Bugno: il Giro, la bici, la vita

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Gianni Bugno ha vinto il Giro d’Italia del 1990 indossando la Maglia Rosa dalla prima all’ultima tappa. Su quell’evento, sulla sua carriera sportiva, sulla vita e sui suoi pensieri, lo intervistiamo, mentre prende il via una nuova edizione del Giro (108a).

– Gianni dove sei nato?

Sono nato in Svizzera, a Brugg. I miei genitori erano migranti italiani andati a lavorare là come operai al tempo della forte industrializzazione. Venivano dalla campagna trevigiana. Anche mia mamma lavorava in Svizzera come operaia, perciò stavo in casa coi nonni. Questo sino all’età di 3 anni, quando, poi, con la nascita di mia sorella, tutta la famiglia ha fatto ritorno in Italia, a Monza. Di quei primi anni non ricordo niente.

– Della tua infanzia e giovinezza a Monza, cosa ricordi?

Niente di particolare: andavo a scuola, giocavo a pallone con gli amici nel cortile, finché ho iniziato a fare sport agonistico in bicicletta.

Sono stato iscritto al liceo scientifico, non tanto per mia scelta, quanto per pressione dei professori delle medie, perché andavo bene a scuola, specie nelle materie scientifiche; ma io avrei voluto fare una scuola professionale.

Non andavo male neppure al liceo, se non che, in quarta, sono stato bocciato all’esame di riparazione di due materie: italiano e latino. La prof aveva letto che ero andato a fare i campionati italiani e, invece di darmi, per ciò, una mano, me l’ha tolta. A me non andava di ripetere l’anno e quindi ho scelto di lasciare la scuola e di puntare sullo sport, per diventare un professionista. I miei non erano per niente d’accordo. Posso dire di essere riuscito nello scopo.

Il diploma di maturità l’ho recuperato successivamente, mentre ero ancora in attività agonistica.

– Andavi in chiesa?

Ci andavo di mia spontanea volontà: nessuno mi ha mai detto o, tanto meno, imposto di andarci. Ci andavo per conto mio. Poi, preso dalle gare – ogni domenica in giro di qua e di là – non ci sono andato più.

***

– La bici come è arrivata nella tua vita?

Non c’era nessun sportivo nella mia famiglia e nessuno mi ha avvicinato alla bici: è arrivata casualmente, quando è passato il Giro d’Italia sotto casa mia. Allora ho cominciato ad andare in bici, per passione. Per me la bici era puro divertimento e strumento di libertà: con la bici potevo andare dove volevo, posto che i miei non volevano darmi in mano il motorino. È andata poi che mio padre – quando avevo 15 anni – mi ha comprato la bici da corsa.

– E alle gare come ci sei arrivato?

Un compagno di classe aveva il padre appassionato di ciclismo e legato ad una società ciclistica monzese che reclutava i giovani. Mi ha incoraggiato a iscrivermi e a fare le prime gare da “esordiente”. Ho cominciato a vincere quasi subito: la prima corsa l’ho fatta in fuga da solo sotto la pioggia, ma sono stato ripreso prima del traguardo; la seconda, sulle strade di casa, organizzata dalla mia società, l’ho vinta in volata tra quattro corridori in fuga. Ricordo che era una domenica 13 maggio, ed era la festa della mamma.

Ho continuato a vincere gare nelle varie categorie che ho attraversato: “allievi”, “juniores”, “dilettanti”. Ero un corridore completo, cioè, ero in grado di vincere su qualsiasi percorso: veloce o di salita di montagna.

– Chi era il tuo campione preferito?

Non sapevo quasi nulla di ciclismo, non conoscevo i corridori famosi. Ricordo di aver visto la prima corsa dei professionisti in televisione quando Moser vinse il mondiale a San Cristobal (nel 1977). Non sapevo chi fosse Merckx, o appunto Moser o Saronni, sin tanto o quasi che li ho conosciuti di persona.

– Professionista come ci sei diventato?

