Legge e libertà

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Romano Penna, docente emerito di Nuovo Testamento alla Pontificia Università Lateranense e professore invitato al PIB e in molte Facoltà teologiche italiane, riflette sul rapporto tra legge e libertà per far emergere la novità cristiana rispetto al mondo greco-romano, giudaico e anche della mentalità imperante ai nostri giorni.

Nel mondo greco la moralità è dedotta unicamente dalla natura dell’uomo e fa astrazione da qualsiasi potenza superiore che regoli il suo agire dal di fuori. La moralità è fondata solo nella legge di natura e nella ragione inerente all’uomo (anche se gli epicurei la riducono alla convenienza dell’utile e i cinici esaltano la licenziosità).

Il giudaismo venera, invece, un dio personale, che guida la storia e dona la sua legge come livello elevato, perché il popolo cammini per essere alla sua altezza.

L’AT non tematizza il rapporto tra legge e libertà, ma riserva il linguaggio della libertà all’intervento di Dio come liberatore di Israele con l’esodo dall’Egitto. La Legge donata a Israele è “seconda” rispetto alla grazia inziale della liberazione. La Legge donata da Dio forma la griglia, la piattaforma, la cornice e anche il quadro di quello che questo Dio di Alleanza richiede al suo partner che è Israele. I rabbini espliciteranno in seguito una serie di 613 precetti, fra positivi e negativi.

Per gli stoici greci l’unica legge da seguire è quella naturale, da cercare in sé stessi e da perseguire per avere la felicità. «Per essere buono, basta volerlo», afferma Seneca. Importante è vivere secondo la razionalità dell’uomo stesso e nel dominio di sé, con cui si raggiunge la felicità.

Nel NT ci sono tre significati della Legge.

La Torah, tradotta con nomos, rivela tre accezioni. La prima è il Decalogo rivelato da Dio a Mosè. C’è anche una legge non scritta, una legge di natura. Infine, nomos è riferito al Pentateuco interpretato come “Scrittura” che, assieme ai Profeti, rimanda al canone delle sacre Scritture.

Per il giudaismo è importante il «“fare”. «La legge chiede l’azione e non la fede» (E. Fromm). Il fare conta più del credere. Jacob Neusner ha riscontrato in Gesù una carenza di legge, ma i cristiani sono contenti che Gesù non sia stato un legislatore.

A sua volta, la comunità di Qumran era legata all’osservanza della legge da vivere all’interno della comunità della nuova alleanza come essa si considerava. L’appartenenza alla comunità veniva posta addirittura al di sopra della pura osservanza prassistica della Legge.

Gesù non è un legislatore

Penna si domanda se Gesù sia stato un legislatore, e risponde negativamente. Gesù non è legislatore come Mosè, ma è colui che ha portato la grazia e la verità Nelle cosiddette sei antitesi matteane Gesù piega la legge alla sua persona, che ora diventa la nuova legge. «Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo» dice Paolo in Gal 6,2. Gesù stesso in persona è la legge come principio ispiratore dei cristiani. Paolo si dice essere nella legge di Cristo (cf. 1Cor 9,21). La legge dell’amore è ora inscindibilmente legata alla persona di Gesù che l’ha adempiuta fino in fondo. Paolo distingue i comandi del Signore dai suoi suggerimenti apostolici. Gesù sembra legiferare sul matrimonio (cf. 1Cor 7).

Gesù si oppone al divorzio e, in vari ambiti esistenziali, propone delle disposizioni esigenti in vista della prassi di itineranza. D’altra parte, si mostra molto libero nei confronti di ciò veniva etichettato come puro-impuro.

Nell’Ultima Cena Gesù instaura la nuova alleanza predetta dai profeti, che non consiste in una Legge ma in una figura personale che implica la Legge in sé stessa, e comunque a prescindere da ogni rito di sangue. L’alleanza di Gesù si distingue dalla serie dei patti che l’hanno preceduta: non ha clausole legali.

