
Luca dev’essere nato tra il primo decennio e il secondo d.C. nella città di Antiochia, la stessa città da cui Paolo e Barnaba partirono per il loro primo viaggio missionario (At 13,1-3).
Qui, la comunità cristiana era fiorente, tanto che i discepoli di Gesù furono chiamati “cristiani” per la prima volta proprio ad Antiochia (At 11,26). Deve poi essere morto tra gli anni Ottanta e i Novanta.
Cosa sappiamo di Luca?
Di Luca sappiamo alcune cose con certezza, mentre altre informazioni provengono dalla tradizione cristiana e dagli studi storici. Alcuni studi critico-letterari e storici dubitano dei legami di Luca con Paolo e con le sue Lettere, ma sappiamo che Luca fu presente nei viaggi missionari dell’Apostolo (At 16,10-17; 20,5-15), quindi ebbero certamente una collaborazione significativa.
Luca aveva pochi anni meno di Paolo, e visse probabilmente fino agli anni Novanta, attraversando più generazioni e testimoniando l’evoluzione delle comunità cristiane. Non pare che abbia incontrato Gesù, nonostante non fossero tanto distanti per anno di nascita. Non si sa niente nemmeno di una frequentazione con Paolo ad Antiochia.
Nonostante appartenessero alla stessa generazione, Luca ha vissuto abbastanza a lungo da vedere la trasformazione delle chiese sotto l’Impero. Negli Atti degli Apostoli non si menziona una persecuzione romana contro gli Apostoli, ma è possibile che le comunità locali abbiano subìto episodi di ostilità per il rifiuto del culto imperiale.
La sua opera
Se accettiamo la datazione del Vangelo di Luca e degli Atti tra l’80 e l’85 d.C., allora Luca avrebbe scritto quando l’imperatore era Domiziano, in un periodo in cui le prime forme di persecuzione verso i cristiani stavano emergendo, anche se non ancora sistematiche come quelle successive.
L’opera di Luca è il riferimento più sicuro per conoscere e approfondire in che cosa consista la sua fede. Di sicuro ha scritto una narrazione sulla storia di Gesù e della nascita e crescita della Chiesa per l’illustre Teofilo, con la premessa di verificare la solidità del racconto per la sua fede.
In questo senso, la veridizione che affida al suo lettore non è solo una verifica storica, ma un atto di fiducia nel protagonista della storia, Gesù, in un tempo in cui essere cristiani significava affrontare rischi concreti. La narrazione lucana, quindi, non vuole offrire tanto una certezza storica, ma vuole radicare la fiducia nella verità del Vangelo, affinché il lettore possa sostenere la prova della persecuzione con una convinzione solida.
Il tempo narrativo
Possiamo dire che Luca non cerca di dimostrare un fatto, ma di rendere disponibile la storia di Gesù come verità vivibile, una narrazione capace di illuminare la condizione di Teófilo. È in questa prospettiva che il tempo narrativo diventa uno strumento della fede: non solo, dunque, un’analisi ordinata degli eventi, ma un modo per dare alla Chiesa una visione coerente in tempi di crisi.
Questa è l’intenzione con cui Luca consegna a Teófilo la sua opera, ma l’intenzione è generata dalla sua fede, che non è la capacità di scrivere e articolare i pensieri, e prima ancora di fare ricerche accurate. Luca deve aver avvertito «Ciò che per la fede cristiana ha valore d’argomento è una storia disponibile come una narrazione».[1]
La ragione per scrivere la sua opera non può essere meno di questo: Luca deve essersi persuaso che la narrazione possa introdurre e trasmettere la fede, grazie alla «forma testimoniale della rivelazione (che) assegna un rilievo veritativo – non semplicemente manifestativo – alla storicità dell’azione umana».[2]
Non meno di questo, ma non va da sé e «non può essere anticipato all’effettività della sua realizzazione».[3] Per elaborare la narrazione, Luca deve aver “preso le distanze” da ogni forma di alleggerimento ideologico, da qualsiasi interpretazione riduttiva della vicenda di Gesù.
