Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre.
Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. (Gv 14,15-16.23-26)
Il brano del vangelo scelto dalla liturgia per la solennità di Pentecoste appartiene al lungo discorso rivolto da Gesù ai suoi discepoli durante l’ultima cena.
Questi versetti, nati dall’accostamento di due brevi unità del cap. 14 di Giovanni, hanno costituito una parte del testo che abbiamo udito durante la sesta domenica di Pasqua e perciò potranno risuonare familiari al nostro ascolto.
Lo Spirito è dono del Padre
In questo caso, la liturgia domanda di ritornare a porre l’attenzione sul tema dello Spirito, annunciato da Gesù come dono che viene dal Padre e resta nei discepoli per sempre. La dimensione di dono che viene dal Padre conferisce allo Spirito la qualità di gratuità che appartiene a ogni dono. Lo Spirito raggiungerà i discepoli a motivo della preghiera di Gesù, una preghiera che Egli sa che verrà certamente esaudita, e sarà una presenza che colmerà la sua assenza.
I discepoli non conoscevano lo Spirito, non lo hanno domandato, ma lo Spirito verrà come segno eccedente della cura del Signore che lascia i suoi, ma non li abbandona. Potrebbe stupirci l’accostamento tra il linguaggio dell’obbedienza ai comandamenti e quello del dono dello Spirito, ma questo “strano accostamento” e la funzione dello Spirito di cui subito parlerà suggeriscono che anche i comandamenti di cui viene richiesta l’osservanza sono dono prima che richiesta di impegno.
Gesù, nel domandare ciò che comanda, chiede ai suoi discepoli ciò che ha già donato loro. Osservare i comandamenti è infatti legato all’amare Gesù.
All’inizio e alla fine del passo per due volte lo Spirito viene chiamato da Gesù «Paraclito», cioè consolatore, ma anche difensore, avvocato. Anzi, all’inizio è detto «un altro Paraclito», come se già il Signore avesse assunto e compiuto questa funzione con i suoi. Di lui si annuncia che insegnerà ogni cosa e ricorderà quanto Gesù ha detto.
La sua funzione di consolazione e di difesa si articola quindi a quelle dell’insegnamento e della memoria, per una più profonda comprensione del mistero di Dio.
I compiti assegnati allo Spirito fanno riferimento soprattutto all’ambito dell’esercizio della parola, ambito per eccellenza “spirituale”, che caratterizza l’uomo come un essere spirituale.
Questo aspetto conferma ancora una volta che il Dio rivelato dalle scritture è un Dio che entra in comunicazione con l’uomo chiamandolo a vivere in comunione con Lui. Dio parla fin dal principio, perché egli è da sempre e per sempre essere di relazione.
È la sua parola ad essere sia rivelazione dell’originaria azione amorosa che ha liberato e libera l’uomo dalla schiavitù mortale, sia comunicazione di sapienza che insegna il cammino necessario per restare nella libertà e nella vita.
Il dono dello Spirito compie e, in un certo senso, suggella questa modalità, continuando a parlare all’uomo nella storia, per sempre.
Ognuno di noi è chiamato a sentire la voce dello Spirito, a riconoscerne il timbro, a percepirne la verità, perché è proprio questa capacità di consonanza con la rivelazione, che consente di aderire a Colui che parla. Siamo definiti da questa parola e per la presenza dello Spirito ne diventiamo interpreti nella storia.
È nel cuore che parla lo Spirito
Attraverso l’invio dello Spirito, comprendiamo, inoltre, che il Signore Gesù non ci sta rinviando a qualcosa che è esterno a noi. Ciò che rincuora e fa quietare l’ansia, ciò che dà forza e consolazione nell’incertezza non si trova, infatti, in una visibile e tangibile figura umana, per quanto affidabile e santa. Gesù rinvia ogni discepolo al proprio cuore, là dove lo Spirito abita. Ognuno è richiamato alla fede in questo dono già comunicato, fede nello Spirito che è principio di pace, strumento di intelligenza di ogni evento umano, sorgente di parola per suscitare in tutti la speranza.
Il tema della parola riceve risalto anche nella parte centrale del testo del vangelo, là dove si fa un riferimento esplicito al tema dell’ascolto e dell’obbedienza alle parole di Gesù, che sono quelle del Padre. Il rinvio a queste parole è essenziale per evitare la possibile deriva spiritualista o intimista.
L’ascolto dello Spirito e l’adesione alla sua azione interiore rifuggono da una deriva soggettivistica proprio perché sono ancorati alla Parola non solo sentita, ma accolta, compresa e realizzata.
La fedeltà obbediente alla verità della Parola del vangelo diventa la misura dell’accoglienza autentica dello Spirito e del consenso alla sua azione.
Chi vive nell’obbedienza alla verità riconosce la verità, chi ascolta Dio, nel suo intimo, riconosce lo Spirito che parla. Solo chi accede a questa condizione esce dall’incertezza e dalla paura, è difeso e consolato, perché sa che la sola parola che si realizza è quella divina, che parla di perdono e di vita, di amore eterno e di comunione perfetta.