Il novum dell’Alleanza di Gesù è che essa è fatta senza condizioni. L’Alleanza fra Dio e l’uomo non poggia più sulla base del comportamento umano, ma sul sangue di Cristo versato una volta per sempre, ottenendo una redenzione eterna.

A Qumran occorreva osservare la Legge e appartenere alla comunità, separandosi dagli altri. Gesù ha formulato delle richieste per i suoi discepoli, ma egli non è riducibile alla figura di un semplice legislatore umano. Per Gesù, stare insieme ai trasgressori non fa uscire dall’Alleanza. Essa, invece, è il motivo per eccellenza per stare insieme ai trasgressori condividendone persino i pasti.

Gesù, un osservante libero

Gesù si presenta come un osservante libero. Si sottopone ai riti previsti dalla Legge, frequenta il tempio e osserva le feste religiose. Ma propone una libertà critica, perché egli completa ciò che è insufficiente nella legge mosaica. Non abroga la Legge ma ne radicalizza le esigenze. Nelle “antitesi” matteane propone un nuovo modo di intendere le cose. Richiede un di più rispetto alla formulazione soltanto minimale. L’amore vicendevole e senza eccezioni va molto più in là delle restrizioni casistiche.

Nei confronti delle regole vigenti, Gesù si mostra molto libero. Egli cerca non tanto una libertà di ordine politico (nei confronti delle istituzioni, di Erode, del potere occupante romano). La sua critica si pone sul versante morale e religioso. Esempi sono il precetto legale della sepoltura del proprio padre, l’osservanza del sabato, la riproposizione del vincolo matrimoniale indissolubile.

Gesù è critico nei confronti della pratica del digiuno e di tutto il campo riguardante ciò che è puro o impuro. Gesù si rapporta a tutte le persone e la sua libertà rasenta la spregiudicatezza (contatti con lebbrosi, samaritani, defunti, pubblicani, prostitute ecc.). Gesù nega che l’uomo possa essere reso impuro da qualcosa di esterno a lui. Marco annota che così facendo dichiarava puri tutti gli alimenti.

Gesù si scaglia contro l’istituto ebraico del qorban, e purifica non tanto il tempio ma il culto. Si dimostra più grande del tempio.

Gesù non è incasellabile. Egli è un uomo libero innanzitutto nei confronti delle istituzioni vigenti in nome dell’uomo e contro una certa “religione”, cioè contro un apparato legalistico-rituale che voglia salvaguardare la diversità e la superiorità di Dio a scapito delle sacrosante esigenze dell’uomo. Gesù dimostra che Dio è dalla parte dell’uomo.

Gesù, inoltre, è originale, libero e personale a livello di comunione con Dio stesso. Nella sua libertà e nella sua misericordia sono all’opera la libertà e la misericordia del Padre. Nell’Ultima Cena egli istituisce una nuova Alleanza, diversa dall’antica, non bilaterale, ma unilaterale, basata non sul comportamento dell’uomo ma sul sangue di Gesù Cristo versato in redenzione eterna. Gesù, dunque, esautora la Legge identificandola con la sua stessa persona.

Paolo e la critica alla Legge

Dopo le critiche di Stefano, è Paolo a condurre un ridimensionamento radicale della Legge. Lo fa a tre livelli.

Il primo è costituito da una polemica diretta e pesante. La Legge è causa di maledizione, potenza di peccato, pedagogo; ne viene messa in dubbio l’origine divina, è secondaria rispetto alla promessa gratuita fatta ad Abramo. Per concessione, Paolo afferma che è santa, spirituale e buona, ma contestualmente la frase intende la Legge come Scrittura o come la fede stessa o come l’intento giustificante della Legge.

In secondo luogo, la Legge viene ridotta all’unico comandamento dell’amore, che la compie e la supera. Paolo polemizza contro tre precisi ordini della Torah: la circoncisione, le feste, le prescrizioni alimentari.

