“Donna, vita, libertà” e la propaganda di Netanyahu

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Jin, Jîyan, Azadî. Donna, vita, libertà. Dopo la morte di Mahsa Amini, la giovane studentessa kurda arrestata dalla polizia religiosa nel settembre 2022 e restituita cadavere ai genitori di lì a tre giorni, a migliaia le iraniane sono scese nelle piazze e nelle strade, protestando, scioperando, occupando università, bruciando hijab e chador, chiedendo ad alta voce democrazia e diritti per tutti. Tanti uomini si sono subito associati al moto di ribellione delle donne e, uniti insieme nel grido Jin, Jîyan, Azadî – Donna, vita, libertà –, hanno tentato di fare breccia nelle mura del regime teocratico della Repubblica islamica e della sua guida suprema Ali Khamenei.

Ci sono posti nel mondo dove combattere contro l’oppressione di genere e lottare per la parità, la libertà e i diritti umani comporta non solo il coraggio di metterci la faccia, ma il rischio di perdere la vita. In Iran la repressione non si è fatta attendere. Dai gas lacrimogeni per disperdere la folla ai colpi d’arma da fuoco sparati ad altezza d’uomo, il passo è stato breve e brutale. Gridare in piazza Jin, Jîyan, Azadî ha significato per centinaia di donne iraniane mettere a repentaglio la propria vita, subire arresti, processi senza garanzia di legalità, frustate, condanne a morte.

Cercando in rete si possono intravedere dei volti, ritrovare brandelli di storie. Come quella di Hadis Najafi, morta una manciata di giorni dopo Mahsa, anche lei, come Mahsa, a poco più di vent’anni, per mano di un cecchino che l’ha trucidata con sei colpi al petto, al volto e al collo. Di Hadis rimane la breve clip che immortala il gesto ribelle che le ha meritato la morte – legarsi i capelli biondi in una coda di cavallo, senza indossare il velo.

E poi ci sono le voci e i volti che sono divenuti, in tutto il mondo, simbolo della resilienza e della lotta per la libertà delle donne iraniane. Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace nel 2023, per vent’anni è entrata e uscita dalle carceri di massima sicurezza iraniane, subendo tredici arresti e cinque condanne. L’ultima, nel 2016, quando il Tribunale Rivoluzionario le ha inflitto sedici anni di carcere per «opposizione alla pena di morte» e «attivismo femminista».

Ma nessuna prigione è riuscita a rinchiudere la voce di Narges che, in modi fortunosi, ha sempre tentato di far arrivare le sue parole oltre le mura del carcere. Nell’ottobre 2024, ad un anno di distanza dal Nobel, il Corriere della Sera riportava una sua intervista in cui, a proposito del movimento Donna vita libertà, sorto spontaneamente l’indomani della morte di Mahsa Amini, Narges Mohammadi diceva[1]:

«Il movimento non solo ha chiaramente minato la legittimità del regime, ma ha anche rafforzato le fondamenta di vita democratica nella società. La Repubblica islamica non ha la capacità di creare un modello che si adatti a qualche forma di democrazia. Ha un serio conflitto con i diritti umani e delle donne. Non rappresenta la società iraniana di oggi a nessun livello, nemmeno quella religiosa».

Alla fine del 2024, Mohammadi ha ottenuto prima una sospensione della pena e poi la detenzione domiciliare per motivi medici – un tumore a una gamba. Era a casa sua, a Teheran, quando sono iniziati i bombardamenti israeliani. Anche lei, come migliaia di abitanti di Teheran, si è messa in auto cercando di scappare. Dal piccolo villaggio in cui ha trovato rifugio, ha affidato alla CNN un video messaggio in cui racconta la drammatica situazione della città, l’impossibilità per i civili – dieci milioni di abitanti – di trovare scampo dai bombardamenti, gli ordini di evacuazione che generano panico e non possono essere eseguiti, perché la gente non ha modo di trovare rifornimento per le auto e fuggire, il senso di abbandono, la paura[2].

