Il potere assoluto e fragile di Maduro

di:

maduro

I checkpoint rallentano il traffico nell’Avenida Quinta Crespo, distante due chilometri dal Palacio de Miraflores. L’aria è densa, quasi piombo, vista la situazione politica. Ogni macchina viene fermata, conducenti e passeggeri sono minuziosamente perquisiti. Controllati anche gli smartphone: le guardias perlustrano chat, chiamate, cronologia di navigazione. Non c’è privacy che tenga. Può bastare un singolo messaggio contro il regime per subire un fermo di polizia. C’è chi se la cava allungando una mazzetta al poliziotto di turno. Il prezzo viene pattuito in pochi secondi: dieci, venti, cinquanta dollari. Niente valuta locale: nell’ultimo anno il Bolìvar si è svalutato di oltre il 30 per cento rispetto al dollaro, cadendo quasi in disuso.

Giunti a un chilometro da Miraflores i controlli diventano più serrati. C’è un checkpoint ogni cento metri circa, scandendo gli angoli con Avenida Este 12, Avenida Lecuna, Avenida Oeste 8 e altre parallele. Poco più di vent’anni fa, proprio da quelle strade, è passato l’ultimo corteo di massa verso Miraflores. Erano i tempi del «Paro Petrolero» e del fallito Golpe militare del 2002 che era quasi costato la vita dello stesso Hugo Chávez Frìas. Questa volta la situazione è ben più grave e il regime di Nicolàs Maduro, che non vanta lo stesso sostegno popolare del predecessore e vuole insediarsi senza sorprese venerdì 10 gennaio a Miraflores.

L’intero Paese è militarizzato e l’esercito gioca d’anticipo ostacolando le vie con carri armati, picchetti e transenne. Oltre 150 manifestazioni si sono tenute solo ieri a Caracas e fra poche ore le persone potrebbero tornare in piazza. Tuttavia, nessuno è al sicuro. Nemmeno la leader, Maria Corina Machado, dopo che ieri è circolata la voce di un arresto lampo ai suoi danni da parte di un gruppo di sconosciuti.

Le informazioni sono state rese note dall’account X @ComandoConVzla, ma non sono state confermate da altre fonti. In Italia Corriere della Sera, Ansa e altri mezzi di comunicazione le hanno comunque rilanciate, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha reagito con sdegno.

Tuttavia non siamo in grado di verificare cosa sia veramente accaduto a Chacao, mentre la leader dell’opposizione rientrava dal corteo scortata da un gruppo di motociclisti che la protegge già da mesi.

La stessa Machado ha poi assicurato che interverrà quest’oggi per chiarire i fatti e fornire le indicazioni per una stagione che si preannuncia tesa all’interno del Paese. Ne deriva però un problema: nella confusione di queste ore, l’opinione pubblica non sa più cosa sia vero, falso, verosimile. E questo non può che favorire la permanenza di un regime assai scaltro nello sfruttare la confusione e la conseguente litigiosità dei suoi rivali. Tant’è che Maduro si insedierà oggi, a scanso di sorprese, mentre le opposizioni sperano in un miracolo.

Il sostegno a Maduro

Finora il delfino di Chávez ha retto bene la pressione, silenziando il dissenso interno e facendo orecchie da mercante alle pressioni giunte dalle Nazioni Unite, dall’Organizzazione degli Stati americani e dai Paesi occidentali o sotto la sfera di influenza atlantista.

E questo grazie anche al sostegno silente, ma mai venuto meno, di Pechino e Mosca: tra i pochi a riconoscere la vittoria di Maduro alle elezioni del 28 luglio. Ciascuno vanta un credito di circa 3 miliardi nei confronti del Paese sudamericano. Non manca il sostegno di potenze minori, come Cuba, Iran, Turchia e Nicaragua: alleanze che si fondano sull’intento comune di aggirare le sanzioni.

Questi ultimi saranno presenti alla cerimonia di venerdì già convocata dall’Assemblea nazionale presieduta da Jorge Rodríguez, che ha denunciato il tentativo delle opposizioni «di sovvertire la pace della Repubblica».

È tutto pronto, quindi, con la capitale blindata, i militari nelle strade e gli invitati che rispondono all’appello. Hanno declinato l’invito invece gli ambasciatori dei 27 Stati appartenenti all’UE, i quali non parteciperanno alla cerimonia di insediamento per il nuovo mandato di Maduro.