«La fede non è in carico alla filosofia, ma ciò di cui la filosofia s’incarica – l’antropologia – è essenziale per il realismo della rivelazione. La questione epistemologica della necessaria distinzione tra filosofia e teologia nella reciproca autonomia è relativa al riconoscimento che la finitezza umana non viene superata nell’evento di Dio».[4]
Luca deve aver fatto un “passo indietro” su tutte le sue fonti, un po’ come farà Manzoni alla fine dell’introduzione nei Promessi Sposi: «Non ci sarebbe mai stato autore che provasse così ad evidenza d’aver fatto bene. Ma che? quando siamo stati al punto di raccapezzar tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro. Veduta la qual cosa, abbiam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile d’un altro, potrebbe parer cosa ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo».
Qui Manzoni finge di criticare lo stile dell’autore del manoscritto. L’espediente gli permette di distaccarsi da quel tipo di scrittura e di giustificare la sua scelta di riscrivere la storia con un linguaggio più accessibile. Le sue digressioni non sono semplici interruzioni, ma luoghi di pensiero, anche in Luca i tempi narrativi non sono casuali: servono a creare quello spazio necessario perché la verità possa essere accolta e verificata. Manzoni aveva bisogno di rileggere, di ripensare, e Luca probabilmente faceva lo stesso, mettendo in movimento una narrazione che non è un’istantanea, ma il frutto di un percorso. E così Luca fa anche un “passo avanti”.
Le metafore del passo
Il “passo indietro” e il “passo avanti” sono metafore[5] che descrivono con precisione il processo narrativo di Luca. Il suo Vangelo e gli Atti non nascono da una scrittura immediata e impulsiva, ma da una riflessione prolungata, che ha richiesto tempo per maturare una capacità critica della fede da trasmettere a Teófilo.
Questi ritardi non sono solo pause nella scrittura, ma veri e propri momenti di riflessione, dove Luca ha affinato la sua opera. Così come la narrazione degli Atti mostra che la missione apostolica non procede in maniera lineare, ma attraverso momenti di crisi e di crescita, anche la scrittura dell’opera segue lo stesso principio: la fede non è data in maniera automatica, ma deve accompagnare il lettore in un processo di comprensione progressiva.
I ritardi e le rapidità devono aver guidato la stesura della sua opera. Il tempo narrativo di Luca, infatti, non è solo una scelta tecnica, ma riflette una profonda esigenza teologica: la fede non si impone: deve essere credibile, affinché venga accolta con consapevolezza.
Chi è oggi Luca?
Oggi si può essere come Luca, non tanto per ciò che si racconta, ma per il modo stesso in cui si racconta. Ogni scelta narrativa, ogni ritardo, ogni costruzione temporale rispecchia la capacità critica di Luca nel comprendere e nel trasmettere la fede. Ma la fede trasmessa non è immediata, ma si sviluppa attraverso tempi narrativi che permettono al lettore di entrare gradualmente nella storia. Questo passo narrativo crea lo spazio necessario affinché il racconto non sia solo un fatto riportato, ma una verità vivibile, capace di interpellare chi legge.
Oggi, chi si pone come Luca non cerca di dimostrare, ma di rendere disponibile una storia che interpella, lasciando che il lettore entri progressivamente nella verità narrata. Teófilo d’oggi, dunque, non riceve semplicemente un testo, ma viene chiamato a un affidamento attivo, in cui la parola scritta continua a generare domande e a creare spazio per la comprensione. D’altra parte, come allora, anche oggi la fede si trasmette nel tempo e nella narrazione, non come una certezza imposta, ma come un cammino che interpella chi si dispone ad accoglierla.
Dunque, chi può essere come Luca oggi?
Può essere Luca non per quello che racconta, ma per come vive la necessità di sedimentare la sua scrittura, che cerca di esprimere come oggi si possa incarnare il suo modo di pensare e trasmettere la verità. Può essere chiunque sappia raccontare non solo eventi, ma il tempo necessario affinché possano essere vissuti e compresi.