In terzo luogo, Paolo parla di «legge di Cristo». Cristo stesso, nella sua funzione soteriologica, viene proposto come legge, norma assoluta per il cristiano. La legge mosaica è portata a compimento nell’evento pasquale del Signore crocifisso e risorto.

In Gal 2,16 Paolo afferma che l’uomo non è giustificato in base alle opere della Legge, ma solo mediante la fede in Gesù Cristo. Il cristianesimo non riconosce più la centralità della Torah all’interno dell’alleanza con Dio e quindi neanche come via di salvezza. Il vuoto lasciato dall’ostracismo dato alla Legge viene colmato da qualcosa d’altro.

La critica alla Legge ha un motivo cristologico. Paolo si considerava irreprensibile per quanto riguardava la giustizia che deriva dalla Legge e Rm 7,7-25 non riflette direttamente l’esperienza personale del fariseo Paolo. La sua critica non deriva neppure da una supposta delusione trovata nella sua missione tra i giudei.

Gal 1,15-16 fa vedere che il momento decisivo della nuova esistenza di Paolo fu l’incontro di Damasco con Gesù risorto. In Fil 3,7-11 Paolo ricorda di aver capito allora che ciò che importava «non è di avere una mia giustizia proveniente dalla Legge, bensì quella che si instaura mediante la fede in Cristo» (Fil 3,9).

A Paolo è rivelato che lo spazio vuoto lasciato dalla Torah è totalmente e fermamente occupato da Gesù Cristo. Fu rivelato a Paolo che Dio aveva offerto agli uomini – e soprattutto ai gentili – una nuova via di salvezza, consistente non più nel loro adeguamento alla Legge di Israele, ma nella loro accettazione per fede di Gesù Cristo nel suo mistero di morte e risurrezione.

La critica di Paolo non si basa su una torahlogia né su una specifica antropologia ma su Gesù Cristo, che mette in scacco la Torah quale vera alternativa. La Legge è buona, ma non regge il confronto con Gesù Cristo. La Torah non avrebbe costituito alcun problema per Paolo, se non fosse sopravvenuto Cristo a metterla in scacco.

Gal 2,21 afferma: «Non voglio annullare la grazia di Dio; se, infatti, si viene giustificati mediante la Legge, allora Cristo è morto invano». Il giudizio squalificante è basato sul valore soteriologico della morte di Cristo, non sul richiamo a un’esperienza soggettiva, né tanto meno a eventuali deficienze proprie della Legge stessa. La morte di Gesù si basa sulla Legge, ma in quel momento la declassa (cf. Gal 2,19).

Altro passo che esprime il fondamento della critica paolina alla Legge sono i difficili versetti di Gal 3,10-12: «Quelli che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione… la Legge non si basa sulla fede… Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge».

La maledizione è connessa alla Legge in quanto tale, a prescindere dalla sua inosservanza. Certo, per Paolo nessuno può osservare tutta la legge (cf. Gal 3,11). Paolo conclude dicendo che è manifesto che nessuno può essere giustificato nella Legge con un assioma teologico tratto da Ab 2,4: «… perché il giusto per fede vivrà». Gal 3,12 contrappone in modo generale la Torah e la fede pura: «La Legge non si basa sulla fede, bensì [cf. Lv 18,5] chi mette in pratica queste cose vivrà per esse».

Ci sono, dunque, due modi alternativi per conseguire la vita: o mediante l’adesione alla Legge o mediante la fede. Ad esse corrisponde l’antitesi maledizione-benedizione. La maledizione non proviene dalla semplice inosservanza della Torah, bensì è inerente ad essa in quanto alternativa alla fede.

Certo, per Paolo la Legge può essere osservata (cf. Fil 3,6) e, dal punto di vista giudaico, è persino giustificante (cf. Rm 2,13), ma Paolo la squalifica a partire dal confronto con Gesù Cristo: solo in questo caso essa risulta perdente.