Così è stato stabilito all’ultima seduta di lavoro congiunto tra gli Stati europei e quelli latinoamericani (COLAC), lo scorso 19 dicembre dopo la quale l’UE ha rilasciato una nota congiunta esprimendo la propria «preoccupazione per la situazione in Venezuela» rinnovando la richiesta di liberazione dei prigionieri politici – circa 1.800 al momento – e impegnandosi ad adoperare «tutti gli strumenti a disposizione per sostenere la democrazia e una transizione pacifica e inclusiva nel Paese».

Tuttavia, anche l’UE si tiene lontana dalla faziosità interna nel Paese, evitando di schierarsi apertamente con Edmundo González Urrutìa, il leader dell’opposizione a Maduro. Decine di Paesi, tra cui l’Italia, contano sulla presenza di un ambasciatore a Caracas mentre l’Unione conta su un’incaricata per gli affari, Antonia Calvo Puerta, dopo l’espulsione dell’ambasciatrice UE nel 2021.

E c’è già chi consiglia ai propri concittadini di non viaggiare in Venezuela nei giorni più caldi, come i Paesi Bassi in una nota diramata dal ministero degli Esteri che ha sottolineato l’instabilità permanente del Paese «dopo le elezioni presidenziali» dello scorso luglio, avvertendo che «la violenza può scaturire durante proteste e manifestazioni» e possono verificarsi «anche detenzioni arbitrarie».

Molte zone del Paese sudamericano sono contrassegnate con il codice rosso, comprese alcune aree della capitale e i confini con Colombia e Brasile. Nelle ultime ore si sono registrate anche le relazioni diplomatiche tra Caracas e l’Asunción, la capitale del Paraguay, dopo le dichiarazioni rilasciate dal presidente guaranì Sebastian Pena, a sostegno del ex-candidato presidenziale González Urrutia. Lo ha comunicato il ministro degli affari esteri venezuelano Yvan Gil annunciando il «ritiro immediato dell’ambasciatore venezuelano» in Paraguay e rifiutando le dichiarazioni di Pena, accusandolo di «ignorare il diritto internazionale» e di sottoporre la propria politica estera «agli interessi di potenze straniere».

In risposta, il Paraguay ha dato 48 ore all’ambasciatore venezuelano, Ricardo Cappella, per lasciare il Paese. Anche il Cile ha ritirato il proprio ambasciatore, ribadendo la sua contrarietà alla «frode elettorale» perpetrata da Maduro lo scorso 28 luglio. «È stato deciso di porre fine alla missione dell’ambasciatore in Venezuela, il signore Jaime Gazmuri», ha comunicato il Ministero degli Esteri cileno. Analoga situazione si verifica con Argentina ed Ecuador, con cui Caracas ha rotto le relazioni dal mese di agosto.

Le nuove proteste

La calma apparente potrebbe prima o poi spezzarsi. Maria Corina Machado ha convocato nuove proteste un giorno prima dell’insediamento di Maduro. «Qui nessuno si tira indietro: scendiamo in piazza, da fermi non otterremo il cambio», è stato l’appello alla popolazione: «Maduro non andrà via da solo, ma bisogna farlo uscire con la forza di un popolo che non si arrende mai».

Secondo i sondaggi di Meganalisis, la leadership di Machado riscuote la fiducia dell’80 per cento dei venezuelani, ma questo non basta a rendere efficace il suo appello alla mobilitazione visti i traumi delle ultime esperienze.

La più recente è stata nella notte del 28 luglio quando il regime ha sedato le proteste nel giro di poche ore con un bilancio di 30 morti e 2.400 prigionieri politici. Da allora è più facile vedere proteste dell’opposizione a Milano e Madrid anziché a Caracas. «Nessuno cederà, nessuno negozierà la libertà», ha detto Machado, che sostiene di vedere minacciata anche la propria incolumità: «Se dovesse accadermi qualcosa il mio team sa cosa fare», ha assicurato la leader dell’opposizione.

«Se il popolo non scende in piazza sarà un’occasione persa per tutto il Paese», ha commentato Rafael Espinoza, venezuelano residente all’estero, aggiungendo che «bisogna giocarsela fino in fondo, altrimenti consegneremo il Paese a Maduro e alle mafie che lo presidiano».

