno dei miei sedici anni? Non eri bello, se eri un furto; anzi, sei qualcosa, per cui possa rivolgerti la parola? Belli erano i frutti che rubammo, perché opera delle tue mani, o Bellezza massima fra tutte, creatore di tutto, Dio buono, Dio sommo bene e bene mio vero. Belli, dunque, erano quei frutti, ma non quelli bramò la mia anima miserabile, poiché ne avevo in abbondanza di migliori. Eppure, colsi proprio quelli al solo scopo di commettere un furto. E infatti appena colti li gettai senza aver assaporato che la mia cattiveria, così inebriante a praticarla. Se pure un briciolo di quei frutti entrò nella mia bocca, a insaporirlo era il misfatto. E ora, Signore Dio mio, mi domando: cosa mi attrasse in quel furto? Non vi trovo davvero bellezza alcuna, non dico la bellezza insita nella giustizia e nella saggezza, o nell’intelletto umano, nella memoria, nella sensibilità, nella vita vegetativa, o la bellezza e la grazia propria nel loro ordine agli astri e alla terra e al mare, popolati di creature che si succedono nella nascita e nella morte, e nemmeno quella difettosa e irreale con cui ci seducono i vizi»[15].
Ecco la gravità morale che lo porta a pentirsene fortemente. «In queste forme l’anima pecca allorché si distoglie da te e cerca fuori di te la purezza e il candore, che non trova, se non tornando a te. Tutti insomma ti imitano, alla rovescia, quanti si separano da te e si levano contro di te. Ma anche imitandoti, a loro modo, provano che tu sei il creatore dell’universo e quindi non è possibile allontanarsi in alcun modo da te. Cosa amai dunque in quel furto e in che cosa imitai, sia pure in male e alla rovescia, il mio Signore? Mi compiacqui di violare la sua legge con la malizia, non potendolo fare con la potenza? Il prigioniero voleva imitare una libertà monca, compiendo a man salva un’azione illecita con una simulazione oscura di onnipotenza? Eccolo questo servo fuggitivo dal suo padrone, che ha raggiunto un’ombra. Oh, marciume, oh mostruosità di vita, oh abisso di morte! Poté mai piacermi l’illecito per l’illecito, e null’altro?»[16].
«Quale frutto raccolsi allora, miserabile, da ciò che ora rievoco non senza arrossire, e specialmente da quel furto ove amai solo il furto e null’altro? E anch’esso era nulla, quindi maggiore era la mia miseria. Tuttavia, non l’avrei compiuto da solo. Ricordo bene qual era il mio animo a quel tempo, da solo non l’avrei assolutamente compiuto. In quell’azione mi attrasse anche la compagnia di coloro con cui la commisi. Dunque, non amai null’altro che il furto. Ma sì, null’altro, poiché anche una tale società non è nulla. Cos’è in realtà? Chi può istruirmi in merito, se non Colui che illumina il mio cuore e ne squarcia le tenebre? Come accade che mi viene in mente d’indagare, di discutere, di considerare questi fatti? Se in quel momento avessi amato i frutti che rubai e ne avessi desiderato il sapore, avrei potuto compiere anche da solo, se si poteva da solo, quel misfatto, appagando il mio desiderio senza sfregarmi a qualche complice per infiammare il prurito della mia brama. Senonché i frutti non avevano nessuna attrattiva per me; dunque, ne aveva soltanto l’impresa e a suscitarla era la compagnia di altri che peccavano insieme con me»[17].
