Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». (Lc 17,5-10)
La breve pericope evangelica sembra comporsi di due parole di Gesù, la prima, sulla fede, suscitata da una domanda dei discepoli e la seconda, la cosiddetta parabola dei servi inutili, che segue il primo detto senza una evidente concatenazione.
In realtà, è possibile leggere questa pagina considerandolo un testo unitario che pone l’attenzione sul tema della fede, come peraltro suggerisce anche la prima lettura tratta dal profeta Abacuc.
Vale anche la pena ricordare che il brano conclude la sezione del vangelo di Luca cominciata all’inizio del cap. 15 con le parabole della misericordia. L’orizzonte è dunque il medesimo dei testi che ci hanno accompagnato in queste ultime domeniche; l’espressione «chi di voi, se…» ricorda, in particolare, l’introduzione delle parabole della pecora e della dracma smarrite.
Il granello di senape
La prima parola di Gesù utilizza un’immagine, quella del granello di senape a cui è associata la fede che i discepoli manifestano. Essi hanno chiesto al Signore di accrescere la loro fede e Gesù risponde non con un rimprovero, ma con una constatazione: di per sé la frase esprime una condizione reale: «se avete (come avete) fede quanto… potete».
Emerge allora una dialettica che risulta molto bella: a fronte del riconoscimento da parte dei discepoli della loro mancanza di fede (chiedono che possa crescere), Gesù non disprezza tale povertà, al contrario le riconosce la possibilità di compiere qualcosa di straordinario, come parlare a un gelso e comandargli di sradicarsi e trapiantarsi nel mare.
Questa mi pare che sia la prima buona notizia del vangelo di questa domenica: a Gesù non importa la quantità della nostra fede, gli preme piuttosto la sua qualità, la sua autenticità. Riconoscere che essa è debole, fragile, piccola, probabilmente mescolata a incredulità e dubbio è un segno di verità e, paradossalmente, è segno della sua grandezza e della sua potenziale efficacia: se la mia fede è cosa piccola quanto un granello di senape, allora la sua efficacia non dipende da me, dalle mie prestazioni, dalla mia religiosità, ma dalla potenza di Dio che si manifesta in tale povertà.
La dinamica che appartiene alla fede è la medesima del Regno di Dio, che, non a caso Gesù paragona al granello di senape, un seme quasi invisibile, eppure capace di diventare una grande pianta (Lc 13,19).
Avere fede vuol dire pertanto non fidarsi di sé, ma affidarsi alla possibilità di Dio. È quanto fanno i discepoli rivolgendosi al Signore, confessando la loro mancanza e domandando che sia Gesù a colmare ciò che manca.
Il servo “inutile”
Credo che questo sia lo sfondo che permette di leggere la parabola successiva, un testo non simpatico, in cui pare emergere l’immagine di un padrone duro e di un servo, che, dopo aver compiuto tutto il compito affidato, non solo non riceve alcuna lode, ma è definito «inutile», come se il suo lavoro fosse stato vano e lui non servisse a niente. La parabola, infatti, vuole evitare di coltivare atteggiamenti di frustrazione, non si tratta perciò di dover ammettere di non valere niente, piuttosto vuole promuovere atteggiamenti positivi.
Il legame con quanto precede suggerisce che può riconoscere di essere un servo inutile colui che ha una fede povera e piccola come un granello di senape, e che riconosce di essere lui stesso povero e piccolo e quindi senza diritti e senza meriti da presentare.
L’immagine del servo è quella opposta al figlio maggiore della parabola del padre misericordioso.
Lì il figlio viveva con il padre una relazione intessuta dalla logica della retribuzione, dipendente dai meriti conseguiti con un lavoro fedele, ma privo di gioia, chiusa alla fraternità, in attesa di una ricompensa dai contorni gretti e meschini.
Qui, il servo compie il suo lavoro non perché attende una ricompensa o per poter reclamare qualche cosa di dovuto, ma perché è semplicemente il suo lavoro. Così egli potrà vivere una relazione con il padrone in cui gli sarà possibile riconoscere la dimensione della gratuità.
Nelle parabole del cap. 15 alla domanda «chi di voi se…» era spontaneo rispondere “nessuno”, ma poi il racconto evidenziava che il Padre era invece come il pastore che lascia novantanove pecore per cercare l’unica smarrita.
Il servo inutile incontra probabilmente un padrone che, quando torna dal lavoro si pone al suo servizio, non perché è condizionato dalla prestazione del servo, ma perché è buono, perché non gli interessa il lavoro, la prestazione, l’efficacia operativa del servo, ma il servo stesso. Potrà anche essere considerato inutile, ma per il padrone ha valore, indipendentemente dai suoi eventuali meriti.
Essere inutili vuole dire allora di essere grati per tutto ciò che si è ricevuto, ed essere liberi, sciolti dalle logiche dell’efficienza, della prestazione a tutti i costi, disponibili a compiere quanto viene affidato secondo lo stile dell’ascolto degli altri e della collaborazione semplice e senza pretese.





