
L’edizione riveduta e ampliata del commento a Matteo (prima edizione 1995) curata dal monaco di Bose Alberto Mello – che per decenni ha vissuto a Gerusalemme ed è stato docente di Antico Testamento presso lo Studio Biblico Francescano, con un’attenzione particolare per l’esegesi rabbinica – riserva parecchie sorprese per chi è affezionato allo studio del Vangelo che, dal II secolo, si è imposto nella lettura della liturgia ecclesiale.
Matteo, targumista midrashico
Mello si è convinto che l’area culturale di origine del Vangelo di Matteo non sia Antiochia di Siria, ma la Galilea. Alla fine del I secolo d.C. essa è luogo di convivenza di ebrei messianici (= giudeo-cristiani) e di ebrei rabbinici. Questi ultimi erano ebrei raccolti attorno allo studio della Torà che, dopo la distruzione del tempio e della città nel 70 d.C., era stata dichiarata nel sinodo di Yavne il cuore pulsante dell’ebraismo sopravvissuto alla tragedia e alla scomparsa del sacerdozio, appannaggio dei sadducei.
Terra di popolazione mista, la Galilea ospitava gente che parlava greco e aramaico correntemente. In questo ambiente fiorì il Vangelo di Matteo, dopo lo shock del 70 d.C. e, probabilmente, prima dell’introduzione ufficiale della birkat ha-minim, la benedizione degli eretici, probabilmente avvenuta nel sinodo di Yavne nell’85.
Secondo Mello, non esiste alcun Vangelo di Matteo aramaico, di cui l’edizione greca sarebbe traduzione. Perfettamente bilingue, Matteo scrive in un greco ebraicizzante, che si avvale abbondantemente della traduzione greca dei LXX delle Scritture ebraiche allora esistenti.
Mello non accetta la teoria delle due fonti (Mc e Q) imperante nel campo della ricerca sulla questione sinottica. Egli non nasconde la sua simpatia per le idee del prof. p. M. Munari, docente anch’egli nello Studio Biblico Francescano di Gerusalemme, eretto nel 2001 in Facultas Scientiarum Biblicarum et Archaeologiae della Pontificia Università Antonianum in Roma (allora Ateneo).
Matteo non dipende da Marco e da una fonte dei Loghia/Detti (Quelle = fonte), ma ha come fonte principale il Vangelo di Marco. Su questo, Matteo compie un’operazione da targumista. Tradusse e interpretò/coordinò i detti riportati in Marco.
Il targumista non è solo un traduttore in aramaico, ma un esperto di midrash e di approfondimento rabbinico. Approfondisce ed espande. Matteo traduce/parafrasa in greco la Bibbia ebraica. Egli è colui che cita più spesso e per esteso l’AT. Ci sono circa quaranta citazioni dirette e almeno una trentina di allusioni indirette.
Fra le quaranta citazioni, una decina sono “formule di compimento”. Questo mostra che, per Matteo, la Bibbia ebraica si compie nell’evangelo. Quando si compie, l’AT diventa tale, “antico”. Si attua in questo un particolare “circolo ermeneutico”.
Il progetto matteano è quello di ancorare il Nuovo Testamento nell’Antico, metterne in luce la reciproca corrispondenza. Non appare solo che la vita di Gesù è conforme alla Scrittura, ma che la stessa Scrittura è conforme alla vita del Messia che profetizza. In questo ancoraggio del Nuovo nell’Antico sta – secondo Mello – tutta la sapienza scribale di Matteo. Egli è uno scriba geniale, che trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche (cf. Mt 13,52).
Secondo Mello, il Vangelo di Matteo è un midrash di Marco. Lo scriba traduce e interpreta. Il targum è già un inizio di interpretazione, cioè midrash. Matteo riscrive un’opera analoga precedente, considerata autoritativa se non già canonica: il Vangelo di Marco. Questa riscrittura è un’operazione già compiuta nell’AT: Cronache è una riscrittura di Samuele e dei Re.
I procedimenti midrashici della rilettura matteana del Vangelo di Marco sono, per Mello, i seguenti:
1) Trascrizione (Matteo conserva 606 dei 661 versetti di Marco: la storia della passione è riprodotta parola per parola);
2) Omissione (Matteo omette pochissimo di Marco, rispetta profondamente l’autorità – forse anche petrina – di Marco);
3) Abbreviazione (Mt abbrevia del 20/30% i racconti ampi e ricchi di folclore di Mc);
4) Duplicazione (procedimento mnemonico rabbinico ben conosciuto);
5) Glossa (il caso dell’aggiunta in Mt 19,9 – «eccetto in caso di impudicizia» e in Mt 12,39 «se non il segno di Giona profeta»);
6) Espansione (la maggior parte del materiale aggiunto da Matteo va considerata un’espansione narrativa e parabolica di Marco; esempi sono le tentazioni di Gesù nel deserto e il materiale parabolico).
