Pasolini: la vita come gioco e redenzione

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Di Pasolini ricorre quest’anno il 50° anniversario della morte. Ha vissuto lo scandalo della storia, aspirando a un assoluto irraggiungibile che, per disillusa reazione, lo spingeva al suo opposto, abbandonandosi a un erotismo esasperato e angoscioso. Pasolini si fa interprete della ferita, a volte latente, a volte gridata, dei nostri giovani, ma allo stesso tempo testimonia un’inesausta tensione alla verità e alla bellezza.

L’ambiente culturale in cui siamo immersi – in cui le immagini della povertà del mondo vanno in onda nello stesso minuto in cui vengo invitata a comprare ciò che non mi serve – ci ripete ossessivamente che cosa ci manca: e come può dare la vita chi si convince di non avere niente da dare, ma solo da prendere? Per uscire da questo inganno consumistico occorre un esercizio quotidiano di sguardo: come posso dare oggi la vita, anche solo per qualcosa di piccolissimo?

Quando Cristo dice che gli ultimi saranno i primi non propone, come sostiene Nietzsche, la morale degli schiavi, la rinuncia alla vita qui e ora in attesa di quella dopo, ma descrive proprio la paradossale struttura della vita qui e ora: solo chi si mette al servizio del bisogno di chi gli sta accanto (fosse anche annaffiare una pianta) libera il «super potere» bloccato dall’ego, creare nuova vita. Chi dà la vita la trova, chi la tiene per sé la perde.

Paradosso che, per Dostoevskij, nei taccuini dei Demoni diventa consapevolezza che la via dei cambiamenti sociali è «essere tutti Cristi»: «Se immaginassimo di essere tutti Cristi potrebbe forse esserci la povertà? Nel cristianesimo perfino la mancanza di cibo e di combustibili porterebbero alla salvezza (uno può non lasciar morire un bambino e morire lui stesso per il suo fratello)… Immaginate che tutti siano Cristi, sarebbero mai possibili tutti gli scombussolamenti odierni, i disagi, la povertà? Chi non capisce questo non capisce niente del cristianesimo e non è cristiano».

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Pier Paolo Pasolini definiva dostoevskiano il suo romanzo Ragazzi di vita, che infatti inizia quasi con la stessa frase di Delitto e castigo: anche lui era ossessionato dalla ricerca di ciò che salva l’uomo dalla violenza sull’altro uomo e sulle cose. E lo fa raccontando la vita amorale dei ragazzi delle borgate romane nel dopoguerra, che riassumeva con un episodio che gli era capitato: «Un ragazzo a cui osservavo che non era educato sputare per terra in una pizzeria, alzando le spalle, con la sua faccia bionda di bebè Caino, mi fece: “Io fo’ la vita mia: dell’altri nun me frega niente”» (Il gergo a Roma).

Ma proprio nella scena chiave del primo capitolo del romanzo alcuni di questi ragazzi, privi di qualsiasi senso dell’altro, in barca sul Tevere, vedono una rondine che, per bere, sfiorando la superficie, finisce in acqua e non riesce più a spiccare il volo. Uno di loro, il Riccetto, pur rischiando la vita per la corrente, si butta in acqua per salvarla. Quando i compagni lo raggiungono: «Il Riccetto li aspettava seduto sull’erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. “E che l’hai sarvata a ffa – gli disse Marcello – era così bello vederla che se moriva”. Il Riccetto non gli rispose subito, “È tutta fraccica – disse dopo un po’ – aspettamo che s’asciughi”. Ci volle poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti rivolava tra le compagne sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva più dalle altre».

In queste due reazioni al bisogno altrui c’è l’arco intero delle rivoluzioni mancate o possibili: chi preferisce guardare l’altro morire e chi si impegna a farlo vivere. Marcello trova «bello» il «veder morire» la rondine («odia il prossimo tuo come te stesso»), invece il Riccetto trova in sé un po’ di amore per il mondo («ama il prossimo tuo come te stesso»), un amore che alla fine del romanzo perderà, non soccorrendo un amico che sta annegando.

Lo scrittore lottava nei suoi scritti contro lo sguardo consumistico ed egoistico sul mondo, per recuperarne uno creaturale e sacro: l’io e la realtà non sono prodotti di consumo, ma l’indisponibile e irripetibile miracolo della vita. Per Pasolini, che fu professore, il fine dell’educazione in generale era infatti aiutare un giovane a raggiungere la «passione autosufficiente», cosa che accade quando «le cose eterne non sono quelle imparate a memoria, ma quelle che più somigliano alle vocazioni che sono in lui (per esempio, quelle che gli si presentano mentre gioca): la passione a creare, la curiosità, l’impulso a impadronirsi» (Scuola senza feticci).

