La voce dei profeti

di:

scaiola

Laica e sposata, l’autrice è docente preso la Facoltà di Missiologia della Pontificia Università Urbaniana e presso il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del matrimonio e della famiglia. È membro del Consiglio di presidenza dell’Associazione biblica italiana, del settore dell’Apostolato biblico della Conferenza episcopale italiana, del Coordinamento delle teologhe italiane e dell’Europea Association of Biblical Studies. Ha pubblicato diversi contributi e volumi, specialmente sui profeti minori.

In quest’opera Scaiola raccoglie diversi studi pubblicati sulla rivista Parola Spirito Vita (opportunamente rielaborati) e due inediti. Ella intende offrire riflessioni di natura filologica aperta a un’esegesi che abbia una dimensione teologica. Vengono offerte anche alcune linee di attualizzazione. Si studiano alcuni profeti anteriori (non scrittori, appartenenti alla storia deuteronomista) e alcuni posteriori.

Nella Prima Parte (pp. 11-44) l’autrice si sofferma dapprima sul modello del re giusto: Giosuè e Giosia, all’interno della tradizione deuteronomista. Analizza la figura del re nella tradizione deuteronomista, presentando Giosuè e Giosia come modelli esemplari della tradizione deuteronomista. Sono personaggi legati strettamente alla Torah del Signore trasmessa attraverso la mediazione di Mosè e alla sua realizzazione in una cornice di alleanza con YHWH. Ci sono le smentite storiche, soprattutto lo scandalo della morte del pio re Giosia.

L’osservanza della Torah e la fedeltà a Dio non garantiscono la riuscita nella vita e la morte del giusto non può essere interpretata come un castigo. Per il narratore, ciò che è importante è essere fedeli al Signore. La fede non è un’assicurazione sulla vita, ma una scelta libera e gratuita che, nel caso di Giosia, non riceve alcun tipo di ricompensa ma addirittura vede un esito drammatico, che tuttavia non toglie nulla del suo valore.

Scaiola analizza il testo di 1Re 19,1-18, incentrato sul profeta Elia, in fuga dalla persecuzione di Gezabele. Studia da vicino il testo, dopo averne presentato la struttura: a) fuga verso Bersabea (vv. 1-3); b) cammino nel deserto (vv. 4-8); c) incontro con Dio sull’Oreb (vv. 9-18); d) incontro con Eliseo (v. 19-21).

Il centro del racconto potrebbe essere costituito dal nuovo incarico dato a Eliseo, oppure il cammino di quaranta giorni nel deserto come Israele aveva camminato quarant’anni nell’esodo dall’Egitto. Se ci si concentra sull’Oreb, il capitolo potrebbe essere visto come un rinnovamento dell’alleanza. Altri affermano che Dio rimanda al suo impegno Elia che fugge dalla terra di Israele. Potrebbe esser sottolineato anche il senso dell’alterità e del mistero di Dio. Dio non è presente solo nel fuoco e nella tempesta, è anche presente nella sua parola, ma anch’essa è uno strumento che comunica l’ineffabilità di Dio. I profeti devono essere consapevoli dei loro limiti e del fatto che la realtà di Dio è al di là della loro comprensione.

I profeti maggiori

La seconda parte del libro è dedicata ai profeti maggiori (pp. 45-90).

Isaia

Nel c. III si studia Is 54,1-17, come le sue metafore e l’intertestualità. Si ripercorre la rilettura di Is 54,1 in Gal 4,27. Dopo il c. 53 dedicato al Servo di YHWH, la metafora di Is 54 riguarda una donna, che diventa chiaramente una città, invitata all’esultanza perché, da una situazione drammatica di vedova e abbandonata, si ritrova trasformata dal Signore. In un impeto di collera Dio ha nascosto ad essa il suo volto.

Is 55 sottolineerà l’universalità dell’annuncio salvifico e lo sforzo di comprensione e di discernimento che il lettore deve fare perché i pensieri del Signore sono diversi da quelli dell’uomo. Anche Is 54 richiede uno sforzo di comprensione perché non è a prima vista evidente perché debba gioire una donna che si ritrova in una situazione drammatica.

