
Varallo (foto di Chiara Guglielmina)
C’è una valle delle Prealpi piemontesi della quale recentemente hanno parlato giornali di tutto il mondo: la Valsesia, e in particolar modo la cittadina di Varallo. Ne hanno scritto tra gli altri la Süddeutsche Zeitung, Haaretz, il Corriere della Sera, La Stampa. L’oggetto di tanto interesse è l’insediamento, avvenuto nel corso degli ultimi anni, di diverse decine di famiglie provenienti da Israele. Il fatto che Israele sia al centro delle cronache mondiali comporta che su questi nuovi arrivati in Italia si concentri tanta attenzione. Per noi italiani gli aspetti interessanti della vicenda sono anche altri, primo fra tutti il fatto che, come tante nostre zone montane, anche questa valle è soggetta a un lento e progressivo spopolamento.
Qualche tempo fa mi è capitato tra le mani un articolo del quotidiano israeliano Haaretz dedicato alla Valsesia. Incuriosito da quanto letto, ho cercato informazioni in merito al “Progetto Baita”. Si tratta di un’iniziativa lanciata, qualche anno fa, da Ugo Luzzati. Quella parola (“Baita”) richiama alla mente l’idea della montagna, ma il significato vuole essere un altro. Il nome deriva da due termini: “Bàyit”, che in ebraico significa “casa”, e l’abbreviazione “Ita” che identifica il nostro Paese.
Tutto parte da Ugo Luzzati
Chi è Ugo Luzzati? Possiamo dire che è, allo stesso tempo, un emigrato e un immigrato. Nato a Genova, è cresciuto in Italia dove ha studiato ed ha assolto al servizio di leva. Poi è emigrato in Israele dove ha vissuto per 38 anni.
Luzzati in Valsesia tornava a passare le sue vacanze. Poi, pian piano, ha iniziato a passarci sempre più tempo, fino a quando, due anni fa, ha deciso di trasferirsi. In seguito, ha dato vita al progetto che ha fatto arrivare diverse decine di famiglie da Israele.
Lui ci tiene molto a precisare che i protagonisti del “Progetto Baita” non sono gli israeliani immigrati ma la comunità locale. «Tutto questo progetto, queste grandi cose che sono state realizzate negli ultimi anni – mi racconta – sono state possibili in questo posto particolare, perché Varallo, anche prima che arrivassero gli israeliani, è sempre stata una cittadina aperta agli stranieri». Qui ci sono tante altre comunità di immigrati: dal Sud America, dall’Africa, dall’Ucraina: tutte sono state accolte e hanno iniziato ad integrarsi nella società italiana.
«Noi israeliani siamo molto contenti dell’accoglienza ricevuta da parte della comunità locale – dichiara Luzzati –, inizialmente non capivo il motivo, ma poi, come si dice in ebraico, è caduta una monetina e finalmente ho compreso il segreto di Varallo» (“è caduto l’asimon (il gettone)” è un modo di dire tipico in Israele: significa che ciò che non riuscivi a comprendere, all’improvviso, riceve una illuminazione ndr).
Qui in Valsesia, stando alle parole del fondatore di “Baita”, l’immigrazione è arrivata a piccole ondate e si è ben integrata, perché considerata una risorsa.
D’altra parte, stiamo parlando di un territorio prealpino che, come tutte le zone di montagna, soffre della tendenza allo spopolamento. Nascono pochi bambini, quindi le scuole chiudono. I giovani si spostano per cercare opportunità di lavoro altrove. Essendoci meno abitanti, si contraggono i servizi e questo, a sua volta, fa sì che le persone siano meno invogliate a restare.
«Con questo fenomeno dello spopolamento non solo si perdono i “numeri” (le persone), ma si perdono anche le intelligenze e le forze lavorative, perché i negozi chiudono e non c’è ricambio generazionale; e i servizi praticamente si estinguono».
Il segreto del «Modello Varallo», come lo chiama Luzzati, è basato, in primo luogo, sul fatto che la popolazione locale ha una lunga storia di emigrazione, in particolare verso la Francia e il Nord Europa. Queste radici hanno fatto sì che i residenti italiani abbiano sviluppato una spontanea apertura all’accoglienza.
«Qui gli abitanti non vedono negli immigrati un problema – commenta Luzzati – ma riconoscono in loro esseri umani, e perciò cercano di aiutarli al loro arrivo»: questo approccio, seguendo il suo ragionamento, fa sì che tra i nuovi arrivati si sviluppi una forma di riconoscenza che favorisce l’integrazione loro e quella delle seconde generazioni.
Un altro punto molto importante consiste nel non abbandonare la cultura di origine e le proprie tradizioni. «Questo l’ho imparato in Israele – dice Luzzati –, non negare la cultura di origine e le vecchie tradizioni, perché poi è una cosa che si ripercuote sulle nuove generazioni che, sentendo la mancanza delle proprie radici, alla fine rifiuterebbero la cultura italiana».