Fare il male per il male? No, dice Agostino. «Quale sentimento provavo allora in cuore? Senza dubbio un sentimento proprio molto turpe, ed era una sventura per me il provarlo. Ma pure in che cosa consisteva? I peccati, chi li capisce? Era il riso che ci solleticava, per così dire, il cuore al pensiero di ingannare quanti non sospettavano un’azione simile da parte nostra e ne sarebbero stati fortemente contrariati. Perché dunque godevo di non agire da solo? Forse perché non è facile ridere da soli? Certo non è facile, però avviene talvolta di essere sopraffatti dal riso anche stando soli, tra sé e sé, alla presenza di nessuno, se appare ai nostri sensi o al pensiero una cosa troppo ridicola. Invece io quell’atto da solo non l’avrei compiuto, non l’avrei assolutamente compiuto da solo. Ecco dunque davanti a te, Dio mio, il ricordo vivente della mia anima. Da solo non avrei compiuto quel furto in cui non già la refurtiva ma il compiere un furto mi attraeva; compierlo da solo non mi attraeva davvero e non l’avrei compiuto. Oh, amicizia inimicissima, seduzione inesplicabile dello spirito, avidità di nuocere nata dai giochi e dallo scherzo, sete di perdita altrui senza brama di guadagno proprio o avidità di vendetta! Uno dice: “Andiamo, facciamo”, e si ha pudore a non essere spudorati»[18].
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In cauda concludiamo prima con le parole di un grande interprete del pensiero di Agostino, il filosofo Federico Michele Sciacca (1908-1975). «Perché Agostino commise il furto senza che esso avesse una causa che glielo facesse amare? Che cosa amò in quel notturno malefico dei suoi sedici anni? Il furto è un peccato; il peccato ha una sua trista bellezza, un suo fascino, sinistro, ma non perciò meno attraente. Colse le pere “solo per rubare, senza mangiarle o venderle”. Agostino amò il furto in sé: volle essere cattivo gratuitamente, e fare il male per il male»[19]. E poi con le medesime parole di Agostino.
«Chi può districare un nodo così tortuoso e aggrovigliato? È sudicio, non voglio più riflettervi, non voglio guardarlo. Voglio te, giustizia e innocenza bella e ornata delle tue pure luci e di un’insaziabile sazietà. Accanto a te una pace profonda e una vita imperturbabile. Chi entra in te, entra nel gaudio del suo Signore; non avrà timori e si troverà sommamente bene nel sommo Bene. Io mi dispersi lontano da te ed errai, Dio mio, durante la mia adolescenza per vie troppo remote dalla tua solida roccia. Così divenni per me regione di miseria»[20].
[1] J.P. Migne, Patrologiae, S. Augustinus, Tomus, XLII, 1843, p. 911.
[2] A. Trapè, Introduzione a sant’Agostino – La Vita, in: augustinus.it/vita/vita/index.htm.
[3] Possidio, Vita di Sant’Agostino, cc. 1-1 – 1-6.
[4] Sant’Agostino, Lettera 231, 6.
[5] Ibidem, Lettera 231, 6.
[6] Sant’Agostino, Le Confessioni, Casale Monferrato (Al), Edizioni Piemme, 1996, pp. 5-6, a cura di Hans Urs von Balthasar.
[7] Simposi Rosminiani, Colloquio privato a margine dell’evento, con il prof. Giovanni Reale, 2002.
[8] Sant’Agostino, Le Ritrattazioni, opera di revisione di tutti gli scritti, composta tra il 426-427.
[9] Sant’Agostino, Le Ritrattazioni, Libro II (VI, XXXIII).
[10] Massimo Cacciari, Metafisica concreta, Milano, Adelphi, 2023, p. 225.
[11] Sant’Agostino, Le Confessioni, Libro II, IV,9, 1996, a cura di Hans Urs von Balthasar.
[12] Ibidem, Libro II, nota 2, p. 53.
[13] Sant’Agostino, La controversia accademica, Libro 1, 1.
[14] Sant’Agostino, Le Confessioni, Libro II, 4,9.
[15] Ibidem, libro II, 6,12.
[16] Ibidem, 6, 14.
[17] Ibidem, 6, 16.
[18] Ibidem, 6, 17.
[19] Michele Federico Sciacca, Sant’Agostino, Milano, Ares, 2021, p. 25-26.
[20] Sant’Agostino, Le Confessioni, Libro II, 6, 18.






Questa santità così profonda viene da una vita così sofferta. Ci lascia sbalorditi dall’attualità del percorso di vita.