
Un cartellone annuncia a Beirut la visita di Leone XIV (AP Photo/Hussein Malla)
Papa Leone arriva in un Libano prostrato dalla guerra e dalla spaventosa crisi economica: un Paese in ginocchio. Ma se delle guerre militari susseguitesi come un fiume dal 1975, quando iniziò la guerra civile, si parla sempre, anche in questi giorni, della guerra economica innescata nel 2019 poco si parla. Fu una scelta del nuovo Governo orientato dal partito khomeinista di Hezbollah, noto per la sua milizia, che per non piegarsi ad alcuni diktat del Fondo Monetario Internazionale dichiarò default.
Il Governo però presentò un disegno di legge per impedire la fuga di capitali, che non venne portato in votazione. La Banca Centrale, governata da 30 anni dalla stessa persona, fece pressioni perché si procedesse in questo modo e 14 miliardi svanirono in poche ore. Per evitare la bancarotta la Banca Centrale dispose, travalicando i propri poteri, il blocco di tutti i conti correnti in valuta straniera, quelli che ha ogni libanese che riceve una rimessa dall’ estero, cioè quasi tutti. La valuta crollò da un cambio a 1500 lire per un dollaro a un cambio a 100mila.
Poi giunse la distruzione del porto, il 4 agosto 2020, per l’esplosione di 2750 tonnellate di nitrato d’ ammonio custodite segretamente da Hezbollah nel porto commerciali: interi quartieri furono dichiarato inagibili. Poi giunse la guerra a bassa intensità dichiarata da Hezbollah, nella sua totale autonomia, a sostegno di Hamas. Ha prodotto i bombardamenti del 2024 e mezzo milione di profughi.
Ci si può abituare a tutto questo? È resilienza resistere a tutte queste avversità? Certamente sì, ma la docente di psicologia, l’accademica Mona Fayad, chiede ai libanesi di mettere in dubbio che sia giusto definirsi «resilienti» come popolo; i singoli certamente lo sono, ma questa resilienza individuale è sufficiente? Lei dice di no e la sua tesi ha molto a che fare con la visita di papa Leone.
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Per lei Hezbollah, partito confessionale che si comporta come uno Stato nello Stato non solo per la sua milizia ma anche per la sua televisione confessionale, per i suoi sussidi alle famiglie dei loro «martiri», per il clientelismo confessionale che in anni di governo ha creato, per il sistema finanziario confessionale, da tempo non è più un’anomalia, è diventata il modello imitato da tutti. Alla corruzione che ovviamente pre-esisteva si è aggiunta questa modalità che ha trasformato i potentati, i grandi clan o le grandi famiglie di questa o quella comunità in una cupola interconfessionale, e così il tentativo è impossessarsi di una comunità di fede per occupare lo spazio che le compete.
Tutti oggi riconoscono che il confessionalismo libanese così come è non va più: va riconosciuto che ha garantito, dopo una guerra civile durata 15 anni, che ci fosse una vera convivenza tra le 18 comunità libanesi, musulmane e cristiane; che lo Stato fosse laico; la dimensione di fondo islamo-cristiana. L’ idea precedente la guerra, assegnare con un patto non scritto la presidenza ai maroniti, la guida del Governo ai musulmani sunniti e quella del Parlamento ai musulmani sciiti, con un Parlamento costituito al 50% da cristiani e al 50% da musulmani, ha funzionato.
Ma ora si è inceppata perché sul sistema confessionale è stata creata una casta. Questo lo riconoscono in molti e si discute di come cambiare, aggiustare un meccanismo complesso. Le strade ci sono, ma per Mona Fayyad è importante partire dalla consapevolezza che c’è un velo che nasconde i veri problemi dei libanesi: questa velo nasconde la necessità di un’altra resilienza: «Boris Cyrulnik, lo psichiatra e neuroscienziato sopravvissuto alla Shoah, ci ha insegnato che la resilienza non si basa esclusivamente sull’ eroismo o sulla tenacia, quanto sulla capacità di ricostruirsi dopo un trauma attraverso la connessione umana». Così si ripara il tessuto interiore dell’individuo.
Insomma, non si tratta di «sopportare il dolore», come i libanesi fanno da 50 anni, quanto di trasformarlo.
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Ascoltandola mi sono ricordato che il Libano ha prodotto film di qualità, ma pochi, sulla sua terribile guerra civile.
Anche per queste convinzioni sta scrivendo un libro intitolato «Come pensa un libanese»: lei vorrebbe che aiutasse ad avviare una vera rivoluzione: quale? Quella per cui non si ci si adatta più a una disfunzione, meccanismo che crea strutture psicologiche fragili. Chi si adegua continua a soffrire senza ribellarsi. Le persone continuano a lavorare, a darsi da fare, ma vivono in uno stato di negazione collettiva, o in una sorta di scissione psicologica tra «vivere» e consapevolezza del disastro. È la rinuncia pubblica, l’idea che non sia perseguibile il bene comune. Chi emigra perché lo fa? Perché non ritiene possibile impegnarsi «per cambiare le cose».
In un articolo scritto recentemente ha fatto presente ai libanesi una notizia incredibile riportata solo da un giornale libanese in lingua francese: la rimozione di una statua enorme, del peso di 11 tonnellate, divenuta simbolo mondiale di Beirut sui media di tutto il mondo, opera del famoso Hadi Sy, che nel tempo della drammatica distruzione del porto, sulla quale mai si è potuto indagare, raffigurava un uomo che apre delle sbarre e compare, visibile, nello spazio che si è creato.
Quella statua è stata rimossa senza una delibera, senza informarne l’autore, portata nottetempo in un deposito per auto usaste: era il simbolo de desiderio di ribellione contro l’establishment, e per questo, ha scritto, è stata rimossa. Quell’uomo che compie lo sforzo enorme mi ha fatto ricordare la sua tesi su Sisifo. Da tanti ritenuto condannato a uno sforzo improbo e inutile, Sisifo venne trasformato da Albert Camus: «Sisifo continuò a spingere la roccia pur sapendo l’inutilità dello sforzo, perché la sua stessa consapevolezza costituiva l’atto di resistenza».
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Così lei vede i libanesi sospingere ogni giorno la pietra, ma senza la consapevolezza che la rende atto trasformativo. Guardando ai giovani e ad alcune loro nuove iniziative nutre però la speranza che qualcosa stia cambiando.
Il suo auspicio così è che il papa esorti a scrollarsi di dosso la rassegnazione, dando sostanza ai vagiti del nuovo. La grande rivoluzione che auspica è questa. È ben noto che Leone XIV ha parlato più volte della Rerum Novarum, «cose nuove» di quei tempi che oggi vanno aggiornate e calate nella nuova realtà. Sono «le cose nuove» quelle che servono ad aggiornare la convivialità libanese, il bene comune a musulmani e cristiani libanesi, di tutte le 18 comunità che lo costituiscono.
Così si camminerebbe sulla strada indicata da Giovanni Paolo II nel 1997, quando venne a Beirut per dire che «il Libano è un messaggio»; lo Stato del vivere insieme ha bisogno della bussola del bene comune, a partire dai cuori delle persone.






Il vaticanonon si e’ mai sforzato troppo a sostenere la comunita’ maronita. Molta comprensione invece per il mondo islamico.