Dopo la traduzione e la struttura di Is 54,1-17, vengono fatte delle osservazioni di carattere esegetico sui vari passaggi: la donna sterile, la donna vedova, la donna ripudiata, la trasformazione delle sorti, la compassione e l’alleanza. Nella seconda parte del brano (vv. 11-17), si descrive la ricostruzione di una città usando una metafora femminile.

La citazione di Is 54,1 in Gal 4,27 mostra che il rapporto tra i due Testamenti non corrisponde sempre allo schema promessa-compimento, ombra-luce, ma che, spesso, esso è invece più articolato, complesso e non del tutto evidente.

Is 54,1-7 mostra che c’è speranza per il popolo che ha vissuto l’esilio per volontà di Dio. A livello comunitario o storico e a quello personale si sottolinea il fatto che il cambiamento può avvenire solo sulla base dell’amore di Dio e sulla sua capacità di rinnovare fin dalle fondamenta l’esistenza umana. Egli è infatti in grado di realizzare ciò che annuncia, essendo il Creatore, il redentore, il parente prossimo che si rende solidale nel bisogno. C’è il dono e l’impegno umano: nella città ricostruita ci sono figli che scelgono di diventare discepoli, esprimendo in tal modo il loro essere servi del Signore. Il dono gratuito divino è capace di suscitare un dinamismo di risposta che si esprime nella scelta del discepolato e nel servizio di Dio.

Geremia

Il c. IV è dedicato a Geremia. I temi sono quelli della fiducia in Dio e della fiducia del profeta, e ci si interroga se Dio sia un torrente infido. Il rapporto tra il profeta, “uomo di Dio”, e il suo Signore si direbbe caratterizzato per antonomasia dalla fiducia. Eppure Geremia mostra che questa caratteristica della fede non può essere considerata come un possesso, ma è piuttosto un’acquisizione che talora viene messa in discussione e poi magari anche ritrovata, riaffermata, per tornare in seguito a essere oggetto di dibattito e di successiva “conquista” (cf. p. 65).

Scaiola analizza Ger 15,10-21 e 17,5-18, testi emblematici e collegati fra loro, adatti a illustrare la dinamica, anche esistenziale, che caratterizza il rapporto tra Dio e l’uomo.

Ger 15,10-21 presenta Geremia come “uomo del litigio” in mezzo al suo popolo, a causa della parola di Dio che deve annunciare. Geremia deve tornare a Dio, sentito invece dal profeta come un torrente infido. Non c’è una risposta esplicita di Geremia, anche se sembra che implicitamente si sia rimesso in cammino. L’autrice offre osservazioni di carattere testuale e anche alcune di natura esegetico-teologica.

Ger 17,5-18 è un testo che si interroga su chi confidare. Il popolo si interroga dove sia la parola di Dio e invoca il suo compimento. Geremia denuncia il suo essere perseguitato e invoca spavento e distruzione per i suoi avversari.

L’esperienza del profeta, il cammino di guarigione che egli compie e che lo porta ad affidarsi totalmente a Dio, è insieme personale e comunitario. Nell’esperienza di Geremia si può leggere la storia del popolo, i suoi dubbi, gli interrogativi circa la propria vocazione ed elezione, il bisogno di conversione ecc.

Ger 15,13-14 è ripetuto in 17,3-4. Ger 15,10-21 ha quindi probabilmente una dimensione comunitaria. «Il percorso che induce il profeta a fidarsi di Dio è dunque parallelo a quello che tutto il popolo è chiamato a fare, o almeno a desiderare di intraprendere nel momento in cui riconosce il suo bisogno di guarigione interiore» (p. 79).

Ezechiele

Il c. V è dedicato alla celeberrima visione delle ossa aride (Ez 37,1-14). Dopo una breve introduzione, Scaiola traduce e analizza la visione (vv. 1-10) e l’interpretazione della visione (v. 11-14).

Nel brano, il Signore appare sia come creatore che come liberatore, l’unico in grado di realizzare la missione impossibile di dare la vita a ossa inaridite. La promessa di Dio riguardante il popolo è incondizionata e l’uomo che sperimenta una disperazione profonda è confrontato con la natura incondizionata della promessa divina di vita. L’offerta di vita nel presente contesto assume la forma precipua del perdono concesso a chi non se lo merita e neanche lo chiede.

Il brano presenta il fenomeno dell’intertestualità. Si collega a Gen 2 sulla creazione dell’uomo e presenta una dinamica di movimento dalla morte alla vita, dal caos all’ordine, come avviene nel racconto della creazione.