Il tema dell’educazione è centrale nel ragionamento di Luzzati:
«Prima di tutto bisogna fare un’opera di educazione, far capire che dobbiamo essere pragmatici, far comprendere alla gente italiana che non abbiamo tanto da scegliere se vogliamo minimizzare i danni dell’invecchiamento e la mancanza di nuove generazioni. Anche perché in natura non esiste il vuoto: non si può pensare che qui si spopola e rimanga tutto vuoto».
I passi dell’inserimento
Questa attenzione per l’educazione si è tradotta, a Varallo, in una serie di iniziative concrete. Al fine di favorire l’integrazione, è stato avviato un corso di ebraico: quindici italiani hanno completato la prima serie di lezioni e, a grande richiesta, è stato avviato un secondo anno. In biblioteca, inoltre, è stata aperta una sezione di ebraico che ha contribuito a rivitalizzare l’attività di prestito bibliotecario. Ugo Luzzati insiste sul fatto, dunque, che gli israeliani qui immigrati sono solo una parte della storia, ma che la vera protagonista della vicenda è la comunità di Varallo.
È però inevitabile puntare i riflettori su queste persone arrivate da Israele. Si tratta di 50 famiglie residenti. Un’altra cinquantina non si è ancora traferita definitivamente, ma ha acquistato una seconda casa. Già questo ha un impatto notevole sull’economia locale. Le famiglie che arrivano acquistano immobili spesso abbandonati e li ristrutturano. Quest’opera di riqualificazione edilizia ha dei benefici immediati sulle attività artigianali ed economiche locali.
Ma la ricaduta è anche sulla scuola. Le nuove famiglie arrivate da Israele hanno in media tra i 30 e i 50 anni di età. Luzzati mi ha fatto notare che queste famiglie hanno portato qui più di 70 bambini che, con il loro inserimento scolastico, garantiscono una boccata d’ossigeno per le scuole locali. Il drastico calo delle nascite, come ben sappiamo, comporta il rischio di chiusura e l’accorpamento delle sedi scolastiche.
Gli israeliani che arrivano qui sono, in gran parte, in età lavorativa. Molti di loro praticano lo smartworking con Israele ma qualcuno, al netto delle difficoltà della lingua, inizia ad inserirsi già nel mondo del lavoro italiano. Sono persone con un elevato livello di istruzione, alcuni di loro sono medici che, fruendo di un bando della Regione Piemonte che risale al tempo della pandemia, hanno potuto inserirsi nel Sistema Sanitario Nazionale. Negli anni del Covid era stata infatti prevista la possibilità di assunzione di personale in deroga: in pratica, si poteva iniziare a lavorare in attesa della conclusione del lungo processo di riconoscimento dei titoli di studio. Grazie a tale deroga, tre medici israeliani hanno iniziato a lavorare, altri stanno per aggiungersi. Questo non è un dettaglio insignificante se pensiamo alla drammatica mancanza di medici che affligge, in particolar modo, le zone di montagna.
E il permesso di soggiorno? Molti degli israeliani arrivati qui in Valsesia sono avvantaggiati dal fatto che, almeno una persona in famiglia, dispone di un passaporto di un Paese europeo, ereditato da qualche nonno romeno, polacco, lituano, austriaco, tedesco.
Ci sono anche israeliani che hanno ottenuto, negli ultimi anni, un passaporto portoghese o spagnolo. I due paesi della penisola iberica qualche anno fa hanno deciso di concedere il passaporto ai discendenti degli ebrei cacciati nel 1492! E molti israeliani hanno approfittato della occasione.
Alcuni di questi nuovi immigrati hanno, invece, un permesso di soggiorno per residenza elettiva o la “carta blu” (ovvero un permesso di soggiorno europeo per lavoratori extracomunitari altamente qualificati).
Ci sono poi famiglie che, avendo solo il passaporto israeliano, hanno ottenuto la protezione internazionale sussidiaria – quali rifugiati – dopo lo scoppio della guerra che è seguita alla tragedia del 7 ottobre.
Perché se ne vanno da Israele?
Le famiglie israeliane trasferitesi in Valsesia ci tengono a non essere etichettate. Sarebbe facile scivolare nella retorica e classificarle come un gruppo di dissidenti. Ma non sono questo e non vogliono essere confuse in questo modo. E non vogliono nemmeno essere identificate con lo stereotipo dell’ebreo religioso ortodosso.
Sono persone laiche, con un livello di istruzione medio-alto che, ad un certo punto della loro vita, hanno deciso di trasferirsi in Italia, alla ricerca di una situazione di vita più tranquilla, serena, nel mezzo della natura delle Prealpi.
Tuttavia, essendo così numerose, viene spontaneo chiedersi quale sia il denominatore comune che collega le loro esperienze. «La brava gente sta scappando ora da Israele, ma non solo verso l’Italia – racconta Luzzati esprimendo la sua opinione personale –, è un fenomeno che è iniziato alcuni anni fa, ben prima del 7 ottobre. Poi, dopo quella data, semmai, il fenomeno è cresciuto ancor più».
