Modena-Reggio E.: l’Università “apre” in carcere

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Il 27 novembre la Università degli studi di Modena e Reggio Emilia (UniMoRe) ha organizzato la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico all’interno della Casa Circondariale Sant’Anna, a Modena. Un evento raro a livello nazionale, unico per l’Ateneo modenese (e reggiano), frutto del lavoro intenso e sinergico di tre interlocutori fondamentali: la commissione per il dialogo tra il carcere e l’Università (coordinata dalla prof.ssa Susanna Pietralunga), la sezione educativa del carcere (nella persona della dott.ssa Nicoletta Maria Saporito) e la sezione di custodia (sotto la guida del comandante Massimo Bertini e del direttore Orazio Sorrentini).

Alla presenza di vari direttori e professori dei Dipartimenti di UniMoRe e delle rappresentanze comunali e religiose di Modena, sono intervenuti, nell’ordine: il magnifico rettore Carlo Adolfo Porro, il direttore del carcere Sorrentini, il comandante Bertini, Silvio Russo, studente di Geologia detenuto, e infine la prof.ssa Pietralunga, a cui è spettata la prolusione ufficiale d’inizio anno accademico, dal titolo «Evoluzione storica della pena: dal pubblico supplizio alla risocializzazione. Il ruolo dell’Università».[1]

Due grandi convergenze. La prima riguarda la bontà di un lavoro più volte definito «sinergico», pur nella difficoltà di costruire un vocabolario comune tra due istituzioni che non parlano lo stesso linguaggio, cioè Università e carcere. Vi sono alcuni protocolli di intesa già vigenti, ma per lo più è territorio inesplorato. E quando ciò accade, molto è lasciato alla buona volontà (un po’ pioneristica) delle singole persone. Lo sforzo sinergico è andato a buon fine. Per i nove detenuti regolarmente iscritti a UniMoRe, grazie all’intervento di ER.GO. (Azienda regionale per il Diritto agli Studi Superiori dell’Emilia Romagna) e a una decisione ad hoc dell’Ateneo, le tasse e i costi per il materiale di studio sono stati azzerati. È stata messa a disposizione una postazione computer all’interno del carcere e si lavora per ottenere spazi un po’ silenziosi e isolati per poter studiare.

La seconda mette a fuoco il ruolo emancipante, di «ascensore sociale» e – aggettivo che bisogna usare col contagocce quando si parla di carcere – liberante della formazione culturale personale. La pena detentiva può essere vista con altri occhi se c’è concretamente la possibilità di studiare, di crescere umanamente e professionalmente. Si può andare davvero incontro, in questo modo, alla funzione rieducativa della pena, tanto auspicata dalla nostra Costituzione. E, in questo modo, senza illudersi eccessivamente, rendere il carcere un pelo meno contraddittorio.

Una considerazione personale. Il 1° ottobre 2017 papa Francesco, parlando agli studenti di UniBo, definì l’Università «laboratorio di umanesimo».[2] Per costruire umanità è necessario sperare nel futuro. Rendere possibile, incoraggiare e accompagnare il percorso di studi universitari e superiori a persone detenute in carcere significa davvero despundere spem, come recita il motto degli agenti penitenziari: custodire la speranza. Il gesto di inaugurare l’anno accademico all’interno di un carcere, mettendo in luce collaborazioni preziose e a volte vistose contraddizioni, assume un significato simbolico importante: lo studio e la formazione sono dimensioni incluse, sempre aperte a tutti, anche a chi sta vivendo la privazione temporanea di alcuni diritti civili.

Da un lato si tratta di un gesto della società «fuori» assolutamente necessario per dare futuro alla società «dentro». E, al tempo stesso, l’iscrizione di alcuni detenuti ai corsi universitari, celebrata ufficialmente con la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico, contribuisce a dare significato, a ricordare l’effetto davvero umanizzante e socialmente emancipante dello studio.


[1] Prolusione anno accademico 2024-2025 UniMORE (video integrale)

[2] Papa Francesco, Discorso agli studenti di UniBO, 1 ottobre 2017.

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