In senso stretto, Ez 37 non parla della risurrezione di individui, ma del ritorno in vita di un popolo “morto” a seguito della catastrofe del 586 a.C. Riguarda la collettività e non singole persone. Ciò non esclude che, in tempi posteriori, la pericope sia stata riletta e interpretata nel senso della risurrezione corporale di singoli individui. Il termine ruaḥ – “vento, spirito, soffio, respiro” – si ripete dieci volte, con significati diversi: respiro dell’uomo, forza che permea la creazione, “lo spirito di Dio”. «Lo Spirito non parla – annota Scaiola –, ma la sua presenza è evidente; non si vede, ma fa muovere le cose; esso rimane nascosto e misterioso, ma lo si riconosce dagli effetti che produce […]. Lo Spirito viene dato anche oggi alla Chiesa ed esso è connesso a un atto profetico che siamo chiamati a svolgere in vista del discernimento della realtà in cui viviamo» (p. 90).

I profeti minori

La terza parte (pp. 91-147) è dedicata ai profeti minori. Oltre all’analisi dei testi, l’autrice offre anche alcune indicazioni che fanno percepire il legame di un libro profetico con gli altri che componevano il libro unico dei Dodici.

Osea

Dapprima si studia Os 11,1-11, con la sua paradossale rivelazione divina. Il profeta Osea è famoso per la sua insolita vicenda matrimoniale e per la frase sulla misericordia preferita ai sacrifici citata da Mt 9,13 e 12,7.

L’autrice si sofferma però a studiare il c. 11, analizzando il genere letterario del rîb, procedura giuridica extragiudiziaria tendente a ristabilire la giustizia, specialmente in ambito familiare. Gli autori biblici lo impiegano spesso per descrivere il rapporto tra Dio e il suo popolo.

Nel complesso del libro, Os 11 si concentra sulla storia di Israele, confrontandosi specialmente con il carattere problematico dell’alleanza. Il libro di Osea si compone di tre parti (cc. 1–3; 4–11; 12–14). C’è corrispondenza tra Os 11 e Os 3. Os 11 affronta in maniera originale un problema cruciale e presenta un’immagine di Dio che anticipa alcune pagine del NT e può essere considerato un vertice della teologia dell’AT.

Scaiola presenta la struttura della pericope, quindi offre la traduzione e il commento. Il testo si articola in tre parti: il passato (vv. 1-4); il presente (vv. 5-7); il futuro (vv. 8-11).

Nelle osservazioni teologiche la studiosa fa notare come il mistero di Dio sia descritto usando varie immagini simboliche. L’immagine soggiacente è quella del processo fatto a Israele paragonato a un figlio ribelle (cf. cosa la legge prescrive in questi casi: Dt 21,18-21).

Significativamente c’è la dichiarazione di rinuncia a proseguire nella causa, un cambiamento che si basa esclusivamente su qualcosa che avviene in Dio, e che appare senza ragione se messo in relazione al comportamento del figlio Israele. Dio lo chiama “figlio mio”. La parola di Dio chiama all’esistenza e lo fa in Egitto, terra di schiavitù e di alienazione, in una situazione in cui Israele non aveva meriti da accampare, e si limitava a gridare il suo dolore e la sua angoscia.

Dio appare come colui che chiama alla vita, per amore, e in vista di una relazione segnata dalla reciprocità. Israele nega di ritornare a Dio. Solo il cambiamento di Dio (v. 9) realizzerà il miracolo, permetterà cioè al popolo di “camminare dietro al Signore”. Dio è all’inizio e alla fine del processo: chiama (v.1) e ruggisce (v. 10), permettendo al popolo di diventare quello che Dio aveva sognato che fosse: figlio (vv. 1.10).

L’autrice indica, infine, il rapporto tra Osea e il libro dei Dodici: si trova proprio all’inizio, prima di Gioele e Amos. Il tema centrale del ritorno sarà ripreso in modo differenziato anche da Gioele e Amos. Osea chiude il suo libro con un appello rivolto al popolo affinché ritorni al Signore (Os 14,2-4). Non sappiamo come Israele risponderà a tale appello e il libro di Osea rimane aperto. Gioele sposta la scena dal regno del nord a Gerusalemme, per far capire che il messaggio profetico riguarda sia Israele che Giuda. Gioele dichiara che “anche ora, persino ora” (Gl 2,12) la via della conversione a Dio è aperta. Amos sviluppa il tema in modo negativo: in 4,6-11 per cinque volte ripete “e non siete tornati a me”.