Matteo è un fine daršan, un esperto parabolista. Scopo della rilettura midrashica e parabolica di Marco è duplice: l’esortazione morale e la conciliazione teologica (specie sul tema della Legge).
Matteo vive anche delle tensioni: tra le posizioni radicali e quelle tradizionali verso la Legge; tra la missione a Israele e quella ad gentes; tra la giustizia di Dio che si manifesta nel giudizio e la sua misericordia verso tutti. Sono tensioni non risolvibili teoricamente: Matteo non scrive un trattato teologico; quel “di più” che resta sempre da dire non è esprimibile altro che in racconti e parabole. È questo il modo in cui Matteo cerca di conciliare esigenze spesso opposte.
Matteo offre di sé l’immagine di uno scriba sapiente, che sa armonizzare “cose nuove e antiche”, la novità dell’evangelo con i quadri tradizionali veicolati dall’AT e dal giudaismo. Le parabole di Mt sono le più rabbiniche di tutto il NT.
Secondo Mello, Matteo «non è un tradizionalista, ma non è neppure un “radicale”: è un uomo sereno, largo, saggio. Matteo è davvero un ḥakam [= saggio, ndr], anche se ha l’umiltà di non dirlo. Si presenta a tutti noi come un umile scriba che riscrive semplicemente l’Evangelo di Marco, eppure lo fa con tutta l’originalità e la creatività dello Spirito Santo» (p. 30).
Struttura del Vangelo di Matteo
Nella prima parte del suo Vangelo (Mt 1–11), Matteo è molto libero nei confronti di Marco, ma per il resto lo segue molto da vicino. Negli ultimi anni Mello ha approfondito di più la figura del Figlio dell’Uomo in Mt.
Lo studioso non condivide la struttura del Vangelo di Matteo elaborata da quanti vedono in esso l’alternarsi di cinque grandi discorsi e le narrazioni. Vari autori vedrebbero in ciò una imitazione del Pentateuco ebraico. Ma Mello osserva che anche Mt 11 e 23 sono dei discorsi…
Seguendo vari criteri di analisi narrativa, Mello scopre nel Vangelo quindici sequenze da disporre in uno schema concentrico, attorno al fulcro del c. 13 che parla del regno dei cieli.
Lo studioso constata inoltre come in Mt 1,1–2,23 si richiamino varie vicende di Genesi; i cc. 3–4 rimandano spesso all’Esodo; i cc. 8–9 trattano una materia riservata ai sacerdoti, legislazione presente in Levitico; il c. 10, il discorso di invio in missione, ricorda Numeri, con l’invio degli esploratori; il c. 11 rimanda a Deuteronomio, un libro con molti discorsi.
Mt 7 riscrive la Torà in senso messianico, cioè attualizzandola in Gesù Messia. Gesù non rimpiazza la Torà, ma la compie. Essa è talmente vera da realizzarsi pienamente in lui. Cambia però la prospettiva: «la Torà non è più sufficiente per sé stessa, ma è il Messia Gesù – Torà vivente – che le dà consistenza e fondamento (le-qajjem) realizzandola nella propria vita e in quella dei suoi discepoli. In questo modo, Matteo ha il merito teologico di aver salvaguardato la Torà mosaica, nel concerto di un messianismo primitivo che non le era del tutto favorevole… Per l’ebraismo messianico di Matteo, il pensiero della Torà è talmente spontaneo, è un riflesso così immediato, da uniformare tutta la vita di Gesù. E, proprio grazie al suo compimento nella vita di Gesù, la Torà diventa accessibile ed estensibile anche ai non ebrei» (p. 39).
Mello riporta un testo di D. Marguerat che ricorda come la dissociazione paolina tra legge e grazia – solo la grazia salva, non il comandamento – è inconcepibile per il pensiero giudaico e abbia falsato la lettura cristiana dei testi giudaici, intesi il più delle volte come depositari di una religione strettamente legalista, sprovvista di ogni percezione della grazia. «Al contrario – sostiene Marguerat –, l’ambivalenza della legge, simultaneamente grazia ed esigenza, precetto e dono salvifico, è un dato costitutivo della tradizione veterotestamentaria e giudaica. Matteo non se ne è scostato» (ivi).