E in data 21 giugno il Corriere della Sera ha pubblicato un’intervista in cui, alla domanda se il conflitto potrebbe trasformarsi, per il popolo iraniano, nella buona occasione per il tanto sbandierato regime change, così risponde[3]:

«Credo profondamente che la democrazia, i diritti umani e la libertà non si ottengano attraverso la violenza e le bombe. Chiedo che questa guerra venga fermata. La Repubblica islamica dell’Iran e Israele devono raggiungere un cessate il fuoco. Condanno questa guerra nel modo più fermo possibile. Il Medio Oriente ora è sommerso nel fuoco e nel sangue. Dove si può vedere un segno di speranza per la pace? Politici come Ali Khamenei, leader della Repubblica islamica, e Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele, sono la causa di tutto questo, perché promettono che si può costruire un futuro migliore attraverso la guerra, l’uccisione e la violenza: impossibile».

Il movimento Jin Jîyan Azadî ha acquisito anche una dimensione internazionale, nella forma Woman Life Freedom for Peace & Justice. Fra le più attive rappresentanti del movimento in Italia, espressione delle voci iraniane della diaspora, abbiamo Parisa Nazari, farmacista iraniana in Italia dal 1996, e Shady Alizadeh, avvocata, di madre italiana e padre iraniano. Lo scorso 17 giugno su La Stampa è stato pubblicato un loro accorato appello. Questo il testo integrale[4]:

«Come cittadine iraniane costrette a vivere fuori dall’Iran ma per questo libere di parlare a volto scoperto senza temere persecuzioni e arresti, vogliamo lanciare un appello urgente alla comunità internazionale affinché fermi gli attacchi contro le città iraniane da parte di Benjamin Netanyahu, accusato dalla Corte dell’Aja di crimini di guerra nei confronti della popolazione palestinese della striscia di Gaza. La società civile iraniana assiste inerme al prezzo più alto. Si tratta di una società civile giovane e progressista, che da anni lotta per porre fine alla dittatura religiosa della Repubblica Islamica con coraggio e determinazione, a costi altissimi.

È la stessa società civile che, dopo l’assassinio di Mahsa Jina Amini, si è sollevata sostenendo il movimento “Donna, Vita, Libertà”. È stata la disobbedienza civile delle donne a far indietreggiare il regime, portando il Paese a un cambiamento sociale ormai irreversibile. Il popolo iraniano è sceso in piazza a mani nude, sfidando arresti, torture, detenzioni arbitrarie e morte: non ha chiesto l’intervento militare di potenze straniere per abbattere il regime, ha chiesto invece il riconoscimento e il sostegno al cammino verso la libertà e la giustizia intrapreso da chi, da oltre quarant’anni, promuove i valori di democrazia e uguaglianza. Oggi le voci più autorevoli di questa società civile sono sorvegliate a vista. Ogni loro parola sulla crisi attuale può costare il carcere. Eppure è a loro che dobbiamo dare ascolto, non ai missili.

Gli attacchi degli ultimi giorni, che nonostante la retorica bellica colpiscono sì i pasdaran ma anche civili e oppositori, non porteranno la libertà. Israele, o qualsiasi altra potenza straniera, non può e non deve essere l’artefice del cambiamento in Iran. L’Iran sarà libero. Ma sarà libero grazie alle sue figlie e ai suoi figli. Non con la violenza esterna, ma con la forza di una società civile che continua a resistere.

Chiediamo a chiunque creda nei valori della pace e dei diritti umani di condannare fermamente, e con indignazione, l’uccisione di civili in Iran e nel resto del mondo, scendendo in piazza, firmando petizioni e promuovendo ogni azione utile per fare pressione sulla comunità internazionale affinché fermi un altro massacro. Fate tutto ciò che è in vostro potere per fermare questa pericolosa escalation militare.

La storia dell’umanità insegna che nella guerra non ci sono vincitori: tutti ne escono sconfitti. La democrazia non può essere realizzata attraverso la guerra e la distruzione».

 Jin, Jîyan, Azadî. Donna, vita, libertà. Il grido più forte e più bello che abbiamo sentito salire dalle piazze in questi ultimi anni. Se avessimo dubbi su cosa sia «propaganda» e di quali prodezze manipolatorie la propaganda sia capace, basta andarsi a rivedere il recente video in cui Benjamin Netanyahu, proponendosi come paladino della libertà del popolo iraniano, si appropria delle parole Donna Vita Libertà e le sventola come uno slogan con blasfema disinvoltura.


[1] Corriere della Sera, 8 ottobre 2024

[2] CNN, 20 giugno 2025

[3] Corriere della Sera, 21 giugno 2025

[4] https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/non-e-con-i-missili-che-si-porta-la-liberta/

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Un commento

  1. Laura 23 giugno 2025

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