Abusi nella Chiesa: il tabù africano

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Riprendiamo dal portale cattolico svizzero cath.ch (26 maggio 2025) l’intervista a p. Stéphane Joulain. È curata da Clémentine Méténier. P. Joulain appartiene ai Missionari d’Africa (padri bianchi), ha insegnato all’università Saint-Paul di Ottawa (Canada) e ora è direttore del Bethany Center for Counseling and Spiritual Renewal in Kenia. Insegna anche a Roma. Ha pubblicato per l’editrice Desclée de Brouwer Combattre l’abus sexsuel des enfants (2018) e per Bayard L’eglise déchirée. Comprendre e traverser la crise des aggressions sexuelles sur les mineurs (2021). Come psicoterapeuta è attivo in alcuni Paesi africani nella prevenzione degli abusi sessuali.

  • Cosa si sa oggi delle violenze sessuali nella Chiesa cattolica in Africa? Quali sono i lavori, le ricerche, le commissioni che permettono di avere un’idea dell’ampiezza delle violenze?

Un giorno mi è stata posta la questione: a quando una CIASE (la Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa francese 2019-2021) per l’Africa? Ho risposto che la Francia è un Paese piccolo che ha avviato la commissione con un costo di diversi milioni di euro, mentre l’Africa è un continente con 54 paesi. Non ci si può attendere qualcosa di simile, che richiede un investimento enorme, in un continente che ha a che fare con la guerra, la malnutrizione, la povertà endemica e sistemica …

Lottare contro le violenze sessuali nella Chiesa non è una priorità per gran parte dei Paesi africani. Non ci sono dati globali riguardanti le vittime di aggressioni sessuali nella Chiesa in Africa: si possono trovare inchieste giornalistiche sull’uno o l’altro caso, ma non in generale. Una mancanza di dati motivata dal fatto che i paesi africani, da una parte, non hanno mezzi e, dall’altra, mancano di volontà di studiare il fenomeno.

Per quanto riguarda le violenze sui bambini, i Governi hanno ratificato la Carta dei diritti dei bambini. Poiché ci sono aiuti allo sviluppo condizionati dal rispetto dei diritti dell’infanzia, alcuni paesi hanno fatto sforzi in ordine alle violenze sessuali nella società. Su questo ci sono molti studi. Ma indagare propriamente sulla Chiesa è più difficile per diverse ragioni, la principale delle quali è il suo peso strutturale nelle società africane.

  • Quali sono i freni che impediscono di farlo?

Ci sono limiti significativi per molte ragioni. Anzitutto, in Africa la Chiesa è percepita come un centro di potere importante e, in certi Paesi, come un contro-potere politico. In molte culture africane i chierici sono figure pubbliche autorevoli e intoccabili. Non si può sporcare una Chiesa che sostiene i poveri, gli indigenti, gli ospedali… Anche nella società vi è una pressione sulle vittime e le famiglie per non infangare l’immagine dell’istituzione perché essa difende, per esempio, i diritti di tutti. In certi Paesi d’Africa dove la Chiesa ha un peso politico tutto quello che ha a che fare con la divulgazione riguardante i crimini sessuali del clero viene considerato un attacco politico. Col risultato che molta gente non parla di quanto gli è successo perché non verrebbero creduti e ascoltati.

Inoltre, in numerosi paesi se un uomo dichiara di essere stato aggredito sessualmente da un prete, viola un tabù. Verrebbe accusato di essere omosessuale. La morale sessuale africana è profondamente segnata dall’eterosessualità, dal machismo, da un forte patriarcato. Abusare un ragazzo non corrisponde a questa immagine. Più direttamente: non si deve fare. Da qui nasce un profondo diniego nelle società intere.

Ho potuto osservare che la figura polimorfa e ideale della famiglia africano è un freno allo svelamento degli abusi. La struttura familiare africana non è quella mononucleare europea, è polimorfa, allargata: essa comprende i cugini, gli zii, le zie ecc. «Se un giorno non ti trovi bene a casa tua puoi battere alla porta del cugino». Fin da piccolo il bambino sviluppa l’idea di un’appartenenza alla famiglia estesa – che, a seconda delle culture, può essere matrilineare o patrilineare – che diventa un legame di sicurezza nelle società fragili.