Da dilettante avevo vinto molto. Avevo i “punti” per diventare professionista. Ma a propiziare il passaggio al professionismo è stato un meccanico monzese – Gianni Di Lorenzo – che allora lavorava per la squadra professionistica dell’Atala, che è stata la mia prima squadra da professionista. Gianni lo vedo ancora qui, a Monza.

– La tua prima corsa vinta da professionista qual è stata?

Il Giro dell’Appennino, che poi ho vinto per altre due volte consecutive. Avevo 22 anni. Ricordo di aver battuto in una volata a due proprio Francesco Moser.

***

– Parlami un po’ del Giro d’Italia del ’90, quando hai portato la maglia rosa dalla prima all’ultima tappa: un’impresa unica!

Sono passati tanti anni. Dico sempre – ed è vero – di non avere ricordi vivi nella mia testa: quelli che ho, li conservo col cuore, fanno parte di me e non riesco tanto a raccontarli. Dovrei dire cose che gli altri hanno visto da fuori – magari solo in televisione – mentre io le ho vissute dentro me stesso: rimarrebbe comunque una distanza incolmabile. Non riesco poi a parlare di questa vittoria al Giro, piuttosto che di un’altra corsa: tutte le mie vittorie – e anche le mie sconfitte – fanno parte di me, allo stesso modo.

– Com’è andata una corsa a tappe di ben tre settimane?

Ero partito con l’idea di prendere subito la maglia rosa nella prima tappa a cronometro: l’ho presa. La squadra mi ha aiutato a tenerla sulle spalle nelle prime due settimane perché ha avuto fiducia in me e nella possibilità di portare quella maglia sino alla fine. Nell’ultima settimana ci ho creduto anch’io, e l’ho davvero portata sino al traguardo finale. Portare la maglia rosa è un onore, è sentire di portare addosso qualcosa di importante: tanta gente ti vede, ti riconosce, confida in te. Quando l’hai sulle spalle, fai di tutto per difenderla; viene da sé.

– Hai avuto pure paura di non farcela?

Il timore di non farcela c’è sempre in bicicletta. Ci sono sempre – specie in una corsa a tappe – i momenti bassi: con quelli bisogna saper convivere; è stato così anche quella volta.

– Quale soddisfazione nell’avercela fatta?

Una grossa soddisfazione, ma non aggiungo di più.

– Quanta parte ha avuto la squadra nella tua vittoria?

Nel ciclismo la squadra è importante. Ma poi sei tu – se sei il capitano – che devi cercare di portare a casa la vittoria. Io sono molto grato a tutti miei compagni, ai direttori sportivi, ai patron, agli organici di tutte le squadre di cui ho fatto parte, per tutte le vittorie che ho ottenuto. Il mondo dei professionisti è fatto – e deve essere fatto – da veri professionisti: a ciascuno di far bene la propria parte.

***

– Hai mai subìto condizionamenti “extrasportivi”?

Corse, vittorie, premi, volevano e vogliono dire anche ritorni economici, per tutta la squadra e per gli sponsor. Fa parte dello sport, che non può essere, penso, concepito in un altro modo.

– Del doping cosa puoi dire?

Il problema del doping c’è sempre stato nel ciclismo come in tutti gli altri sport. Il ciclismo è lo sport che ha pagato il prezzo più alto per il giudizio di doping, forse perché è lo sport più in vista e più popolare.

– Ma in bicicletta non si fa più fatica che a piedi o in acqua?

Non penso che un maratoneta o un nuotatore faccia meno fatica. Lo sport comporta sempre la fatica. Perciò non dico che la bici ha il primato della fatica.

– Cos’è la fatica di un ciclista in montagna, in salita, sotto l’acqua, sotto il sole, col freddo e col caldo?

Se fai le cose con passione, la fatica non la senti. Chi va in bici, ci va per passione. La fatica è qualcosa di negativo. Per me la fatica è piuttosto quella di chi va a lavorare controvoglia – che so, in miniera – per campare. La fatica vera non è quella di chi sceglie di correre in bicicletta. Per me, andare in bici da corsa e sudare per mia volontà, non è mai stata una fatica, semmai una gratificazione.

***

– Hai sacrificato qualcosa per andare in bici?