Questa passione autosufficiente, cioè che si alimenta di continuo nell’incontro più o meno prevedibile e fecondo con il mondo, è il frutto delle proprie vocazioni (chiamate a salvare anziché guardar morire, a generare anziché de-generare): è ciò per cui ci dobbiamo impegnare, perché ogni cosa salvata è rivoluzione. «Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto. Dà angoscia / il vivere di un consumato / amore. L’anima non cresce più», come scrive Pasolini nel Pianto della scavatrice. L’anima, cioè il sentimento gioioso di sé, cresce solo al presente, conoscendo e amando, cioè dando la vita.

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Pasolini giocava come ala e faceva un tifo sfrenato per il Bologna: per lui il calcio conservava il sacro popolare più delle messe (allo stadio la gente si stringe con più verità che al segno della pace). Saba, conquistato dall’atmosfera del tifo, ne scrisse in poesia. Luzi ne dedicò una struggente al grande Torino scomparso nel disastro aereo di Superga.

Il gioco mostra ciò che è umano nell’uomo. Giocare ci rende felici perché imita la vita come nient’altro, tanto che al verbo ludico diamo la massima estensione umana possibile: «giocarsi la vita». Gli studiosi spiegano che, in tutte le culture, il godimento del gioco dipende dalle regole. Sembra strano per noi, che cerchiamo la felicità nella libertà intesa come assenza di condizionamenti. Invece il gioco ci ricorda che siamo veramente liberi solo nei legami, non dai legami. L’uomo gode a trovare la propria via, originalissima e creativa, in mezzo ai limiti: giocare è la rappresentazione della vita come destino e destinazione. Il destino è ciò che non scegli, la destinazione è che cosa fai con le carte (altra immagine ludica) che ti capitano.

In molti giochi, i limiti sono spaziali e temporali: rettangoli le cui linee sanciscono zone più o meno sacre, da custodire o conquistare, e porzioni di tempo con recuperi commisurati al «non gioco» (non vita). Gli attori agiscono dentro questo spazio-tempo: il destino. Non ci si potrebbe divertire senza, né senza orologi (il fatidico «chi segna vince» delle «infinite» partite interrotte solo dal buio). Non è forse questa la vita: un perimetro di spazio e di tempo dato una volta sola a ciascuno di noi? Non è la vita un’azione che siamo chiamati a compiere entro limiti che non scegliamo?

Anche sulla lapide ci sono scritte le regole del gioco della vita: luogo e data di nascita/morte. Le regole grazie alle quali siamo come tutti ma anche come nessuno. Ce la dobbiamo giocare in questo limite spazio-temporale, e quindi la chiave è nel trattino tra quelle scritte del nascere e del morire: agire, nel calcio l’azione, nella partita, cioè la parte che ci è data, sia come «porzione» di storia umana, sia come «ruolo» da interpretare in quella storia. Come me la gioco? Agire entro dei limiti, nel proprio ruolo, con altri, non assomiglia alla vita? Essere convocati, rimanere in panchina, scendere in campo non sono tutte metafore dell’esistenza?

E oltre ai limiti previsti e fissi, ci sono gli avversari (le «avversità» della vita), limiti imprevisti e mutevoli. Non sono nemici, ma occasioni e resistenze: e chi non ne incontra nel mondo? E poi il risultato, a volte, non corrisponde all’essere stati superiori e non sempre vince il più forte, perché, nella vita come in questo gioco, c’è sempre la sorpresa di una grazia inattesa. Chi gioca o guarda confida sino all’ultimo in un guizzo, anche in partite noiose e bloccate, perché il gol non è come il punto: è raro e non garantito. Il risultato può anche essere un pareggio, e com’era bello, in origine, affidare non ai rigori ma al caso – una monetina – la vittoria, perché sul campo si è pari. Siamo fatti per giocarci la vita, eroi di una squadra in cui siamo chiamati a trasformare il destino, regole e limiti, in destinazione, azioni da gol.

Il calcio mima ed esorcizza anche la guerra con il suo lessico: strategie e tattiche, attacco e difesa, ali e centro, incursioni e assedi, barriere e cannonate, infortunati e sostituti… ma della guerra non ha la violenza mortifera, tranne quando i giocatori e le tribù di supporto dimenticano stupidamente che è solo un gioco, una rappresentazione, come a teatro (to play dicono gli inglesi per l’agire in scena e per il giocare). E in tempi così ottusamente bellici, capisco meglio perché Pasolini amasse il calcio: perché, come ogni gioco, è un sogno. Un giorno saremo così evoluti da abbandonare gli scontri armati per dedicarci solo a quelli sportivi. Sapremo mai giocarci così umanamente e gioiosamente la vita?

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