Si può osservare che la predicazione missionaria di Paolo non è incentrata né sulla Legge né su un bisogno umano di redenzione. Il suo “evangelo” è tale solo perché egli annuncia Gesù Cristo crocifisso-risorto (cf. 1Cor 1,23; 15,1-15).

Rm 10,4 («Il termine/telos della legge è Cristo per la giustizia di chiunque crede») non fa che opporre due ordinamenti di salvezza, di cui il primo viene relativizzato solo perché si è instaurato il secondo. Dove non c’è Cristo, la Legge può ben essere «concretizzazione della conoscenza e della verità» (Rm 2,20). «In sostanza, ciò che il giudaismo vede nella legge, Paolo lo vede in Cristo. Dove subentra lui, essa deve cedere il passo» (p. 76).

Libertà da sé stessi

Penna dedica un capitolo a riflettere sul fatto della libertà dalla Legge come libertà da sé stessi. «L’esautoramento paolino della Legge comporta come suo risvolto immediato la corrispondente instaurazione di una personale libertà» (p. 77). Il lessico della libertà presente nelle lettere autentiche di Paolo è in quantità di gran lunga maggiore rispetto al resto del Nuovo Testamento.

A tematizzare il dato della libertà cristiana è soprattutto la Lettera ai Galati. «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge» (Gal 3,13); «Perché fossimo liberi Cristo ci ha liberati: state dunque saldi e non sottoponetevi di nuovo al giogo della schiavitù» (Gal 5,1; nel contesto, il giogo della schiavitù non è altro che la Legge). Già in 2Cor 3,17 Paolo aveva affermato seccamente: «Dov’è lo Spirito del Signore, c’è libertà».

Prima di entrare nell’alveo dell’etica, occorre fare spazio alla novità cristiana: la libertà precede l’obbligazione, ogni tipo di obbligazione. Il messaggio cristiano è eu-aggelion, cioè annuncio buono e lieto, perché non impone prescrizioni da osservare, ma propone una libertà inedita da accogliere gratuitamente e da fare propria.

Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge non a scopo pragmatistico, cosicché il cristiano possa finalmente avere la possibilità di osservare tutta quanta la Legge. La maledizione non è rapportata solo alla trasgressione della Legge, ma esprime un giudizio qualitativo sulla Legge in quanto tale.

Rm 8,2-4 è un testo difficile ma fondamentale. Lo Spirito della vita in Cristo Gesù «ti ha liberato» dal peccato e dalla morte (v. 2); a motivo dell’impotenza salvifica inerente alla Legge, Dio ha mandato il Figlio suo (v. 3), allo scopo che «la giustizia (dikaíōma) della Legge fosse compiuta in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito» (v. 4).

Decisivo per Penna è comprendere il senso corretto di dikaíōma. Esso non va inteso come «precetto» ma piuttosto come la fondamentale intenzione giustificante della Legge nel suo insieme. Non si parla di qualcosa di adempiuto da noi, ma accaduto «in noi».

L’Apostolo «vuol dire che la Legge aveva sì l’intento di giustificare l’uomo, ma non vi riusciva, sia perché induceva in sempre nuovi peccati, sia perché proponeva al peccatore solo minacce di pena. Ora, però, in Cristo, “senza la Legge viene compiuto ciò che la Legge voleva” [cit. di H. Schmitals]: dare la vita. […] Sicché in primo piano non sta ciò che noi possiamo fare, ma ciò che Dio ha fatto in noi» (p. 82).

Dio ci ha liberati con lo Spirito di Cristo da ogni istanza legalistica. Paolo adombra un aut-aut ontologico prima che esistenziale: «Non avete più nulla a che fare con Cristo, voi che cercate la giustificazione nella Legge; siete decaduti dalla grazia» (Gal 5,4).

