Il fallimento dello Stato democratico

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Presidential candidate George Simion is shown on a screen at the meeting of his supporters after polls closed for the first round of the country's presidential election redo in Bucharest, Romania, Sunday, May 4, 2025. (AP Photo/Andreea Alexandru)

Il candidato di estrema destra alle elezioni presidenziali rumene George Simion presente in video a un raduno dei suoi sostenitori a Bucarest, 4 maggio 2025 (AP Photo/Andreea Alexandru)

Una coincidenza è una coincidenza; due coincidenze sono un indizio; tre sono una prova. Questo acuto aforisma, frequentemente attribuito ad Agatha Christie, potrebbe applicarsi a quel che sta succedendo all’estrema destra in alcuni paesi europei, finita nel mirino del sistema giudiziario prima in Romania, poi in Francia, e infine in Germania.

Ammettiamo, per comodità di esposizione, che sia una coincidenza. Ammettiamo anche che il potere giudiziario sia indipendente dal potere politico; molto più probabilmente in Francia e in Germania che in Romania, ma transeat: non è qui il punto. E il punto non è neppure se Marine Le Pen e l’AfD siano o no colpevoli delle accuse mosse loro (lo sono certamente, ma, ripetiamo, non è questo il punto).

Il punto è che rimettere la salvezza del Paese nelle mani dei giudici e dei servizi di sicurezza è una scorciatoia pericolosa, un rimedio peggiore del male. Che mette acutamente in evidenza da una parte la crescente debolezza del potere politico e, dall’altra, una insanabile contraddizione della sua sovrastruttura ideologica.

La volontà popolare

Quanto al primo aspetto, basti citare il caso italiano degli anni 1990, quando l’incapacità della vecchia classe politica ad adattarsi ai nuovi imperativi europei e internazionali provocò il ben noto terremoto giudiziario di «Mani pulite» – una sorta di braccio secolare dell’Unione Europea incaricato di tagliare la testa ai recalcitranti.

La testa fu tagliata, ma con essa fu sepolta anche una lunga competenza politica accumulata in decenni, sul cui cadavere prosperarono addetti all’edilizia e al marketing e altri dilettanti vari; alla fine, nel tentativo di rimediare ai danni di questi ultimi, si fece regolarmente ricorso ad altre risorse esterne alla politica, questa volta pescate in Banca d’Italia e nel vivaio dei grand commis europeisti.

Senza con ciò migliorare granché la situazione, né in termini di risultati per il Paese, né in termini di personale – se solo si pensa a chi arrivò in seguito, portato sulle ali della volontà popolare.

Quando la gestione politica passa a chi politico non è – che si tratti di giudici, di banchieri, di imprenditori immobiliari, di comici o di venditori di bibite – non si fa altro che palesare l’avvenuto fallimento dello Stato democratico, sempre che per Stato democratico si intenda un sistema istituzionale basato sui checks and balances, cioè sull’equilibrio dei poteri. Infatti, se uno dei poteri si è ritirato – in questo caso il potere politico, sia esso legislativo o esecutivo – cosa resta da equilibrare?

Se per Stato democratico si intende invece un sistema fondato sulla volontà popolare, il tentativo di aggirare la volontà popolare per via giudiziaria è un’altra ammissione di sconfitta.

Si potrebbe discutere a lungo sulla competenza politica della volontà popolare e sull’opportunità di affidare ad essa i destini di un paese: dai padri fondatori degli Stati Uniti, preoccupati della tyranny of the majority, a Max Weber e alla sua critica del «cesarismo plebiscitario», la letteratura è corposa.