Dalle parole del mio interlocutore traspare tutta l’amarezza e il dispiacere di chi ha dovuto lasciare il proprio Paese. Ma il giudizio è molto severo:
«Questo governo sta facendo un colpo di Stato che è in atto già da due o tre anni. Dopo qualche mese dall’insediamento, ha annunciato una riforma giudiziaria che annulla la separazione dei poteri. Molti stanno ancora combattendo con dimostrazioni e proteste, e sempre più persone capiscono che non c’è, però, niente da fare, che non c’è più nessuna possibilità di recupero per la democrazia. Purtroppo, ciò che sta avvenendo è una tragedia nella storia dell’umanità; così come la fondazione di Israele fu un episodio fondamentale della storia mondiale, allo stesso modo questa sua caduta è un altro passaggio di portata storica».
Le parole che usa Luzzati sono proprio queste «caduta», «fine della democrazia», «fenomeno irreversibile». Quando Luzzati parla esprime il suo parere personale, ma fa un forte effetto sentirsele dire da un israeliano che, per quasi 40 anni, ha vissuto in Israele.
«La società israeliana è molto ideologica e compatta. È sempre stato un Paese sostenuto da un ideale, da una narrativa comune e collettiva, nel bene e nel male. Questa narrativa, da una parte, può essere un cemento, un elemento di coesione per creare una società migliore nella quale le persone si sostengono; dall’altra parte, però, può essere anche un’ideologia che ti impedisce di pensare con la tua testa. Se le cose cambiano, come è accaduto negli anni, è difficile vedere i cambiamenti se sei dentro a questa narrativa».
L’idea di emigrare da Israele non è così scontata, o perlomeno non lo era sino a pochi anni fa. «Fino a tre anni fa le persone che emigravano da Israele erano considerate molto male dai familiari, dai parenti, dagli amici. La gente si vergognava di coloro che pensavano di andare via. Oggi invece, dopo quello che è successo con la guerra e lo scontro politico, non è più un tabù parlare di emigrazione da Israele».
Questa inversione di tendenza – descritta da Luzzati – è confermata dalle cifre: un recente rapporto presentato alla Knesset ha rilevato che 82.000 israeliani hanno lasciato il Paese nel 2023, e la stessa cifra è stimata sul 2024. Il numero di israeliani che lasciano il Paese è più che raddoppiato poiché, nel decennio precedente, la media annuale era attorno ai 40.000.
Non si tratta di un fenomeno passeggero bensì, al contrario, di una scelta radicale. «Danny Zaken, un alto funzionario del National Insurance Institute, ha segnalato un aumento drammatico del numero di israeliani che vivono all’estero e che negli ultimi anni hanno richiesto di annullare il loro status di residenza israeliana, solitamente il segno che non hanno intenzione di tornare nel Paese», così scriveva, alla fine di novembre, il quotidiano israeliano Haaretz. Le richieste di rinuncia alla residenza si aggiravano, storicamente, attorno alle 2.500 all’anno. Nel 2024 sono arrivate alla cifra record di 8.400.
In base al rapporto della Knesset, «la maggior parte degli israeliani emigrati dal 2023 sono giovani e altamente istruiti» e «una quota sproporzionatamente grande di loro proviene dall’area metropolitana di Tel Aviv».
In quell’articolo, il quotidiano israeliano, commentando i dati del rapporto, riportava le parole del deputato Vladimir Beliak, secondo il quale «le persone che se ne vanno sono quelle che hanno più opzioni e che maggiormente contribuiscono al bene del Paese, quindi sono certo che questa emigrazione sta causando miliardi di shekel all’anno di danni all’economia. Se non mettono fine a questo “tsunami”, presto scopriranno che le persone migliori del Paese se ne sono andate».
Il “Modello Varallo”
Indubbiamente l’immigrazione da Israele verso la Valsesia è qualcosa di molto peculiare sia per i motivi sociodemografici riportati, sia per le particolarità del titolo di soggiorno in Italia. Tuttavia, come racconta Luzzati, il “Modello Varallo” è qualcosa di replicabile ovunque.
Un insegnamento che – come italiani – possiamo trarre sta nell’approccio pragmatico praticato, che vede nei migranti una risorsa fondamentale. «Secondo me – commenta Luzzati –, qualsiasi tipo di persona che arriva, se la sai valorizzare bene, è una miniera d’oro per i molti posti che si stanno spopolando. Io sono convinto che noi geneticamente siamo tutti uguali, in qualsiasi parte del mondo, siamo tutti costruiti esattamente uguali, quindi abbiamo tutti lo stesso valore».
Accoglienza, educazione e rispetto delle tradizioni, il tutto condito da una dose di sano pragmatismo. Questa è la ricetta che può sintetizzare il “Modello Varallo”.
Ma, forse, c’è qualcosa di più. Dall’esperienza della Valsesia, a mio parere, possiamo trarre un insegnamento che sconfina nel “biblico”. Qualcuno, raccontando questa esperienza, ha accostato la valle piemontese ad una nuova “terra promessa”: un titolo sicuramente ad effetto ma che, secondo me, non coglie la vera essenza di questa esperienza migratoria.
In realtà, secondo me, il “Modello Varallo” ci insegna che, sul nostro pianeta, la terra promessa è in qualsiasi posto dove c’è accoglienza e le persone diverse possono convivere in pace e in armonia.