Il cristiano non è più sotto la Legge, ma sotto la grazia. Egli perciò non collega più la sua libertà con la legge, come avveniva sia nello stoicismo sia nel giudaismo, ma solo con Cristo. Egli non è solo un emancipatore esterno, ma per il cristiano è il costitutivo intrinseco di una nuova libertà, poiché «non vivo più io, ma vive in me Cristo» (Gal 2,20).

Aspetti della libertà cristiana

Penna enuclea due aspetti caratteristici della libertà cristiana.

Il primo riguarda la sua dimensione reale e oggettiva. Non è una promessa, ma un dono: fatto qui e ora nell’annuncio evangelico, reale ed effettivo, perché poggiante non su un’auto-liberazione ma su un intervento verificatosi extra nos e recepito con la fede. Deve conoscere una progressione sul piano del vissuto, ma essa appartiene all’identità del cristiano come una sua componente stabile e tipica in quanto «libertà che noi abbiamo in Cristo Gesù» (Gal 2, 24). Fa parte dei beni stabili e specifici che definiscono il cristiano, come la grazia, la vita, la pace, la giustizia, la filiazione adottiva e la nuova creazione. Essa tocca il fondo ontologico di ogni battezzato. Si realizza in pienezza ciò che si è verificato per Israele con l’esodo dall’Egitto.

Il secondo aspetto riguarda la natura della libertà cristiana. Se la schiavitù è collegata alla Legge e al Peccato, la libertà non è tanto di natura politica o filosofica, ma una sottrazione a entrambi. È passaggio dalla sfera della carne a quella dello Spirito (cf. Gal 5,16-25), e perciò un dinamismo nuovo comandato non più dal principio esterno delle «tavole di pietra» ma da quello dello «Spirito del Dio vivente nelle tavole di carne dei nostri cuori» (2Cor 3,3). C’è un nesso strettissimo tra fede e libertà: «la fede in Cristo riguarda la libertà ed è essa stessa libertà» (s. Tommaso, cit. a p. 86).

La libertà cristiana comprende anche il dato della pace interiore (cf. Rm 5,1: «Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo»). Paolo termina qui un discorso iniziato fin dal c. 1.

A ritroso, si ritrova in Rm 4 l’esempio della fede giustificante di Abramo; in 3,25 Paolo ricorda che l’evento della giustificazione è fondato sulla croce di Cristo come una base portante: «Dio lo ha posto come mediazione di perdono mediante la fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia». In 1,16-17 afferma che la giustizia di Dio – e correlativamente la giustificazione dell’uomo – comincia di fatto con l’annuncio del vangelo. Nella predicazione orale «si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: il giusto per fede vivrà» (con cit. di Ab 2,1-4).

La giustificazione si rivela come «pace con Dio». È un dato di fatto oggettivo che il cristiano, in quanto giustificato, è radicalmente pacificato con Dio. In 5,10 afferma che la pace consiste nella riconciliazione con Dio. L’evento oggettivo della croce insieme all’evento soggettivo della fede supera la condizione dell’inimicizia tra Dio e l’uomo. La pace si rapporta alla riconciliazione e quindi si risolve in termini interpersonali.

Libertà e servizio

La prospettiva di Paolo è esistenziale: la libertà è ordinata a un concreto servizio di comunione con Dio («Liberati dal peccato e fatti servi di Dio»: Rm 6,22) e nel vicendevole rapporto con i fratelli («Voi infatti, fratelli, siete chiamati a libertà; solo, non fate della libertà un pretesto per la carne, piuttosto, mediante l’amore, mettetevi a servizio gli uni degli altri. Infatti tutta intera la Legge trova la sua pienezza in una sola parola: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”» (Gal 5,13; cf. Lv 19,18).