Abacuc

Il capitolo dedicato ad Abacuc sottolinea la tensione fra attesa e fede: “Se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà” (Ab 2,3).

Scaiola esamina in modo ampio il vocabolario dell’attesa. Si riflette quindi sull’attesa del profeta, traducendo e delimitando la pericope di Ab 2,1-4. Vengono poi presentate alcune osservazioni di carattere esegetico e alcune riletture di Ab 2,4 (nella LXX; in Rm 1,7; Gal 3,11; Eb 10,38).

Paolo fa riferimento solo alla fede/fedeltà dei credenti in Cristo. Eb 10,37-38 rilegge il testo con una chiara valenza messianica. Il pronome possessivo “mio” non si riferisce più alla fede ma alla persona del giusto. Il testo viene recepito come un corpo vivo, che si applica a contesti sempre nuovi e permette di comprendere in modo creativo, al di là di ciò che l’autore iniziale intendeva comunicare.

Abacuc affronta una problematica molto attuale, quella dell’esistenza della violenza nel mondo, di fronte alla quale Dio non sembra intervenire. Denuncia anche lo sconvolgimento della giustizia. Tuttavia, il profeta «indica anche un atteggiamento da assumere nell’attesa di ricevere una risposta dal Signore, quella della resistenza, della resilienza, della fede che si affida al compimento della promessa di Dio» (p. 121).

Ab 2,4 è stato riletto e applicato a contesti nuovi, che hanno manifestato «valenze di significato diverse da quelle intese da chi ha scritto il libro, ma comunque valide e significative anche per noi oggi» (ivi).

Sofonia

Sofonia 3,14-20 è un inno alla gioia. Dio gioisce e si rallegra per il suo popolo, con i suoi. Le metafore fanno trasparire un Dio ricco di sentimenti, di passione, che instaura con il suo popolo una relazione caratterizzata da grande reciprocità e intensità.

Il brano conclude un libro che contiene quasi esclusivamente oracoli negativi e rovescia quanto detto al suo inizio (1,10-16). Lì Dio era presentato come un guerriero distruttore, mentre ora è descritto come un guerriero che salva; al rumore della battaglia si sostituisce il suono gioioso della celebrazione liturgica. Il giorno del Signore non appare più come giorno di tenebra e di oscurità, di rovina e di sterminio: alla fine del libro esso assume tratti esclusivamente positivi.

Sof 3,14-17 è un invito alla gioia e parla della bontà di Dio in terza persona; 3,18-20 annuncia un lieto fine e impiega la prima persona singolare riferita a Dio.

Sofonia presenta quindi un epilogo sorprendente. C’è un contrasto tra il tono di giudizio che permea i primi capitoli e la conclusione luminosa.

Dal punto di vista teologico, è interessante notare il modo con cui un libro inizia, ma anche come esso termina. Alcune conclusioni sono sorprendenti e intriganti. Si pensi alla domanda aperta con la quale si conclude il libro di Giona o alla conclusione breve del Vangelo di Marco.

Dopo molti oracoli negativi, Sofonia termina con la gioia del Signore nei confronti del suo popolo. È una gioia reciproca e mutua e «si manifesta indipendentemente dalle circostanze esteriori, prescinde da tutte le condizioni di vita. La gioia del popolo esprime la fede nella bontà di Dio, il quale “cambierà le sorti” del suo popolo» (p. 135).

«Senza menzionare alcuna conversione da parte del popolo, il testo insiste piuttosto sul fatto che Dio revoca il giusto giudizio dovuto per i peccati commessi dal popolo; egli, infatti, resta in silenzio, cioè non reagisce nei confronti del male commesso dalla città, ma libera invece il suo popolo da ogni “nemico”. Ci si potrebbe chiedere il motivo di questo cambiamento e forse la risposta sarebbe quella offerta da Osea: “Io sono Dio e non un uomo” (Os 11,9)».