I criteri di analisi seguiti da Mello sono sette: 1) Indicazioni di luogo; 2) Indicazioni di tempo; 3) Connessioni sintattiche; 4) Cambio di situazione; 5) Disposizione in serie; 6) Strutture parallele o concentriche; 7) Tema e motivi.
Lo studioso ricorda che un autore tende a unificare strettamente il testo (textus = tessuto) più che a suddividerlo…
Lo schema del Vangelo di Matteo proposto da Mello rinviene tre parti principali:
I Parte: La Torà del Messia (Mt 1,1–11,30)
II Parte: Il Regno dei cieli (Mt 12,1–16,12)
III Parte: Il Figlio dell’uomo (Mt 16,13–28,20)
Lo schema concentrico completo è il seguente:
a) La genesi del Messia (1,1–2,13)
b) Battesimo e tentazioni nel deserto (3,1–4,25)
c) Il dono della Torà (5,1–7,27)
d) Le opere del Messia (7,28–9,35)
e) L’invio dei Dodici (9,36–10,42)
f) Gesù profeta e maestro (11,1-30)
g) Il sabato di Gesù (12,1-50)
x) Parabole del regno (13,1-52)
g’) Il banchetto messianico (13,53–16,12)
f’) Necessità del molto patire (16,13–17,27)
e’) La legge del perdono (18,1-35)
d’) Sequela e ricompensa (19,1– 0, 34)
c’) Il Figlio di Davide a Gerusalemme (21,1–23,39)
b’) La venuta del Figlio dell’Uomo (24,1–25,46)
a’) Passione e risurrezione (26,1–28,20).
Il progetto teologico
Per quanto riguarda la teologia di Matteo, Mello si concentra su tre punti: la distruzione del tempio, Gesù Shekinà e il rapporto Chiesa-Sinagoga.
La distruzione del tempio
Il Vangelo di Matteo è stato scritto dopo la distruzione del tempio alla quale, secondo Mello, allude in cinque passi:
1) Nella parabola delle nozze regali Mt 22,7 introduce «fece perire quegli assassini e incendiò la loro città»;
2) Alla fine delle invettive contro gli scribi farisei parla del sangue innocente che cadrà «su questa generazione» (Mt 23,8) e Gesù cita Ger 22,5 «Ecco, la vostra casa vi è lasciata deserta» (Mt 23,38 che cita Ger 22,5, assente in Marco);
3) Nel discorso escatologico si precisa la locazione dell’abominio della desolazione: «Quando vedrete l’abominio della desolazione stare nel luogo santo», quindi nel tempio sconsacrato);
4) Un’allusione quasi certa vi è nel racconto della passione, quando “tutto il popolo” assume la responsabilità del sangue che sarà sparso: «Il suo sangue su noi e sui nostri figli» (Mt 27,25). «Questo è il presagio di una sciagura imminente e, quindi, l’attestato retrospettivo di un evento che storicamente si è già prodotto in quella stessa generazione» (p. 45);
5) È estremamente probabile che anche la “strage degli innocenti” (Mt 2,16-18) alluda discretamente agli eventi del 70, con una nota non più di accusa, ma di profonda compassione (il pianto di Rachele).
«Matteo, dunque, addebita la distruzione del tempio non ai romani che l’hanno effettuata – sostiene Mello –, ma agli ebrei che non hanno creduto al Messia; e non tanto perché abbiano rifiutato il Messia nella sua persona (questo, per così dire, sarebbe una colpa retroattiva), quanto perché hanno perseguitato i suoi inviati (cf. 10,17; 22,1ss.; 23,34s.)» (p. 45). Matteo polemizza con gli «scribi farisei» che «si sono seduti sul seggio di Mosè» (23,2), cioè i rabbini.
Matteo è testimone di una separazione sempre più netta fra ebraismo messianico ed ebraismo rabbinico. Quando si riferisce a quest’ultimo, parla sempre delle “loro” sinagoghe (cf. 4,23; 9,35; 10,17; 12,9; 13,54; “vostre”: 23,34).
Al tempo di Matteo è ancora possibile e necessario imparare, come dimostra lo stesso Vangelo: «fate quello che dicono» (cf. Mt 23,1-3). Verrà il tempo in cui questo non sarà più possibile.
«Matteo è un evangelo molto più “giudaico” di Marco. O meglio: è decisamente più rabbinico, ma non è più antico di Marco» (p. 46).