Il sacrificio è la rinuncia. Come ti ho detto, io non ho rinunciato a niente per andare in bici: l’ho voluto io, interessava a me, e mi ha dato soddisfazione.

– La medaglia della vittoria ha un rovescio?

Quando vinci – e quando vinci tanto – crei, inevitabilmente, invidia o qualcosa del genere. Sentire l’invidia su di sé non è bello. Io non volevo sentirmi invidiato. Quindi, in un certo senso, mi dispiaceva vincere, battere gli altri. Ma è la legge dello sport correre per vincere: il secondo è sempre il primo degli sconfitti, inevitabile.

– Quando hai provato, ad esempio, questa doppia sensazione?

Ricordo il mondiale del ’91 in cui ho battuto in volata, per poco, anche Miguel Indurain (terzo classificato), un corridore che non aveva mai vinto il mondiale, a cui teneva molto e che avrebbe sicuramente meritato di vincere; mi è dispiaciuto, sinceramente.

– Tanti dicono che, con la tua classe, avresti potuto vincere persino di più. Vero?

Sì, me l’hanno detto in tanti. Ho vinto quel che ho vinto. Qualcosa mi pare di aver fatto. Non penso a ciò che avrei potuto fare di più. Sono contento così. Non ho nessun rimpianto.

– In televisione sei mai andato a parlare di queste cose?

Non ho mai amato le apparizioni televisive. Sono piuttosto introverso e riservato. Si capisce anche da qui, penso. Nel 2020 sono stato chiamato dalla Rai a commentare le tappe del Giro d’Italia. L’ho fatto un anno, poi non più: non era il mio mestiere.

***

– Conclusa la tua carriera agonistica, cosa hai fatto?

Ho chiuso un periodo e ne ho aperto un altro. Già durante gli anni in carriera, mi sono preparato al “dopo”, riprendendo i propositi che avevo allora messo da parte. Da ragazzo volevo andare infatti nell’accademia aereonautica per fare il pilota. Perciò ho acquisito il brevetto per la guida di elicotteri, e, per conseguirlo, ho ripreso a studiare per ottenere, prima di tutto, il necessario diploma di maturità scientifica. Così, appena ho terminato con le corse, ho potuto realizzarmi in un’altra professione, che mi è sempre piaciuta e mi piace tuttora.

– Hai pilotato elicotteri, per fare cosa?

Ho fatto quel che fa un pilota d’elicottero, dove può essere utile. Un anno ho seguito il Giro d’Italia dall’elicottero per le riprese televisive. Ma ho fatto tante altre cose, nel soccorso sulle strade o in situazioni di grave difficoltà. Il pilota d’elicottero è un po’ come quello che guida l’ambulanza. Sento di aver fatto solo questo. Non ho salvato nessuno, da solo.

– Ora di cosa ti occupi?

Collaboro con la società del soccorso regionale della Lombardia e partecipo alle manifestazioni a cui vengo chiamato: niente di particolare; sono padrone del mio tempo e mi occupo di ciò che mi sta più a cuore.

– Famiglia, affetti, amicizie…

Sono cose molto importanti: per questo le tengo per me e non ne parlo nelle mie interviste.

***

– Sali ancora sulla bicicletta da corsa?

Ci vado, quando mi capita, in compagnia di amici, ma vado anche da solo, semplicemente perché mi piace, come mi è sempre piaciuto, sin da ragazzino.

– Cosa c’è di bello nell’andare in bicicletta?

Non lo so. Mi piace, mi diverte. In bici sto bene, e sto bene con me stesso. Non ti so dire di più.

– In chiesa ci sei più tornato?

Sì, torno nella chiesa del quartiere di Monza in cui abitavo un tempo. Non vado a messa, vado da solo, perché credo in Dio a mio modo: per me Dio è uno solo per tutti. Perciò rispetto tutte le religioni, ma non capisco le divisioni che ci sono. Della chiesa (cattolica) non riesco ad accettare poi certe cose: perché, ad esempio, non possa essere una donna a rappresentarla. Sono cose che penso dentro di me. Ma non ne parlo con alcun prete.

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