La libertà del cristiano fiorisce essenzialmente sul piano del vissuto. La libertà è libertà per amare: «veramente libero è solo chi ama, perché è libero da sé stesso» (F. Mussner, cit. a p. 90). Dire che la libertà si realizza in un servizio è un’antinomia, in cui si ripropone un nuovo tipo di servitù: «Siete stati resi liberi dal peccato e resi servi della giustizia… Ora, dunque, raccogliete il frutto per la vostra santificazione e, come traguardo, avete la vita eterna» (Rm 6,18.22).

Il «Peccato» per Paolo è potenza di base, addirittura personificata, che condiziona l’uomo anche senza la Legge e dalla quale ci si libera con la fede e il battesimo unendosi personalmente a Gesù nella sua morte (cf. soprattutto Rm 6,2-11).

La radicale libertà cristiana è proprio questa: paradossalmente passa da una servitù all’altra, cioè da un amore egocentrico all’amore di una gratuita dedizione agli altri come si trattasse di un’«espropriazione» (G. Lettieri, cit. a p. 91).

Nel trattatello De libertate christiana Lutero scrive: «Un cristiano è un libero signore sopra ogni cosa, e non è sottoposto a nessuno. Un cristiano è un servo volonteroso in ogni cosa, e sottoposto a ognuno». «Far coesistere ogni giorno queste due proposizioni apparentemente contrapposte – scrive Penna – è tutto il rischio e l’avventura del cristiano; a questo scopo non esiste un manuale di comportamento, ma solo una disponibilità totale allo Spirito per lasciarsi responsabilmente condurre da lui in ogni cosa» (pp. 91-92).

Liberi perché figli

La giustificazione non si esaurisce nell’individualità personale, ma è ordinata a mettere in atto una nuova famiglia di Dio. La Lettera ai Galati la prospetta chiaramente, impiegando un ricco lessico della libertà, menzionando la discendenza di Abramo da Sara libera, la donazione e la recezione dello Spirito del Figlio che fa gridare il credente: Abbà, Padre (Gal 4,6; Rm 8,15). Il credente acquisisce una nuova filiazione, modellata su quella di Isacco. Essa è una partecipazione alla filiazione di Gesù: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo, che grida Abbà, Padre. Quindi non sei più schiavo, ma figlio» (Gal 4,6-7a).

In Rm 8,14 si legge un principio generale: «Quanti sono condotti dallo Spirito, questi sono figli di Dio». La presenza dello Spirito è strettamente connessa all’identità filiale del credente. Lo Spirito è un principio attivo, dinamico, uno stimolo. Gal 5,18 afferma con una sfumatura polemica: «Se siete condotti dallo Spirito, non siete sotto la Legge». «Il giusto intento della Legge è ormai adempiuto e realizzato dallo Spirito, che di essa rappresenta il sostituto in quanto nuovo principio-guida del comportamento del cristiano» (p. 95).

Paolo impiega preferibilmente il termine «figlio» al plurale. La qualità di figlio non deriva primariamente dall’appartenenza a un popolo, ma dall’appartenenza a Gesù Cristo e al suo Spirito. Rm 8,15 afferma: «Infatti, non avete ricevuto uno spirito di schiavitù per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno Spirito di filiazione adottiva, nel quale gridiamo: Abbà, Padre!».

La dimensione pneumatica del cristiano

Lo Spirito è un fattore assolutamente pre-morale, il costitutivo basilare di una nuova identità personale, prima di essere stimolo a un nuovo comportamento etico. A monte di ogni condotta del cristiano «c’è il dato quasi ontologico della sua dimensione “pneumatica”» (p. 97). Dio ha inviato lo Spirito del Figlio sia nel momento del battesimo (cf. 1Cor 12,13) sia nell’atto della fede giustificante (cf. Gal 3,2-3).

Schiavitù e filiazione adottiva rimandano alla dimensione divina dello Spirito. Anche lo «Spirito di schiavitù» ha a che fare con una origine dall’alto, poiché il costrutto è analogo ad altri di conio veterotestamentario: «Spirito di torpore», «Spirito di mitezza», «Spirito della fede», «Spirito della promessa», «Spirito di sapienza e di rivelazione», «Spirito di grazia e di misericordia», «il santo Spirito di ammaestramento».