All’interno del libro dei Dodici il tema insistente del giudizio che termina invece in modo positivo accomuna Sofonia e Amos (9,11-15). Dio decide di cambiare le sorti del suo popolo. La punizione è motivata dal crimine, il rovesciamento del destino di Israele non è determinato da un suo comportamento specifico. Non è Israele che si converte, è Dio che cambia la storia (cf. p. 135 con la citazione di un testo di P. Bovati e R. Meynet).

Scaiola annota come Sof 3,14-20 contenga una delle più profonde esclamazioni di gioia nella Bibbia ebraica. Usa ben sei termini ebraici diversi. Appare un Dio ricco di passioni, capace di trasformare le situazioni più disperate, colmandole di vita. «Anche quando il Signore tace, sembra dire Sofonia, lo fa per amore, per non essere “costretto” ad agire secondo giustizia, comminando la giusta punizione per il peccato. Su questi elementi teologici, espressi in modo metaforico, siamo invitati a riflettere, confrontando con essi le rappresentazioni di Dio che coltiviamo nel profondo» (p. 136).

Naum

Il c. IX è dedicato a Naum, «un profeta scomodo e inattuale» (p. 137). Naum è considerato un testo imbarazzante. Secondo alcuni studiosi Naum è un falso profeta per il giudizio durissimo che egli esprime nei confronti di Ninive, di cui celebra con gioia la fine, elaborando un testo di raffinata qualità poetica, ma di scarso valore teologico. Molti hanno contestato il suo linguaggio aggressivo (scene di massacro, Ninive presentata come una prostituta, la nudità come forma di umiliazione ecc.). Scaiola non è d’accordo con questa valutazione. Perché allora leggere ancora Naum, considerandolo ispirato, canonico e valido anche per noi oggi?

Vengono presentati il testo di Na 3,1-7 e la sua struttura. Nelle osservazioni esegetiche si descrive la prima parte, l’assalto (vv. 1-3) e la seconda parte, Ninive (vv. 4-7). Questi versetti disturbano il lettore moderno a motivo delle umiliazioni subìte dalla città rappresentata come una prostituta che viene spogliata e offesa pubblicamente.

Scaiola fa notare che il termine ebraico per “prostituta” viene usato anche per il comportamento di un’adultera e, più in generale, per l’adorazione di divinità straniere diverse dal Signore. Si allude a un genere di infedeltà nelle relazioni, che, a seconda dei casi, si traduce in modi diversi.

La dea Ishtar, principale divinità venerata a Ninive, era chiamata prostituta nei testi religiosi mesopotamici, i quali lodano questa divinità. Dea dell’amore e della guerra, era dipinta come potente, seduttiva e pericolosa. «La seduzione esercitata da Ishtar e la rovina di quelli che accettavano o rifiutavano le sue avances corrisponde al modo con cui l’impero neo-assiro trattava i suoi vassalli» (p. 142).

Scrive l’autrice: «L’ironia di Na 3,7 consiste, dunque, nel rovesciare la diffusa celebrazione del corpo nudo di Ishtar, messa in evidenza sia dalla letteratura che dall’arte del tempo, rimuovendo la menzogna rappresentata dal corpo nudo di Ishtar e rivelando, invece, l’orrore che la promiscuità con il pantheon assiro avrebbe apportato. In conclusione, il testo di Naum, a nostro avviso, non descrive uno stupro, ma piuttosto una profanazione cultuale, rappresentando Ninive e Ishtar come figure macabre, non erotiche» (p. 143).

Ninive aveva sedotto molte nazioni facendo balenare loro la promessa di ottenere grandi benefici; in realtà, l’intenzione dell’Assiria era quella di dominarle e di sfruttarle sia politicamente che economicamente. Le nazioni hanno sperimentato che le promesse di Ninive portavano alla distruzione. «YHWH rivelerà la vergogna della città davanti alle nazioni, le quali vedranno che Ninive non gestisce, in realtà, il potere. Si realizza una trasformazione delle sorti: quando Ninive invadeva delle città, infatti, i prigionieri venivano umiliati togliendo loro i vestiti, lasciandoli nudi in pubblico per indicare la loro sconfitta. Questa trasformazione delle sorti è una rivelazione, come si evince dall’uso del verbo glh (v. 5), che significa “rivelare, scoprire, andare in esilio”» (p. 144).