Ma più della letteratura, valgono gli esempi pratici: dall’elezione di Hitler a quella di Donald Trump, passando per la Brexit, l’altra elezione di Trump, più tutta la coorte di populisti di destra e di sinistra (non dimentichiamo Alexis Tsipras in Grecia, per carità) portati a furor di popolo al potere un po’ dovunque in Europa e nel resto del mondo.

founding fathers degli Stati Uniti erano persuasi che la gestione dello Stato richiedesse conoscenze specifiche che la «maggioranza» non poteva avere. Ma avevano anche verificato di persona che le assemblee degli eletti locali erano dominate da «uomini dallo spirito meschino e privi di interesse naturale per la società… egoisti, ignoranti, … caratteri troppo pieni di interessi e vedute provinciali per dedicare un’attenzione sufficiente all’interesse generale», come riassume lo storico Gordon Wood.

In altre parole, era stato notato che la democrazia, più si avvicina al singolo cittadino, più si allontana dall’interesse generale del Paese.

D’altronde, il meccanismo del Collegio elettorale per l’elezione presidenziale era stato creato proprio allo scopo di mettere un filtro tra il voto popolare e l’esito finale; grazie a quello stratagemma, sperava Alexander Hamilton, «la carica di presidente non finirà mai nelle mani di chi non sia dotato in misura eminente dei requisiti richiesti». Abbiamo visto dove ha portato la «democratizzazione» di quel sistema di filtraggio.

Senza filtro

Ma torniamo all’attualità. Siccome né in Francia né in Germania esiste un «filtro» per impedire all’estrema destra di prendere il potere, si passa – a meno che non si tratti di coincidenze – per altre vie. In questo modo, la classe politica non solo confessa la propria resa, ma attacca anche i fondamenti ideologici stessi su cui dovrebbe poggiare la propria legittimazione.

Come si può, infatti, essere «legittimati dal popolo» a delegittimare chi sia sul punto di esserne a sua volta legittimato?

Senza contare che le vittime di questa delegittimazione ne fanno un efficacissimo elemento di propaganda erigendosi a estremi difensori della democrazia, con uno scambio di ruoli che sarebbe comico se non fosse macabro: gli eredi del nazismo investiti del ruolo di ultimi, più coerenti, e per questo perseguitati, paladini della democrazia!

Pare ormai evidente che gli elettori del mondo intero, dove possono ancora votare liberamente, prediligono i populisti, se possibile forcaioli e razzisti, o quantomeno xenofobi quel che basta.

E li prediligono perché i populisti sanno fare bene solo quel mestiere, che consiste nel dire al popolo quel che il popolo vuole sentirsi dire: che «tutto andrà bene», se solo ci si toglie dai piedi quelli che ci hanno fatto fin qui andare male, e con loro i «globalisti» e il loro esercito d’invasione – gli immigrati, meglio ancora se musulmani.

La recente vittoria di Nigel Farage nelle elezioni parziali e locali in Gran Bretagna dimostra che né la catastrofe della Brexit né la catastrofe dei primi cento giorni di Donald Trump è sufficiente a scoraggiare gli elettori a continuare sulla strada delle catastrofi autoinflitte.

farage

Non essendo né il Canada né l’Australia, la Francia e la Germania non possono permettersi di correre quel rischio.

Marco Rubio, JD Vance ed Elon Musk hanno prontamente condannato la scandalosa violazione della democrazia in Romania, in Francia e in Germania. Oltre alla parabola evangelica della trave e della pagliuzza, questi democratici a casa d’altri fanno pensare al governo israeliano che invade la Siria per difendere la minoranza drusa (che non aveva chiesto di essere difesa) mentre massacra e condanna all’inedia la maggioranza araba di Gaza.

Machiavelli raccomandava sì l’uso dell’ipocrisia in politica, ma raccomandava anche al principe di fingere al tempo stesso di essere «pietoso, fedele, umano, religioso, intero». Se si è machiavellici solo a metà, si possono vincere le elezioni, ma non si può sperare di gestire uno Stato.

Se poi, a dispetto di Agatha Christie, anche la terza coincidenza era davvero una coincidenza, dimenticate quanto avete letto fino a qui.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 5 maggio 2025

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