La famiglia africana resta il luogo dell’appartenenza e vi si sviluppa un grande rispetto per l’anzianità imparando molto presto la sottomissione all’autorità degli adulti. Detto altrimenti, non si criticano i vecchi anche quando sono abusanti. E questo rafforza il diniego. Inoltre, la teologia cattolica ha sviluppato l’idea secondo cui la Chiesa d’Africa è la «famiglia di Dio». Questo significa che, una volta prete, gli altri devono sottomettersi senza fiatare. Infine, ci sono ragioni geopolitiche in relazione all’emergere di nuovi «panafricanismi» che impattano la vita religiosa ed ecclesiale. Penso alle dichiarazioni del card. Ambongo di Kinshasa, per esempio, sul fatto che l’omosessualità non esiste in Africa. E lo stesso cardinale, consigliere assai vicino al papa, afferma pubblicamente di condividere i valori con il presidente russo Putin, manifestando la volontà di tagliare radicalmente i legami coloniali con l’Europa.

  • Lei è molto impegnato nella prevenzione degli abusi sessuali nelle congregazioni religiose nel continente africano. Avverte che qualcosa si muove?

Constato che vi è una progressiva apertura. Sei mesi fa a Nairobi (Kenya) avevo davanti 125 formatori. Quelle e quelli che hanno preso parola hanno detto: «Si, gli abusi esistono anche da noi». È già un grande cambiamenti rispetto al diniego. In Kenya ci sono difficoltà per i preti a denunciare i fatti alla polizia. Ho spiegato loro che le leggi Sexual Offense Act e Child Protection Act prevedono l’obbligo di segnalazione alle legittime autorità. Ma hanno paura. Perché presentarsi alla polizia non è sempre la migliore soluzione; si rischia di essere imprigionati per averlo fatto. Va sottolineato che recentemente un vescovo con formazione in diritto canonico ha segnalato alla polizia uno dei suoi preti per abusi su una bambina di dieci anni. La procedura penale è in corso. Constato che, poco alla volta, la formazione sulla prevenzione porta frutto».

  • Cosa si fa da parte della Chiesa?

L’associazione delle conferenze episcopali dell’Africa dell’Est (AMECEA) ha promosso un grande lavoro di sensibilizzazione sulla questione delle vittime. Dal Vaticano è giunta una spinta alle Chiese del continente africano sulla questione. Grazie alla Pontificia commissione per la protezione dei minori è stato compiuto uno sforzo perché gli episcopati si attrezzino con politiche di prevenzione, protocolli di intervento e codici di condotta. Nella conferenza episcopale del Kenya, ad esempio, è chiesto ai vescovi di produrre la propria politica diocesana in merito. Strumenti giuridici che i paesi anglofoni usano sempre di più. I Paesi francofoni sono un po’ più lenti. Sono stato recentemente in Burundi con i miei confratelli dell’Africa centrale e abbiamo elaborato indirizzi, protocolli e codici per la Repubblica democratica del Congo, il Burundi e il Rwanda. Faremo lo stesso per l’Africa australe nell’estate del 2025 e, l’anno prossimo, per l’Africa dell’Ovest.

  • Quando il silenzio si rompe cosa intuisce sull’ampiezza degli abusi nel continente?

Riguardo agli abusi sessuali sui minori da parte dei preti non saremo sullo stesso livello di quanto si può vedere in Europa o in America del Nord. È il mio modesto avviso sul tema della morale sessuale di cui ho parlato. Sarà piuttosto il caso dei missionari europei venuti a lavorare in Africa. La parola deve aprirsi.

Invece, penso che la vera questione riguarda le fanciulle minorenni e adolescenti come le donne adulte e le religiose. Suor Mary Lembo, congolese della congregazione delle Suore di santa Caterina d’Alessandria, con base a Roma, ha fatto la sua tesi sugli abusi sulle suore, un lavoro molto importante che può muovere le cose. Il tema chiede anche alle società di muoversi perché, fino a quando parlare sarà una vergogna, per le vittime la parola resterà muta.

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4 Commenti

  1. Guido 3 giugno 2025
  2. Adelmo Li Cauzi 2 giugno 2025
  3. Marco 1 giugno 2025
  4. Giuseppe 1 giugno 2025

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