
Una delle situazioni più disarmanti – o ironiche – nelle quali si può trovare un operatore pastorale o un ministro ordinato che ha alle spalle svariati anni di servizio ecclesiale è quella di dover prendere atto che il proprio modo di educare alla fede le persone, soprattutto i giovani, non funziona più, e che si sono ormai affermati stili formativi ben differenti dai propri.
In queste circostanze, si è come obbligati ad abbandonare metodologie pastorali a cui ci si era affezionati, e che magari, a suo tempo, si erano difese con passione, per cercare faticosamente di fare propri stili più efficaci.
Può cambiare il modo, non la sostanza
In realtà, vicende del genere sono del tutto normali. Le comunità cristiane non possono mai cessare di riflettere sul modo più adeguato di trasmettere l’esperienza cristiana, soprattutto alle nuove generazioni, e di affinare i propri modelli pastorali. Tuttavia, esse devono anche vigilare affinché le varie metodologie e strategie non finiscano per distorcere il messaggio cristiano, o più semplicemente per non renderlo più riconoscibile da parte dei credenti.
Proprio a questo riguardo, così scrive il padre J.-M.R. Tillard: «Nessuno può negare che l’insegnamento della fede non si può fare nello stesso modo per tutte le età della vita e per tutte le culture. Esso esige un’ampia varietà di metodi e di pedagogie. […] È importante però – ed è di nuovo una responsabilità molto seria del vescovo riguardo all’unità – che la Chiesa locale sappia che gli adattamenti della catechesi non mettono in causa la sua fede battesimale, in particolare la sua convinzione che Gesù è Figlio di Dio e l’unico Signore. Le altre forme di insegnamento e di annuncio della Parola, nelle quali si svolge la catechesi, devono mostrare che una simile catechesi non relativizza la fede e non cerca altro che la forma più adatta per trasmetterla. E un impegno che interessa tutta la Chiesa locale. Nell’osmosi delle funzioni e dei carismi, essa deve mettere la trasmissione della fede all’unisono con i bisogni e le mentalità del suo ambiente, della sua cultura e del suo tempo. Ma è necessario che la Chiesa vicina possa sempre ri-conoscervi la propria fede, sicché il loro Amen eucaristico abbia lo stesso contenuto» (J.-M.R. Tillard, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Queriniana, Brescia 1989, 265).
Insomma, per Tillard può esistere un modo efficace di trasmettere il cristianesimo che però smarrisce il suo contenuto essenziale, soprattutto quello cristologico, o lo esprime in un modo che non è più riconoscibile da parte delle comunità cristiane.
Ora, chi ritiene che il rinnovamento della missione ecclesiale nel mondo contemporaneo richieda un certo ridimensionamento della dottrina della fede, e anzi la libertà di decostruirla in quegli aspetti che non sono accettabili nella propria cultura, potrà accusare il teologo domenicano di tradizionalismo.
Eppure, Tillard ha sviluppato una coraggiosa visione ecclesiologica comunionale che certamente non è affine a chi vorrebbe escludere qualsiasi cambiamento nella teologia cristiana. Insomma, è difficile annoverarlo tra i tradizionalisti. Il disagio che si può provare davanti al suo testo dipende piuttosto dal modo in cui si comprende la verità.
Nell’odierna narrazione post-moderna, non possono esistere dei fondamenti trascendenti della realtà, come pure delle metanarrazioni universali del suo senso ultimo, per cui occorre accontentarsi di verità parziali, soggettive e temporanee.
Questa narrazione interpreta bene le caratteristiche della cultura attuale, e sembra essere un esito inevitabile del percorso filosofico occidentale, soprattutto dal nichilismo in poi. Non per questo, però, tale visione coglie correttamente la realtà. Anche la filosofia può ingannarsi.
Oltre a questo, forse fra qualche decennio si riterrà che gli anni che stiamo vivendo abbiano segnato la fine della post-modernità. Ne è segno il proliferare di metanarrazioni pericolose e talora deliranti che ormai non si possono più arginare negando il loro diritto di esistere – magari con la caratteristica ironia decostruzionista – ma solamente elaborando altre metanarrazioni aderenti alla realtà e proponendole con lo stile del dialogo.
Per qualcuno questo approccio porterebbe alla guerra, ma forse nel nuovo tempo che si sta affacciando potrebbe essere l’unico modo per costruire la pace.
Non tradire il Gesù dei Vangeli
In ogni caso, la teologia cristiana non può accettare di decostruire i suoi elementi fondativi per guadagnarsi il diritto di cittadinanza nel relativismo delle società contemporanee.
Presentando Gesù come semplice modello dell’umano, leader carismatico o superuomo si propone un modello di cristianesimo molto sintonico con le istanze culturali attuali, ma, come ha coraggiosamente rilevato papa Leone XIV nella sua prima omelia, questo volto del Signore non è affatto quello evangelico, ed è prossimo all’ateismo.
In effetti, ridurre il cristianesimo ad una via utile per trovare il senso della vita, per scoprire la propria unicità o per coltivare le relazioni autentiche con gli altri significa decretare la sua fine, perché per perseguire questi nobili obiettivi non c’è bisogno di un’esperienza religiosa, men che meno ecclesiale.
Si potrà obiettare che, seguendo le istanze di Tillard e di papa Leone, l’annuncio evangelico verrà sostanzialmente rifiutato in quanto anticulturale. In realtà, se si assume la visione neotestamentaria della salvezza, secondo la quale essere cristiani significa vivere nella relazione con Gesù e con il Padre per l’azione dello Spirito, ci si può chiedere per quale ragione una persona del nostro tempo dovrebbe fondare la propria esistenza su qualcuno che non vede e non tocca.
Evidentemente è solo per l’azione dello Spirito che questa relazione può essere percepita come reale, riempire la vita al punto da divenirne il fondamento. Qualsiasi processo di inculturazione, pur necessario per far capire il Vangelo, non ha alcuna possibilità di produrre autonomamente un esito del genere.






Non capisco proprio cosa significhi “Gesu Cristo è il Signore” se questo non ha un senso personale e relazionale che intercetta un progetto di vita ..mi sembrano parole vuote , scritte da teologi del secolo scorso : non concordo con l’autore .
Il rischio che si avverte nella predicazione migliore è che gli aspetti relazionali siano molto enfatizzati, mentre il kerigma: Gesù è il Signore non è individuabile facilmente od è assente del tutto. Concordo perfettamente con l’autore