Matteo ha “rigiudaizzato” Marco, lo ha riscritto all’interno e per mezzo di categorie rabbiniche.
Come terminus ad quem della scrizione del Vangelo, si può pensare alla scrizione della birkat ha-minim, che però non si sa quando sia stata introdotta, o meglio, adattata in prospettiva anticristiana (forse nell’85 d.C. nel sinodo di Yavne).
Altre risposte alla crisi del 70 d.C. sono le opere apocalittiche IV Esdra e 2 Baruc.
Anche Matteo ha dei tratti apocalittici: è il solo autore del NT a usare l’espressione “fine del mondo”; è il solo Vangelo a usare il termine parousía (Mt 24,3; 27.37.39); è il solo a dare al termine “rigenerazione” (cf. 19,28) un significato escatologico; è il solo a parlare del “giorno del giudizio” (10,15; 11,22.24; 12,36).
Matteo è, insomma, «il più apocalittico degli evangeli – afferma Mello –; e la letteratura apocalittica, come sappiamo, è una letteratura della crisi, è una reazione alla “fine del mondo”. In breve, l’Evangelo di Matteo è la risposta messianica alla tragedia nazionale della distruzione di Gerusalemme e del tempio» (p. 47).
Gesù Shekinà
Il finale del Vangelo (28,18-20) è un luogo privilegiato per discernere il progetto teologico di Matteo.
«Io sono con voi» è una formula di alleanza che ricorda l’alleanza sancita (o “tagliata”) sul Sinai; nel discorso diretto diventa “con te” o “con voi” (cf. Dt 29,11.13). Matteo usa molto la terminologia dell’alleanza, a partire dal nome Emmanuele previsto per Gesù (Immanu’el in ebraico, Mt 1,23). Mt 1,23 e 28,20 costituiscono una grande inclusione.
L’evangelista usa molto anche la particella meta/ “con”: “io sono con voi”.
La vita di Gesù, nella sua durata storica, è lo spazio in cui si attua il passaggio dall’antica alla nuova alleanza. «Meglio ancora: la risurrezione di Gesù universalizza per “tutte le genti” (28,19) ed eternizza “tutti i giorni”, sino al termine della storia, l’esperienza di comunione vissuta da lui, “Dio con noi”, insieme ai suoi discepoli» (p. 48).
Gesù è lo sposo e i compagni suoi non possono essere afflitti fintanto che lo sposo è con loro (cf. 9,15). Tali espressioni «rimandano implicitamente all’esperienza pasquale, in cui la comunione nuziale con il Messia risorto permane indistruttibile, oltre la morte, e viene dilatata cronologicamente e cosmicamente ogni tempo e a ogni gente» (p. 49).
A conclusione dell’istituzione dell’eucaristia, il sacramento della comunione messianica, Gesù afferma: «Ma vi dico, d’ora in poi non berrò più di questo frutto della vite, fino a quel giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio» (26,29: “con voi” è, ancora una volta, clausola propria di Matteo. «D’ora in poi: il sacrificio di Gesù segna il passaggio dalla comunione storica visibile a quella invisibile e sacramentale, che rinova la memoria e la presenza, fino all’instaurazione definitiva del regno di Dio: comunione con Gesù non è se non comunione alla sua morte e alla sua risurrezione.
Dal linguaggio dell’alleanza si passa agevolmente a quello della presenza, dall’“essere con” all’“essere in” (cf. 18,20). Gesù afferma: «Là dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro». «Là dove si dà una comunione visibile (di due o tre), si attua una presenza – annota Mello –, che non è dello stesso ordine, ma è accordata ad esso. Matteo sta usando il linguaggio della Shekinà, la divina Presenza che, un tempo, dimorava nel tempio. Nel trattato Avot della Mishnà c’è un detto analogo, riferito alla presenza della Shekinà fra le persone che studiano la Torà. Matteo, invece, la identifica con la persona di Gesù. Il Signore Gesù è in mezzo a noi – ricorda sempre Mello –, e lo è per sempre: egli è la Presenza di Dio, il Dio con noi, la divina Shekinà».
È stato notato che la chiusura matteana rimanda a quella che chiude tutta la Bibbia ebraica, il brano di 2Cr 36,23. Ciro – che in Is 45,1 è chiamato Mašiaḥ, “Unto” del Signore – fa tre cose: proclama che ogni «regno della terra» gli è sato dato dal Signore, «re del cielo»; invita i giudei a salire a Gerusalemme per ricostruire il tempio del Signore, invoca su di essi la presenza di Dio («Il Signore suo Dio sia con lui, e salga»). Il primo e il terzo punto corrispondono perfettamente anche al testo di Mt 28,18.