Scaiola conclude affermando che non si descrive uno stupro, ma che il testo dimostra che il profeta conosceva bene il contesto assiro contro il quale prende posizione, rivelando la realtà che si nascondeva dietro l’apparenza seduttiva esercitata da Ninive/Ishtar.

All’interno del libro dei Dodici esiste un rapporto tra la critica che Michea rivolge rispettivamente a Samaria e a Giuda e il giudizio che Naum formula nei confronti di Ninive. I peccatori non sono solo gli altri. Naum è collegato ad Abacuc dal titolo “oracolo”, che significa anche “peso, carico”; in senso metaforico può assumere il significato di giudizio, e in entrambi i libri è collegato a una “visione”.

Giona e Naum condividono il riferimento a Ninive, di cui si celebra, rispettivamente, la caduta, e la salvezza, a motivo del pentimento della città. Non esiste un unico comportamento da assumere nei confronti del nemico. La sconfitta di Ninive è consolazione per Naum, ma, secondo Giona, gli odiati nemici danno credito alle parole di un profeta di Israele ben più di quanto fece Gerusalemme, alla quale furono mandati numerosi profeti che tuttavia rimasero inascoltati. (cf. p. 145). I testi non rispondono alla domanda su quale atteggiamento bisogna adottare nei confronti del nemico. Deve rispondere il lettore.

Sembra importante riportare le parole conclusive dell’autrice sull’attualità della profezia a tratti “imbarazzante” di Naum.

«Naum si rivolge a persone che stavano sperimentando l’oppressione del nemico, invitandole a immaginare una realtà alternativa a quella che stavano vivendo in quel momento, sognando il momento in cui YHWH avrebbe distrutto il nemico. La fine dell’oppressore crea la speranza di un futuro di libertà per un popolo oppresso. In un contesto di guerra e di dominio, è comprensibile che il profeta usi metafore prese da questo ambito per contrastare gli atti di guerra e di oppressione che il popolo stava sperimentando. Il linguaggio e le metafore usate da Naum sono espressioni estreme che esprimono la rabbia e la frustrazione vissute dal suo pubblico; tuttavia, esse non vanno intese letteralmente come un invito alla violenza, ma hanno una valenza profetica; la loro funzione è infatti quella di svelare il senso profondo della realtà andando al di là del fascino esercitato da Ninive/Ishtar, per individuare l’orrore e la violenza che tale realtà celava. Le atrocità commesse da Ninive/Ishtar, per individuare l’orrore e la violenza che tale realtà celava. Le atrocità commesse dall’esercito assiro erano leggendarie […] Naum prende posizione contro questo tipo di potere, esercitato attraverso la seduzione e la menzogna, come si diceva in precedenza. Per anni, l’Assiria ha mentito ai suoi alleati, promettendo loro prosperità, e opprimendo invece i suoi vassalli. Ninive si è dunque comportata come una prostituta, che aveva nella dea Ishtar uno dei simboli più potenti, seducendo nazioni più deboli e povere con il suo fascino e la sua ricchezza. […] Naum presenta una certa attualità perché invita i suoi lettori a interpretare in maniera profonda la realtà nella quale essi vivono. Egli utilizza metafore che oggi possono suscitare fastidio e imbarazzo; le metafore, infatti, sono espressione di un tempo e di una cultura specifiche, e quindi vanno, in primo luogo, decodificate a partire dal contesto nel quale sono nate. Il passo successivo è quello di renderle significative per i lettori attuali, un processo in continuo divenire, anche a motivo della pluralità degli attuali contesti, un compito difficile, ma imprescindibile, se si crede che stiamo comunque di fronte a un testo profetico, canonico e ispirato, dunque valido anche per noi oggi» (pp. 146-147).

Gerusalemme

A mo’ di conclusione, Scaiola scrive su Gerusalemme fra accusa e distruzione. Quale speranza?

Nelle pp. 149-150, che seguiamo da vicino, Scaiola ricorda che l’etimologia di Gerusalemme rimanda alla pace, eppure soprattutto nei testi profetici più volte questa città è accusata di essere un luogo in cui si praticano l’ingiustizia e la violenza. Gerusalemme è chiamata “citta fedele” (Is 1,21.26) o “città sanguinaria” (Ez 22,2; 24,6.9).

