V Pasqua: L’importanza di un “come”

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Quando Giuda fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». (Gv 13,31-35)

 Il testo di questa domenica va letto nel contesto di tutto il cap. 13 di Giovanni e, in particolare, tenendo conto dei brani immediatamente precedente e seguente.

La “notte” dei discepoli

Prima di queste parole Gesù ha annunziato il tradimento di Giuda, nei confronti del quale ha compiuto un gesto estremo per sottrarlo alla morte, accordandogli il perdono in anticipo sul tradimento. Giovanni commenta nel finale che Giuda uscì ed era notte.

Subito dopo, sempre Gesù dà l’annuncio del prossimo rinnegamento di Pietro, un altro gesto che avverrà nella notte, prima che il gallo canti. Al centro di questa notte stanno le parole che Gesù dice in questi versetti.

Giuda è uscito di notte; proprio questa uscita, che determinerà l’arresto di Gesù e gli avvenimenti successivi, coincide, paradossalmente, con la glorificazione di Gesù: ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato: la luce di Gesù splende nelle tenebre (cf. 1,15).

Gesù è glorificato perché ama fino all’estremo colui che ha deciso di consegnarlo. Questo è l’amore che illumina la notte, anche quella di Giuda. Questo è ciò che dà consistenza, concretezza e visibilità (la gloria) alla rivelazione di Gesù.

È attraverso questo amore fino all’estremo che egli è pienamente figlio. Così permette a Dio di essere glorificato in lui, affinché Dio lo glorifichi ulteriormente con la sua paternità. Gesù esprime una reciprocità, quella tra il Padre e il Figlio, di cui poi continuerà a parlare soprattutto nel cap. 14. Si potrebbe dire che il Figlio è Figlio quando permette al Padre di essere Padre (e viceversa).

Amando all’estremo il traditore come colui che lo rinnega, Gesù rivela pienamente il suo essere figlio, che può aver imparato solo dal Padre. La rivelazione della consistenza, della concretezza e della visibilità non riguarda perciò solo Gesù, ma, nell’agire di Gesù, si rivela contemporaneamente l’agire del Padre.

Questa è già l’anticipazione della Pasqua. Da questa reciprocità e relazione di gloria tra Padre e Figlio sono trasformati i discepoli, che Gesù chiama «figlioli».

Una nuova tonalità dell’amore

Questa complessa introduzione illumina il comandamento nuovo dell’amore di una nuova tonalità.

La frase «amatevi gli uni gli altri» si ripete all’inizio e alla fine e incornicia l’espressione «come io vi ho amati». Questo centro è ciò che illumina gli estremi e ci permette di capire perché il comandamento che viene dato è qualificato come «nuovo». Non è, infatti, la prima volta che si invita ad amare, per cui non sta qui la novità.

«Come io vi ho amati» non vuol dire che è proposto un modello da imitare dall’esterno e servilmente. Non vuol dire, cioè, che occorre ripetere i gesti compiuti da Gesù, senza tener conto della sua identità. Non è questo il senso del «come». Esso è, invece, un «come» che esprime la fondazione e la causa: sul fondamento, poiché io vi amo, amatevi gli uni gli altri.

I discepoli, invitati ad amarsi reciprocamente, possono farlo perché riconoscono di essere stati amati prima loro da Gesù e ciò fino alla fine, all’estremo. Il comandamento non può essere perciò slegato dal vincolo che lega Gesù ai suoi. Questo vincolo e questo amore precedente qualificano l’amore dei discepoli, rendendolo differente da altre forme di generosità o di filantropia.

Ciò significa che il fatto di amarsi a vicenda come Gesù ha amato implica un passaggio obbligato, quello di amare ciò che non è amabile, qui rappresentato da colui che tradisce e da colui che rinnega.

Inoltre, Gesù non dice «amate», ma dice «amatevi gli uni gli altri». Nel primo caso, il comando sarebbe generico, i destinatari dell’amore sarebbero tutti, anche i lontani, quelli con cui non si vive insieme, quelli nei confronti dei quali si ha una relazione generica. Gesù domanda, invece, ai discepoli di amarsi tra di loro. Potrebbe apparire più semplice, ma lo sappiamo bene per esperienza che non è così. La vicinanza, la frequentazione quotidiana sono palestre in cui più facilmente si accendono rivalità, gelosie, incomprensioni, tradimenti. Proprio queste relazioni sono il banco di prova per essere riconosciuti discepoli di Gesù, più di quanto si fa per i lontani, per i poveri, per gli oppressi.

Il «come» ha, infine, un carattere teologico. L’amore ha in noi come autore Dio; esso presuppone perciò la Pasqua, il dono estremo di Gesù. Solo così Gesù può donare di amarci gli uni gli altri come lui ci ama.

La novità del comandamento è data dal fatto che l’amore di Gesù, il suo donarsi permette al comandamento di realizzarsi. Gesù domanda un amore impossibile, ma insieme dona ciò che permette di renderlo concreto.

L’amore è inimitabile, altrimenti non sarebbe amore e non tollera nessuna norma, perché esso stesso è la norma; solo l’amore obbliga. Tuttavia può nutrirsi di quei gesti e di quelle parole di Gesù che, in qualche modo, insegnano cosa vuol dire amare. Accogliendo quei gesti e quelle parole, accettando l’imperativo che ne deriva, è possibile rendere i gesti e le parole di Gesù – quindi il suo amore – efficaci per la nostra vita.

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