Tutto questo accade come se Matteo volesse dirci che «il tempio è stato distrutto e non è più necessario ricostruirlo: la Shekinà di Dio, Presenza spirituale del Messia morto e risorto, accompagna il suo popolo dovunque esso vada. Il tempio è stato distrutto e, in questo, vi è una misura provvidenziale: la diaspora di Israele è finalizzata all’evangelizzazione dei pagani, i quali devono essere “battezzati” e “istruiti”: Matteo non fa neppure una mezza parola di quello che è il principale segno di distinzione fra ebrei e gentili, di quello che è stato il più grave problema di Paolo, la circoncisione. Vuol dire che, per lui, il problema non si poneva più, era già stato risolto. Il tempio è stato distrutto, e con esso è stato abbattuto il muro, il velo di separazione tra Israele e le genti (cf. 27,51). Non è più il tempio il luogo del raduno, la casa di preghiera “per tutte le genti” (espressione che Matteo omette in 21,13). Questo luogo ormai è un altro» (p. 51).
Chiesa e Sinagoga
Mello conclude l’Introduzione al suo commento (pp. 17-56) con un paragrafo dedicato a questo problema teologico molto importante (cf. pp. 51-55). Seguiamo da vicino la sua esposizione.
Matteo è l’unico evangelista a usare il termine “chiesa” (dal greco ekklesía = “convocazione”). Il termine ricorre due volte nel discorso ecclesiale (Mt 18,17[bis]) col significato di “assemblea locale” e una volta in un passo impegnativo, dove parla della “chiesa” del Messia (Mt 16,18 “… la mia chiesa) edificata sulla fede petrina.
Il termine ekklesía indicava nell’AT l’assemblea degli israeliti radunata nel deserto (cf. At 17,38) per entrare nel patto con Dio: è, dunque, un termine che appartiene al vocabolario dell’alleanza, ma, nello stesso tempo, denota un ritorno alle origini di Israele. Il termine greco impiegato dai LXX traduce l’espressione ebraica qahal, che designa l’assemblea liturgica del popolo di Dio: sia qehal Jiśra’el (cf. Lv 16,17; Dt 31,30), sia qehal JHWH (cf. Dt 23,2ss.).
Nell’interpretazione di Matteo è urgente interpretare correttamente i rapporti tra la “chiesa del Messia”, cioè quell’assemblea di ebrei e di gentili che si costituisce a partire dalla fede in Gesù quale Messia, e la sinagoga ebraica (le “loro” sinagoghe, come si esprime Matteo) che non condivide la stessa fede messianica. Nell’uso biblico dei LXX ekklesía-convocazione e synagoghé-raduno (ebraico: ‘edà) sono pressoché equivalenti.
Secondo Mello, gli esegeti di Matteo hanno uno strano modo di ragionare, fondato su due presupposti entrambi falsi, e per di più contraddittori. Da un lato, presumono che, nella “chiesa” di Matteo, le genti si siano sostituite agli ebrei; e, nello stesso tempo, affermano che la chiesa (di gentili) sia il “vero” Israele.
Schweitzer – di cui Mello riporta un breve citazione – ammette che la soluzione non è facile. Ma non è quella che vedrebbe la comunità [cristiana] diventare il nuovo Israele. Mai viene riferito a questa comunità il termine solitamente adoperato per il popolo eletto (laós). Anche l’espressione “comunità” si rifà sì al termine veterotestamentario “assemblea di JHWH” e già nei LXX viene usata anche in senso assoluto per Israele; ora tuttavia [il termine] non viene ripreso per significare che la comunità, anziché in Israele, sia da ricercarsi tra i pagani.
In Matteo non mancano passi difficili e anche duri verso Israele che non ha aderito al Messia. Ci sono testi che addebitano alla sua incredulità la distruzione di Gerusalemme e del tempio (cf. 22,7; 23,34s.; 27,25).
Ci sono soprattutto due testi su cui si fonda la cosiddetta “teoria sostitutiva” (dei gentili agli ebrei e della chiesa a Israele).
