
In questi giorni è possibile visitare a Palazzo Bonaparte a Roma una bellissima mostra dedicata al pittore Edvard Munch. All’inizio del percorso espositivo si legge una celebre frase dell’artista norvegese: «Io non dipingo quello che vedo, ma quello che ho visto».
Un’affermazione molto famosa che mi ha fatto riflettere su quello che è accaduto (e accadrà) a Roma in questi giorni: la scomparsa di Papa Francesco, i suoi funerali e l’elezione del suo successore. Una circostanza straordinaria senza ombra di dubbio, ma si farebbe torto alla sua straordinarietà se ci si limitasse a osservarla così come si osserva qualsiasi altro evento singolare.
Tanto più che in gioco non c’è solamente la particolarità di quel che è successo (e succederà), ma l’eccezionalità di un uomo, di un credente che per 12 anni ha guidato la Chiesa cattolica. Se ci pensiamo è la stessa cosa che è accaduta, sempre a Roma, vent’anni fa in occasione della morte di Giovanni Paolo II. Ed è proprio il ripetersi a vent’anni di distanza della stessa dinamica che mi interroga sul fatto che, come suggerisce Munch, è forse venuto il momento di non limitarsi a vedere quello che tutti possono vedere, ma di assumere un preciso punto di vista che possa aiutare a superare la semplice descrizione del fatto riportata dalle televisioni e dalle fotocamere dei nostri smartphones che ormai, in ogni dove, si agitano sopra le teste delle persone.
In fin dei conti, ogni credente (dall’ultimo fino al più «papabile» tra i cardinali elettori) dovrebbe chiedersi «che cosa abbiamo visto in questi giorni?». E, soprattutto, «che cosa ha visto Francesco?». Dico questo perché sono convinto che, analogamente a vent’anni fa, le parole d’ordine, con le quali si descrive quel che è successo, non sono sufficienti per dipingere quello che si è visto.
Se poi, ci si proietta nel futuro prossimo, diventa ancora più urgente superare la tentazione di credere – e di sforzarsi di credere fino a convincersene – che sia sufficiente elencare tutte le parole e i gesti più significativi di Papa Francesco per concludere che occorre (più o meno a tutti i costi) conservare l’eredità del pontificato appena concluso.
Forse, sarebbe più utile assumere un preciso punto di vista che, sicuramente de-limitato, ma perlomeno non genericamente pan-oramico, facesse veramente tesoro di quello spettacolo di popolo che, nel giro di tutto sommato poco tempo (cosa sono vent’anni?), ha concesso a due Papi, sicuramente tra loro non sovrapponibili, né nella personalità né nell’azione pastorale, un tributo che sarebbe sciocco (per un credente) rubricare nelle conseguenze dell’azione di un «un uomo del popolo».
In questo senso, se si volesse fare onore a quel tratto originario della figura di Papa Bergoglio, che è il suo essere gesuita, si potrebbe domandarsi se non sia venuto il momento di accompagnare l’intera comunità cristiana a operare un discernimento sul significato di questi due pontificati che, nell’arco di tempo di meno di mezzo secolo, hanno così profondamente segnato la vita della Chiesa.
Non si tratta di mettersi lì a discutere se l’azione ad intra è stata (o non è stata) altrettanto efficace di quella ad extra in questo o quel pontificato. Anzi, forse, sarebbe il momento di finirla con Chiesa ad intra e ad extra (ma questa è solo una mia personalissima idea). Neppure sarebbe utile schierarsi (ci sono tanti modi per farlo) dalla parte di chi è stato maggiormente fedele allo spirito del Concilio.
Quel che servirebbe è rinunciare alla semplificazione offerta da parole d’ordine teologico-pastorali tra loro perfettamente interscambiabili (Nietzsche docet) che hanno finora prodotto più divisione che unità. Certo, finché si tratta della corretta descrizione delle azioni compiute, delle parole dette e delle decisioni prese, si può certamente astrarre dalla complicazione di dipingere quel che si è visto e non solo quel che si vede, ma questa situazione è simile all’organizzazione di una qualsiasi istituzione alla quale si è stati scrupolosamente addestrati.
Qui, però, si ha a che fare con la Sposa di Cristo e con il popolo per il quale Cristo ha versato il suo sangue, e l’impossibilità di rimandare questo discernimento si fa bruciante: si avverte l’urgenza di rispondere a un appello che deriva non da un’anomalia percettiva, ma da quella che è la vera e propria struttura del mondo della vita e della vita della Chiesa, la quale occorre averla vista per poterla dipingere.
Nicola Reali è professore ordinario presso l’Istituto Pastorale Redemptor Hominis della Pontificia Università Lateranense.






Il discernimento spetta indubbiamente a tutti, ma ora in specie a coloro che hanno il compito di scegliere il nuovo vescovo di Roma. Sarà poi l’eletto a decidere se dare continuità all’opera del predecessore o proseguire per altra strada.