Lo Spirito della schiavitù non è riconducibile a un semplice genitivo epesegetico, ma consiste in un eventuale contrassegno di origine divina, anche se qui viene escluso. È una servitù obbligante. La schiavitù è il contrario della libertà e, contestualmente, ha a che fare con i concetti di Peccato e di Legge: sono queste entità meta-individuali che fuori di Cristo tengono l’uomo in stato di asservimento, di paura, di angoscia per un’eventuale sentenza condannatoria, decretata dalla Legge nel presente o sanzionata nel futuro da Dio. Gesù ci ha liberato dalla condizione servile paragonata all’età minorile.

La Lettera ai Galati è «il manifesto della libertà» (A. Pitta, cit. a p. 101). La funzione di pedagogo attribuita alla Legge (cf. Gal 3,24) non va intesa in senso innocuo e positivo, vista la condotta severa e schiavizzante che il pedagogo attuava nel mondo greco-romano nei confronti del ragazzo da condurre a scuola.

La filiazione adottiva

La novità cristiana viene connotata da Paolo da uno Spirito di filiazione adottiva, un concetto esclusivamente paolino. Si dicono due realtà: il rapporto del cristiano con Dio non è creaturale ma acquisito, provenendo dalla sua grazia e comporta e mantiene una diversità di natura. È un fatto “secondo” e aggiunto rispetto alla nascita carnale.

Il secondo dato è che il credente/battezzato è immesso con la nuova filiazione in una condizione di grande intimità familiare con Dio, la quale rappresenta qualcosa di più della semplice filiazione naturale uguale per tutti gli uomini. La filiazione permette di invocare Dio come Padre e la condivisione della filiazione costituisce la Chiesa come adelfótes, «fratellanza, insieme di fratelli» (1Pt 2,17; 5,9; la 1Pt ignora la parola ekklesía). La comunità cristiana è veramente «comunione di liberi», come Aristotele definiva la polis. Solo che lui escludeva bambini, donne e schiavi, tutte persone che invece la Chiesa include al suo interno.

Le esigenze della libertà

Dopo un excursus («Libertà e danza della vita»), Penna delinea le esigenze della libertà cristiana.

La libertà cristiana non è libertinaggio, impudenza e anarchia (pensiero dei cinici e degli edonisti). Per Paolo, la libertà cristiana ha dei vincoli assolutamente costringenti, così come costringente è l’amore, l’agape. La libertà dischiude solo delle possibilità di vita, ma la materia effettiva della vita cristiana è l’amore.

Paolo ammonisce i suoi destinatari con istruzioni prettamente morali. La libertà può essere persa non solo con il legalismo, ma anche con la licenza e la sregolatezza, ricadendo in nuove schiavitù.

Paolo però non fa mai ricorso alla Torah per fondare le sue esortazioni morali. Egli adotta un linguaggio non legalistico ma esortatorio (parakalein, «esortare»). È un padre che prende il posto del legislatore. Loda la fede operosa, la fatica della carità, augura che i cristiani possano abbondare in ogni opera buona.

Per Paolo non si tratta solo di essere, ma anche di agire. Rm 7,4 ricorda che «siete stati messi a morte quanto alla Legge per appartenere a un altro… affinché portiamo frutti per Dio». Gal 5,22 dettaglia la sfaccettatura del «frutto della libertà»: «Amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé». «Contro tali cose non c’è Legge» (Gal 5,23).

Grazia ed etica. Vivere per un altro

Il rapporto tra i poli della grazia e dell’etica è ben espresso in Gal 5,6: «In Cristo Gesù né la circoncisone né il prepuzio contano qualche cosa, ma la fede che si rende operosa/energouménē mediante l’amore». La fede è operosa, richiede per natura sua di prolungarsi visibilmente in una vita d’amore. L’«amore/agape» esprime per Paolo la cifra di tutta la vita etica del cristiano, nella quale si compendia e confluisce ogni possibile legge.

