Il carcere e il corpo del reato

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Interno del carcere di San Vittore a Milano (foto di Nanni Fontana).

Il «Gruppo della trasgressione» è un’associazione ONLUS costituita da detenuti ed ex detenuti, familiari di vittime, studenti, professionisti e liberi cittadini, il cui obiettivo è contribuire a un percorso di maturazione, riabilitazione e responsabilizzazione personale del detenuto, finalizzato al suo reintegro nella società civile.

Fondato da Yuri Aparo, opera a diretto contatto con i detenuti, sia all’interno delle tre carceri milanesi per adulti, sia esternamente nella sede di Via Sant’Abbondio 53A, sempre a Milano. Cerca di contribuire a risolvere un problema estremamente attuale e complesso, ovvero quello della devianza e del ruolo delle carceri nella riabilitazione del reo.

A novembre dello scorso anno ho iniziato a frequentare il gruppo e, nel corso di questi mesi, ho avuto modo di coglierne il potenziale curativo e istruttivo.

Dialogo e cultura

Una delle caratteristiche peculiari del gruppo è la spontaneità del dialogo. Durante gli incontri, si dà liberamente voce al flusso di pensieri e al vissuto dei membri. Il gruppo asseconda con curiosità, apertura e serietà, le strade che i ragionamenti imboccano.

Lo spazio di condivisione creatosi diviene uno strumento di crescita, di scoperta di sé, di indagine e di riscatto. Chi vi accede ha la possibilità di dare voce alla propria profondità emotiva e scoprire le proprie fragilità, attingendo la forza necessaria per sostenere la fatica dell’analisi consapevole.

Non ci sono vincoli sulle tematiche da affrontare; il pensiero che sorge ed esige di essere espresso catalizza ragionamenti seri e veri. Ne risultano una concretezza di pensiero e di indagine paragonabili alla saggezza.

Affinché ciò che accade nello spazio sia efficacemente interiorizzato da chi lo compone, è necessario che sia presente un ulteriore elemento, la cultura.

Essa costituisce lo strumento tramite il quale si attivano il ragionamento e la comprensione; è il mezzo che consente di sviluppare il pensiero critico, salvaguardandolo dai dogmi che generano ottusità. È un linguaggio comune all’interno del quale si declinano i dialetti del vissuto individuale.

Il reato

Il gruppo è uno specchio della realtà in quanto esorta a riflettere sulle zone grigie dell’esistenza e indaga su di esse attraverso la lente del reato, che è fragilità in atto. La concretezza del reato instaura una riflessione profonda e libera dalla censura.

I detenuti decifrano le insidie della mente e condividono il proprio nucleo di umanità, offrendo ai membri del gruppo la possibilità di intraprendere un percorso di crescita individuale e comune. Mettendosi a nudo, forniscono un esempio di coraggio e rendono estremamente fertile l’humus emotivo collettivo dove seminano il proprio vissuto.

Infatti, come spesso accade, il coraggio del singolo attiva il coraggio degli altri inseriti nello stesso tessuto sociale. Il reato diviene uno strumento funzionale a perseguire un obiettivo, asservito allo scopo del gruppo.

Tale obiettivo non è quello hegeliano della sintesi, ma quello della comprensione e dell’accettazione degli elementi che costituiscono l’antitesi e delle contraddizioni che spingono i detenuti a sentirsi traditi dalla vita.

Antonio ha raggiunto la felicità proprio nel momento in cui ha smesso di sentirsi defraudato dalla vita e ha iniziato ad apprezzarla, anche grazie al gruppo. Cercando il conflitto con Aparo, ha trovato la serenità e ha appreso e interiorizzato il linguaggio comune al gruppo.

Ne mostra il potenziale curativo, insito proprio nell’acquisizione di uno specifico linguaggio elaborato nel corso del tempo.

Andrea afferma di essersi sentito vittima, mentre compiva un reato. I detenuti insegnano che l’oggetto di una rapina non è il denaro che viene rubato, ma il sentimento di vendetta e di frustrazione alle radici dell’atto di devianza.

Il corpo del reato

A questo punto, è inevitabile interrogarsi sulla credibilità e sulla veridicità della definizione socialmente condivisa del termine reato, la quale considera come vittima l’oggetto dell’aggressione.

La dicotomia che emerge da questa riflessione sembra presupporre un certo grado di incompatibilità tra gli elementi che definiscono il reato per come è concepito a livello della società e quelli che lo caratterizzano in quanto tale.

A mio parere, essa costituisce una metafora dell’umanità, le cui declinazioni talvolta paiono inconciliabili e inspiegabili.

Il gruppo è luogo di piccole rivelazioni. La metafora dell’inconciliabilità degli elementi del reato insegna che spesso le definizioni impongono schemi rigidi da cui è necessario prescindere per comprendere lo stato reale delle cose.

In tali circostanze, il tentativo di acquisire rigore mentale e di definire entro certi schemi la realtà si rivela, nella migliore delle ipotesi, inconcludente e, nella peggiore, fuorviante.

Comprendere la realtà

La comprensione profonda della realtà risiede nell’accettazione del dualismo e nel desiderio di conoscere le cause che inducono a delinquere, non nell’imposizione dell’ordine e delle rigidità strutturali della definizione.

Tale comprensione sopraggiunge come un balsamo curativo, si radica nella coscienza e neutralizza ogni velleità di spiegare in modo razionale e meccanico le contraddizioni, di additare il detenuto come insensibile e crudele.

Quando ciò accade, le uniche verità sono la comprensione del vero e del suo vero contrario e l’accettazione della dicotomia del reato. Sono il fatto che Andrea, mentre commetteva un crimine, si sentiva vittima.

In fondo, cosa avvicina noi esseri umani all’umanità se non la comprensione del reale e dei sentimenti che muovono le nostre azioni?

  • Giulia Villa è studentessa del biennio di specialistica presso la Facoltà di scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano.
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