
Giovedì 27 marzo 2025, presso la Casa del Mantegna a Mantova, si è tenuto il secondo degli Incontri sul dialogo interreligioso, promossi da Agorà delle Religioni, in collaborazione con l’Istituto di Studi Ecumenici «San Bernardino» di Venezia. Relatore dell’evento il prof. Marco Dal Corso che, partendo dal tema Il perdono come cura della memoria, approfondito nel primo incontro dal prof. Edson de Almeida (cf. qui su SettimanaNews), propone, come mezzo per la sua realizzazione, una riflessione sull’ospitalità.
Il dialogo
Perché la riconciliazione sia autentica, dice il prof. Dal Corso, è necessario compiere quattro passaggi.
Il primo chiede di rivisitare, in maniera creativa, i miti. Come il mito della “terra promessa” da parte degli Israeliti, ad esempio. Per molti di loro, infatti, vale più la legge di Javhè che quella dell’ONU: ma il racconto biblico ci rivela che tre sono le religioni abramitiche.
Il secondo passaggio riguarda il guarire le ferite, che solo con esercizi e pratiche spirituali possono cicatrizzarsi.
Il terzo mette al centro il concetto di giustizia, da intendere come riparativa e non punitiva o distruttiva.
Ma è con il dialogo − quarto passaggio – nutrito dalle precedenti fasi, ispirate dalla volontà/desiderio del perdono, che, secondo il relatore prende avvio il processo di riconciliazione.
L’ospitalità
Il contributo più efficace che le religioni possono offrire alle comunità è l’idea di un dialogo “ospitale” che, sgombro da strategie diplomatiche e da buone intenzioni − al di là di ogni individualismo identitario −, si apre all’altro, accogliendone il bisogno di verità.
L’etimologia stessa della parola “ospite”, che ingloba in sé sia l’ospitante che l’ospitato, apre a rapporti inediti e vivificanti, così come, al momento della nascita, è stato per ciascuno di noi l’essere accolti − condizione antropologica prima che religiosa.
Scoprirsi “ospitati” prima di essere capaci di “ospitare” è un dato imprescindibile al fine di vedere nell’altro, in quanto cercatore di verità, l’“accade” da accogliere.
Per aprirsi a un dialogo autentico è necessario, però, “autocomprendersi”. Solo così l’ospitalità, da esperienza performativa, diventa trasformativa.
Ospitare significa, anche, stabilire rapporti nuovi con le cose: al primato del possesso sostituire la scoperta della gratuità, logica che – come ci insegnano i miti degli indigeni − ci guida a rapportarci con la terra non più secondo una visione estrattivista e rapace, ma come parte dell’armonia del cosmo.
Ospitare comporta, inoltre, superare la cura dell’esserci per rispondere alle domande dell’altro, unica via − secondo l’esempio della pratica buddhista della mutua compassione − per renderci veri.
I primati dell’ospitalità
Se la chance che le religioni possono giocare nello spazio pubblico è l’ospitalità, quali primati attribuirle? Il professor Dal Corso ne elenca e descrive quattro.
- Il primato di Gerusalemme su Atene.
Se metaforicamente Atene, intesa come patria della filosofia, ha riconosciuto valore all’identità e all’individualità a scapito dell’alterità, ineludibile per Gerusalemme, capitale simbolica di tre religioni, il principio della responsabilità nella gestione delle reciproche interazioni.
- Il primato dell’eteronomia sull’autonomia.
È solo con il riconoscersi come creatura che l’essere umano può dare senso alla propria vita e a quella altrui. L’autonomia è un valore, ma essere consapevoli che dobbiamo ad un Creatore il nostro essere nel mondo, ci rimette nel circuito dello scambio e della responsabilità reciproca.
- Il primato della responsabilità sulla libertà.
In un contesto come quello dell’oggi in cui la libertà sovrabbonda ed è poco valorizzata, poiché non finalizzata, rispondere gratuitamente ai bisogni dell’altro, nella direzione dell’assumersene la cura, diventa atto libero. Questo è quanto intende un midrash in cui un rabbino, paradossalmente, afferma che, fra il seppellire un cadavere rispetto all’urgenza di soddisfare chi sta morendo di fame, si deve dare la precedenza alla sepoltura proprio perché dal morto non arriverà alcun ringraziamento.
- Il primato della giustizia sull’amore.
Se la giustizia, intesa nella sua radicalità, comporta distribuzione dei beni e giusto è colui che condivide, per cui la relazione è asimmetrica, l’amore − come dice bene Dante con “Amor ch’a nullo amato amar perdona” − si dà solo nella reciprocità.
- Il dialogo ospitale.
Il dialogo ospitale può diventare il vero contributo e rappresentare il ruolo pubblico delle religioni nel dibattito culturale e politico. Ospitare il fratello e la sorella, ospitare gli altri esseri senzienti, ospitare a nostra volta la terra che ci ha accolti, ospitare il passato, riconciliandone le memorie, accogliere il futuro anche e soprattutto delle generazioni dopo la nostra, liberandole dai debiti a cui le stiamo obbligando… sono impegni a cui le religioni non possono rinunciare se non tradendo la dimensione politica dell’esistenza iscritta nella verità della vita. Insomma, il dialogo interreligioso appare per ciò che è chiamato ad essere: un antidoto alla violenza. Una pedagogia del dialogo interreligioso, allora, è iscritta, ricordando il documento sulla fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi nel 2019, quando afferma: “La cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio”.[1]
[1] Marco Dal Corso, Incontro presso la Casa del Mantegna (Mantova), 27 marzo 2025.