Luca può essere chi riconosce che la fede è esperienza e che l’esperienza richiede tempo. Può essere lo scrittore che non ha fretta di concludere, il testimone che lascia che le parole si sedimentino, il narratore che comprende che la verità si comunica non con dimostrazioni immediate, ma con un cammino progressivo.
Ma se oggi possiamo essere come Luca nel modo in cui raccontiamo, dobbiamo anche riconoscere che la sua Scrittura ha una qualità unica. Non è una narrazione qualsiasi: è un testo canonico e ispirato, e proprio in questo risiede la sua unicità. Mentre i nostri scritti e le nostre parole non hanno lo stesso carattere canonico, rimangono comunque significativi e determinanti.
Possiamo, allora, essere quanti percepiscono il vento leggero dello Spirito che ci porta all’ascolto della Parola, l’opera lucana e gli altri tre Vangeli. Le loro narrazioni richiedono una lunga sedimentazione che ci aiuta a non identificarci con Luca e a cogliere l’«equilibrio dinamico tra l’Evangelo e i Vangeli […] lasciarsi docilmente istruire dal diverso genio agiografico dei singoli evangelisti».[6]
È nella continuità con quella Parola che oggi possiamo offrire una testimonianza, lasciando che le nostre narrazioni siano guidate dallo stesso Spirito che animava gli scritti di Luca.
Può essere un’anziana, come quella vedova povera che gettava due spiccioli nel tesoro del tempio (Lc 21,1-4) o un giovane, al contrario di un altro che se ne andò triste alle parole di Gesù ‒ «Vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi» (Lc 18,22) ‒, Francesco d’Assisi che rinunciò a tutti i suoi beni per abbracciare una vita di povertà e servizio, spogliandosi pubblicamente dei suoi abiti davanti al vescovo.
Può essere il teologo che sa che la Scrittura non si impone, ma si offre e che il lettore di oggi, come il Teofilo di ieri, è chiamato non solo a ricevere una narrazione, ma a lasciarsi interrogare da essa. La fede non è un documento statico, ma un cammino che si compie attraverso la narrazione stessa.
[1] M. Epis, “Liberare la cristologia”, in “Il Regno – attualità” 2 / 2019, p. 31
[2] Idem.
[3] Idem.
[4] Idem.
[5] P. Sequeri, “Il sensus plenior della metafora”, Op. Cit. p. 8.
[6] R. Vignolo, “Raccontare Gesù secondo i quattro vangeli” sulla rete.






L’evangelista Luca risulta nato nel 9 d.C., terminato il tempo della riforma del calendario di Augusto. Se non si corregge a ritroso il calendario con i 5 bisestili mancanti, oltre a trovare gli stessi Consoli di tre anni prima, perchè sono saltate tre nomine consolari, si trova lo stesso calendario lunisolare e lo stesso calendario solare esseno col turno Abìa 8-14 terzo mese, cioè il Sabato ebraico 14 è anche Sabato 14 terzo mese (Sivan), cioè sono sincronizzati e risulta sabato 9 giugno 3 a.C.
Ma il Sabato reale è tre anni prima al 9 giugno 747 di Roma, 14 del terzo mese solare essenico e 14 lunisolare, stessi Consoli.
Quindi, oltre ai tre anni sul calendario risulta un errore di traduzione. Non Elisabetta si tenne la gravidanza nascosta 5 mesi, ma Elisabetta si è tenuta la gravidanza nascosta 5 mesi, cioè dal giorno dopo restano da contare solo 10 mesi ebraici, 295 giorni alla nascita di Gesù, che risulta primo aprile e 15 Nissan.
Mentre la data esatta di Gesù risulta alle Calende di marzo del 41 di Augusto (748 di Roma), tre anni ed un mese prima, cioè al censimento enumerativo in Oriente, mentre alle Calende di aprile 751 risulta un censimento registrazione beni.
In definitiva se non si fa la correzione sui bisestili mancanti di trova tutto come tre anni prima.