Alcuni aspetti che qualificano la città risultano alterati nel loro senso proprio a causa del peccato che si commette a Gerusalemme: la dimensione economica, quella politica e quella cultuale.

Dal punto di vista economico, la città rappresenta il punto di arrivo del desiderio dell’uomo. È luogo di stabilità, di fecondità, di commercio, di godimento dei beni. Esprime stabilità e sicurezza e, dal punto di vista religioso, costituisce il punto di arrivo dell’Esodo.

Dal punto di vista politico la città rappresenta il luogo dell’unità del popolo. È circondata da mura, offre sicurezza, è regolata da leggi giuste del tribunale e il re è garante della vittoria sui nemici.

Dal punto di vista cultuale, la città di Gerusalemme è il luogo in cui c’è il tempio, il segno tangibile della presenza di Dio (Sal 46; 48), in cui si va a incontrarlo. Il tempio rappresenta il fondamento trascendente della dimensione antropologica. Dio è, in ultima analisi, la radice del bene, della vita e della fecondità, che la città esprime. Lui è principio di difesa e di giustizia (Sal 94; 99). L’origine della bellezza di Gerusalemme, luogo verso cui tende il desiderio dell’uomo, è il Signore.

Purtroppo, a motivo della capacità che l’uomo ha di pervertire qualsiasi realtà positiva, in alcuni testi profetici la realtà di Gerusalemme è completamente rovesciata e i profeti, soprattutto Isaia, Michea, Sofonia, Geremia ed Ezechiele, denunciano ampiamente le ingiustizie commesse da Gerusalemme.

Scaiola analizza alcuni testi che ricordano l’accusa e le sue cause. Is 1,21-26 denuncia la dimensione economica del peccato; Ger 6 descrive la dimensione politica del peccato, mentre Ez 22,1-62 dipinge la dimensione cultuale del peccato.

La speranza è descritta in Is 2,2-5 (e nel testo parallelo di Mi 4,1-3). Il pellegrinaggio dei popoli a Gerusalemme è generato dalla presenza della parola e della Torah. Non ha fini cultuali. I popoli cercano l’insegnamento.

Il risultato dell’irradiazione della Torah e della parola sarà la pace. Questa concezione è espressa attraverso l’immagine della trasformazione del materiale militare in strumenti pacifici per la coltivazione dei campi. La pace appare come un atteggiamento attivo. Non si tratta soltanto di non lottare, ma di invertire la tendenza naturale degli uomini che, dal tempo di Caino in poi, spesso si alzano contro il fratello. La pace si avrà fin d’ora e non solo all’escatologia, solo se si camminerà alla luce del Signore. La pace è il risultato dell’insegnamento, ascoltato e accolto, di YHWH e della decisione dei popoli di abbandonare il cammino della violenza.

Secondo l’autrice, la realtà singolare e unica di Gerusalemme parla a noi oggi, svela le ambiguità e la violenza che volentieri mascheriamo sotto la parola “pace” e ci mette di fronte agli occhi quello che non vogliamo vedere. Ma anche per noi l’accusa non è l’ultima parola.

Il testo di Isaia, con la sua carica ideale ma attuale, si offre a noi come via concreta per riscattare la nostra convivenza umana e renderla sempre più simile a quello che Gerusalemme dovrebbe essere e che Gerusalemme simboleggia.

Nei testi di accusa la radice della corruzione sta soprattutto nei capi, che contagiano gli altri. In Is 2 la soluzione invece viene direttamente dal Signore, attraverso la sua istruzione e la sua parola, non dalla speranza riposta in nuovi governanti.

La soluzione, inoltre, che Isaia prospetta «è universale, coinvolge Israele e le genti, e si offre concretamente a noi, come dicevamo, perché la traduciamo in realtà attraverso le scelte di ogni giorno» (p. 164).

Alle pp. 165-176 si trova la bibliografia, mentre a pp. 177-180 è riportato l’Indice dei nomi.

Testo molto ricco, con proposte filologiche, esegetiche e teologiche che richiedono una certa preparazione, ma che si offre ai lettori come un’interpretazione solida di testi biblici non sempre facili da decodificare.

  • DONATELA SCAIOLA, La voce dei profeti. Studi (Studi biblici), EDB, Bologna 2024, pp. 184, € 20,00, ISBN 9788810978825.
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