Ma non tutti rispondono all’appello, specie chi si trova dentro i confini venezuelani sperimentando un senso di abbandono negli ultimi mesi. «Ci cercano soltanto quando fa comodo a loro», ha detto Marìa Azuaje, già coordinatrice di seggio per le opposizioni durante le ultime elezioni. «Mi hanno già telefonata dicendo che siamo sotto sorveglianza – ha commentato riferendosi ai militari –. Non vorrei ripetere la stessa esperienza di qualche mese fa. Noi siamo scesi in piazza e stiamo ancora pagando lo scotto: dov’erano i leader? Direi che ora tocchi a loro e ai militari, che hanno lucrato sulla crisi».

Il regime a sua volta ha convocato una manifestazione lo stesso giorno, il 9 gennaio, a sostegno di Maduro. Lo ha fatto sapere il numero due del chavismo Diosdado Cabello, riferendo la presenza di «125 mercenari arrestati» perché accusati di «terrorismo». Il folto gruppo di detenuti sarebbe interamente di provenienza straniera e vi figurava anche un cittadino italiano, recentemente liberato secondo la Farnesina. «Noi garantiremo la pace», ha esclamato Cabello, minacciando però le opposizioni: «Non ci provate. Vi schianterete, saremo implacabili».

Le strutture alberghiere situate tra l’avenida Francisco Solano, calle real de Sabana Grande, Avenida Casanova e Colinas de Bello Monte di Caracas sono state setacciate dal Servicio bolivariano de inteligencia (SEBIN) e la Direcciòn general de contra inteligencia militar (DGCIM). Sorvegliate anche le aree interne del Paese e i confini terrestri, soprattutto con a ovest con Colombia e a est con Guyana.

Ma neppure i militari se la passano bene a Caracas, dove si registrano centinaia di diserzioni. Più per la crisi economica che per ragioni politiche. «Qui vivono bene soltanto gli alti ranghi. Se un soldato raso vuole sopravvivere deve cavarsela con altre entrate, che spesso coincidono con gli interessi della criminalità organizzata», racconta l’ex-militare Daniel Gonzàlez aggiungendo che «a questo punto anche il soldato preferisce andar via ed emigrare altrove».

Il più grande dietrofront è quello rappresentato dai Colectivos, che sono i gruppi armati costituiti da Hugo Chávez nei primi anni duemila con lo scopo di difendere la Revoluciòn anche a discapito delle Forze armate se necessario. Secondo Infobae, soltanto tre gruppi di Colectivos hanno risposto alla convocazione di Valentín Santana, che aveva chiamato a rassegna le decine di bande presenti attive nei Barrios di Caracas.

Mancavano all’appello personalità importanti, come Jorge Navas portavoce del Frente de Colectivos Sergio Rodrìguez; non c’era neppure Nahum Jephte Fernández Molina, capo di governo di Caracas. E alcuni cominciano a smarcarsi, dicendo «la maggior parte di noi non dipende dalla rivoluzione» osservando che «già nel 2018 molte organizzazioni di base e colectivos erano contrarie alla rielezione di Nicolás».

«Facevamo già la fame e la crisi economica si acuiva, mentre loro si arricchivano» ha aggiunto uno di loro mentre ricorda «a convincerci è stato Jorge Rodríguez che ci ha chiesto un voto di fiducia, promettendo il coinvolgimento popolare nelle scelte di governo», ma in realtà «Nicolás e Diosdado si sono presi gioco di noi». E ancora: «Questa non è più rivoluzione, ma un’oligarchia che si nutre di ciò che abbiamo sempre criticato». Ma i colectivos che restano dentro sono quelli disposti a uccidere pur di conservare il proprio potere. È il caso di Dernier Mendoza, che opera a contatto con i gruppi criminali che presidiano le carceri del Paese.

Gonzàlez, il presidente errante

Nel frattempo Edmundo González Urrutia, su cui pende una taglia di 100mila dollari posta dal regime di Caracas, lancia un appello ai militari facendo seguito all’appello lanciato in un primo momento da Machado. González ha diffuso un videomessaggio presentandosi alle Forze armate come presidente eletto «per la sovranità del popolo», chiedendo di essere assistito nell’«assumere il ruolo di comandante in capo».