Durante l’incontro con il centurione pagano, Gesù dice: «Molti da oriente e da occidente verranno e si siederanno a tavola con Abramo e Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno gettati nella tenebra di fuori» (8,11-12). In queste parole vi è certamente un rovesciamento di prospettiva; quelli che attualmente sono “pochi” (i gentili”) saranno “molti” nel Regno, e viceversa quelli che credono di essere in “molti” si ritroveranno in “pochi” (gli israeliti). «Ma non significa – sottolinea Mello – che gli uni prendano il posto degli altri, tanto meno di coloro cui il Regno è destinato! I “figli del Regno” sono, infatti, i suoi primi clienti, i primi invitati e Dio è misericordioso anche con gli ultimi ma non è ingiusto con i primi (20,13-15)» (p. 53).
Alla fine della parabola dei vignaioli (cf. 21,43), si legge questa famosa parola: «Vi dico che a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a gente (éthnos) che farà i suoi frutti». Qualunque sia la soluzione esegetica adottata – ammonisce Mello – éthnos, al singolare, non si riferisce ai gentili (tà éthne) e non si sostituisce neppure a laós (“popolo di Dio”).
Osservazioni generali
Mello conclude la trattazione di questo tema decisivo con alcune osservazioni generali che riportiamo per esteso.
a) Matteo ragiona da ebreo, da un punto di vista ebraico. Una spia significativa è l’uso spregiativo del termine “gentile”, “pagano” (ethnikós: cf. 5,47; 6,7; 18,17; ebraico: goj) che è quasi il solo autore del NT a usare.
b) La chiesa di Matteo tende a demarcarsi dal giudaismo rabbinico, come ogni minoranza che cerca di definire la propria identità. Però, rimane ancora aperta ai contributi che le possono derivare da una simbiosi con l’ebraismo (cf. 23,3): il gap non è ancora totale.
c) La missione messianica verso Israele non è limitata al ministero storico di Gesù e soppressa dopo pasqua dal mandato missionario universale. «L’evangelista ha una doppia prospettiva» [cit. di G.N. Stanton] e il discorso missionario del c. 10 conserva ancora tutta la sua attualità.
d) In corrispondenza col punto precedente, si deve ammettere, dalla documentazione di Matteo e di altri scritti del NT, che c’è stato un rigetto giudaico dei missionari cristiani, che si è espresso in modi violenti e persecutori. Questo aiuta almeno a contestualizzare la polemica di Matteo.
e) Matteo si esprime in stile biblico, profetico. È vero che non scrive per i suoi oppositori, ma per la sua comunità, e questo indebolisce l’argomento. Ma anche ciò che scrive contro i suoi oppositori ha un valore parenetico per i cristiani. Il c. 23 è indirizzato agli stessi discepoli, non ai farisei!
«In conclusione – scrive Mello – vorrei riportare il giudizio sintetico di Stendahl: “Che Matteo fosse un ebreo, non può essere dubbio. Che abbia avuto un’educazione ebraica in Palestina prima della guerra è probabile. Che appartenga a una comunità ellenistica è ovvio. Che questa comunità includa dei gentili è sicuro. Che cosa fa tutto questo dell’evangelo? La testimonianza di una transizione dal giudaismo al cristianesimo assai più morbida di quanto non supponiamo comunemente” (K. Stendahl, The School of St Matthew and Its Use of the Old Testament, C.WK. Gleerup, Lund 1954).
Se la situazione matteana è ancora fluida, non permette sempre delle conclusioni del tutto univoche. Ma proprio per questo è preziosa, perché ci obbliga a ripensare molte cose. Matteo è il testimone di un grande sforzo, nella definizione dei rapporti tra chiesa messianica ed ebraismo rabbinico, nel I secolo. E Matteo è importante non solo per quello che dice, ma anche per quello che tace. Perché, non dicendo, lascia aperto il testo ad altri sviluppi» (pp. 54-55).
Il volume si conclude con una bibliografia molto selettiva (pp. 563-568): si distinguono i commentari, le opere generali, la questione sinottica, Matteo e il giudaismo, uso dell’AT, struttura e narratività.
Questo di Mello è un commentario originale per la sua prospettiva di attenta valutazione del retroterra giudaico della persona dell’evangelista e della chiesa matteana, pur costituita anche da molti gentili. L’autore è un grande esperto della letteratura rabbinica e questo costituisce un prezioso apporto a un commentario di un Vangelo che potrebbe correre il rischio di essere assunto in una prospettiva ermeneutica di taglio antiebraico. Invece, molte affermazioni di Matteo trovano paralleli e allusioni in testi e in concetti tipici dell’ebraismo rabbinico.
Alberto Mello, Evangelo secondo Matteo. Commento midrashico e narrativo. Nuova edizione riveduta e ampliata, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2025, pp. 576, € 36,00.