Non è mancata la risposta del ministro della Difesa, il generale Padrino López, che ha bollato le dichiarazioni di González «politicanti e deprecabili», declinando ogni tentativo di «sovvertire l’ordine costituzionale».

Il tempo sta scadendo, per tutti, ma il leader dell’opposizione spera nel miracolo. È già stato a Buenos Aires, Montevideo, Washington e in altri Paesi riscuotendo l’endorsement dei governi alleati. Il più significativo è stato quello del presidente uscente Joe Biden, con il Congresso USA che ha ratificato il sostegno all’ex-candidato.

González Urrutia si è anche riunito con il senatore Rick Scott e il congressista Mario Dìaz-Balart, ma il resto della sua agenda è stata cancellato dopo che l’ex-candidato oppositore ha appreso la notizia del rapimento di suo genero, Rafael Tudares, a Caracas lo scorso 7 giugno. Il sequestro di persona è stato subito attribuito al regime, lo ha condannato anche il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani, che ha scritto su X: «Si tratta dell’ennesima violazione dei diritti fondamentali. Chiediamo la sua immediata liberazione e continuiamo a lavorare affinché il Venezuela intraprenda un cammino di libertà».

Gonzàlez è subito volato in Panama, ultima tappa del tour de force nelle Americhe, ma si guarda bene dal dire se da lì si sposterà direttamente in Venezuela.

Un’opposizione debole

Le cose potrebbero cambiare con il ritorno di Donald Trump, che dopo l’esperienza Guaidò non si fida più dell’opposizione venezuelana. Trump, infatti, non ha ricevuto González Urrutia durante la sua visita negli Usa.

Qualche anticipazione è stata offerta dal senatore repubblicano Bernie Moreno, che sembra non avere dubbi sul nuovo indirizzo USA: «Trump lavorerà con Maduro, che è colui che si insedierà alla presidenza: i nostri interessi consistono in porre fine all’immigrazione illegale e contrastare il traffico di droga».

González assicura che tornerà nel Paese accompagnato da una delegazione di nove ex-presidenti latinoamericani, tra cui i messicani Vicente Fox e Felipe Calderón.

«Vi stiamo aspettando – ha commentato ironicamente Cabello rivolgendosi agli ex-presidenti –. Nessuno vi ha invitato. La vostra presenza qui indica un’azione di invasione in un Paese. Sarete pertanto detenuti e messi a disposizione della giustizia venezuelana». Colpisce che il discorso del chavismo sia al momento monopolizzato da Cabello, mentre Maduro rimane silente, in disparte; quasi mero esecutore di una manovra di interessi ben più grandi, quelli dei vertici militari, che con la rivoluzione hanno riscosso un potere incontrastato nel Paese.

Tutto molto simbolico, ma privo di presa sulla realtà. Anche se l’opposizione scarta un eventuale insediamento fuori dai confini del Paese, la promessa di González ha già cominciato a subire sottili metamorfosi nel passaggio dall’idea alla realtà: non più l’insediamento imminente il 10 gennaio, ma il 10 gennaio come inizio di una nuova tappa. È vero: quelle elezioni le ha vinte con il 67 per cento dei voti a suo favore. Lo dimostrano i verbali di scrutinio, lo confermano anche le cancellerie occidentali e lo attesta il Centro Carter. Ma potrebbe non bastare.

Le inconsistenze dell’asse González-Machado cominciano a creare malcontento nei settori più moderati dell’opposizione, che si dicono esclusi dalla presa di decisioni e trascinato – loro malgrado – verso un altro miraggio politico come quello del «governo ad interim» del 2019, con scarsi risultati politici.

Il suo è il dramma di un uomo che è stato eletto ma rischia di non esercitare mai il mandato a causa di Maduro, che rimane arroccato a Miraflores anche se non gode del sostegno popolare. Ma conta poco un sostegno popolare disgregato. Ancor meno in Venezuela, dove – fino a prova contraria – i militari sono dalla parte di Miraflores.

Snodi

Gli esuli di Miami, l’ala più a destra dell’opposizione vorrebbero insediare Edmundo Gonzàlez Urrutia − sul modello di quanto tentato da Juan Guaidò, proclamatosi presidente contro Maduro nel 2019 − recuperando prima «la legittimità istituzionale» e solo in un secondo momento «il monopolio della forza sul territorio». Altri settori si mostrano scettici sull’esito delle azioni promosse dall’opposizione, finora confinata a un piano simbolico e meramente dimostrativo.

«Tutti sappiamo cosa farà Maduro, non cederà un millimetro del potere a disposizione, ma nessuno sa cosa farà Maria Corina Machado», ha detto l’analista Jesùs Seguìas. «Non sappiamo se quel giorno Edmundo Gonzàlez presterà giuramento, né se ci sarà un Golpe militare», ha aggiunto, osservando che «l’attuale braccio di ferro non conviene a nessuno» in un Paese sprofondato nella crisi e bisognoso «di oltre 50 miliardi di dollari per ripartire».

Tuttavia il discorso politico rimane polarizzato anche da parte delle opposizioni, chiamate a lottare con i denti contro un regime che vanta l’intero apparato logistico-militare dello Stato. Ma il pericolo delle opposizioni non sta tanto nella capacità di «far male» al regime di Maduro quanto nel bluff che, ogni quattro cinque anni, vede migliaia di persone scendere in piazza – e anche perdere la vita – in attesa di leader mai pervenuti e scappati in esilio.

All’interno del Paese vi è infatti l’illusione di un’opposizione organizzata, che ha eseguito bene il lavoro diplomatico e che sa cosa fare il 10 gennaio. E i movimenti partitici invitano la diaspora alla prudenza, onde controllare bene le comunicazioni. L’ipotesi che si preannuncia è quindi quella dell’ennesimo momentum di catarsi popolare – il 9 gennaio e nelle date seguenti – senza però una concreta transizione nell’esercizio del potere. Una mossa pericolosa proprio perché improvvisata nei confronti di un regime già abituato alla pressione interna e sopravvissuto a sanzioni e ad altre forme di isolamento senza vedere intaccate le sue fondamenta.

Altri interrogativi aperti riguardano la tenuta dello stesso González, che proprio riavvicinandosi al Paese ha assaggiato – attraverso il sequestro del genero – una prima dose di ciò che il regime è disposto a fare pur di rimanere al potere. Ora l’ex-candidato oppositore è sotto scacco, dopo che ha promesso a tutti di tornare in Patria per insediarsi. Se torna verrà immediatamente arrestato, se rimane fuori sarà l’ennesimo fuoco di paglia dell’opposizione venezuelana.

Gli occhi della comunità internazionale non resteranno a lungo sul Paese. E questo vuol dire che l’opposizione ha poco tempo, prima che il potere di Maduro per il periodo 2025-2031 diventi una cosa normale.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 10 gennaio 2025
Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento

Questo sito fa uso di cookies tecnici ed analitici, non di profilazione. Clicca per leggere l'informativa completa.

Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici ed analitici con mascheratura dell'indirizzo IP del navigatore. L'utilizzo dei cookie è funzionale al fine di permettere i funzionamenti e fonire migliore esperienza di navigazione all'utente, garantendone la privacy. Non sono predisposti sul presente sito cookies di profilazione, nè di prima, né di terza parte. In ottemperanza del Regolamento Europeo 679/2016, altrimenti General Data Protection Regulation (GDPR), nonché delle disposizioni previste dal d. lgs. 196/2003 novellato dal d.lgs 101/2018, altrimenti "Codice privacy", con specifico riferimento all'articolo 122 del medesimo, citando poi il provvedimento dell'authority di garanzia, altrimenti autorità "Garante per la protezione dei dati personali", la quale con il pronunciamento "Linee guida cookie e altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021 [9677876]" , specifica ulteriormente le modalità, i diritti degli interessati, i doveri dei titolari del trattamento e le best practice in materia, cliccando su "Accetto", in modo del tutto libero e consapevole, si perviene a conoscenza del fatto che su questo sito web è fatto utilizzo di cookie tecnici, strettamente necessari al funzionamento tecnico del sito, e di i cookie analytics, con mascharatura dell'indirizzo IP. Vedasi il succitato provvedimento al 7.2. I cookies hanno, come previsto per legge, una durata di permanenza sui dispositivi dei navigatori di 6 mesi, terminati i quali verrà reiterata segnalazione di utilizzo e richiesta di accettazione. Non sono previsti cookie wall, accettazioni con scrolling o altre modalità considerabili non corrette e non trasparenti.

Ho preso visione ed accetto