Se la fede sta sullo stesso piano della libertà, allora il rapporto stabilito da Paolo tra la fede e l’amore si può riformulare nei termini di libertà e di legge. Alla base della vita cristiana c’è la fede, e dunque la libertà. La fede fa riferimento all’amore gratuito e libero di Dio che ci ha amati per primo. «Se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» afferma 1Gv 4,10-11.

Con la fede il cristiano è caratterizzato da una novità di base, che è anteriore e insieme stimolante a un variegato impegno morale. A questo livello agisce soltanto la grazia di Dio. La fede però, e dunque la libertà, diventa l’elemento trainante di una nuova vita moralmente impegnata, dove acquista valore il principio enunciato da Gc 2,26: «La fede senza le opere è morta». In 1Cor 9 Paolo applica il principio di libertà che, pur avendo valore indiscutibile, va sottomessa alla carità verso i fratelli deboli di coscienza.

La fede, e dunque la libertà, è onerosa. Il cristiano sottostà in ogni caso a una legge, quella dell’amore, che è poi la legge di Cristo: «Egli mi ha amato e ha dato sé stesso per me» (Gal 2,20). La legge di Cristo è tutta la sua vita. Paolo lo esprime in Gal 6,2: «Portate i pesi gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo». Cristo in persona è diventato una legge vivente per il suo discepolo. Una legge di amore gratuito perde persino la connotazione di gravosità, come annotava Platone: «Solo coloro che amano sono disposti a morire per gli altri». La vita donata realizza la persona: «Devi vivere per un altro, se vuoi vivere per te» (Seneca; entrambe le citazioni sono a p. 135).

Legge e libertà

Per Paolo la libertà, abbinata alla «legge di Cristo», è rapportata ad altri tre criteri positivi dell’identità cristiana: la fede, lo Spirito, e l’amore.

In Romani si legge che la gratuita manifestazione della misericordia di Dio esclude ogni nostro preteso vanto davanti a lui. Il vanto del cristiano è in Gesù Cristo, di fronte al quale fede e libertà si integrano a vicenda e semmai è la fede ad acquistare la valenza di legge. Si è già visto che lo Spirito di Cristo libera dalla legge del Peccato e della morte, dà la libertà, rende figli adottivi, induce a fruttificare. Paolo, infine, riduce l’intera legge all’unico precetto dell’amore agapico. Lo ripete due volte, in Gal 5,13 e Rm 13,10.

La legge di Cristo, la legge che è Cristo, è l’esempio proprio di Cristo che ha liberamente portato il peso dei peccatori e, in questo senso, è diventato personalmente normativo. Cristo in persona è la nuova legge del cristiano, così come Paolo, che è nella legge di Cristo («Pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo» 1Cor 9,21) afferma circa la libertà: «Non sono forse libero?… Pur essendo libero da tutti mi sono fatto servo di tutti» (1Cor 9,1.19).

In Cristo si trovano sintetizzati e fusi insieme i principi della fede, dello Spirito e dell’amore, così che egli stesso è norma e regola per il cristiano. La libertà del cristiano non è semplice esclusione di ogni legge, ma un bene acquisito che pone in essere la tipologia di un uomo nuovo. La libertà cristiana non è fatta tanto di un’assenza, quella della Legge, quanto di una pienezza, quella di Cristo e del suo Spirito.

La libertà acquisita come dono permette al cristiano solo di amare di più e meglio. È una libertà caratterizzata da una sorta di costrizione ineliminabile e anzi esaltante, che si chiama amore.

Il problema della relazione tra libertà e legge sta –  secondo Penna – nella necessità di evitare i due estremi di una legge senza libertà e quella di una libertà senza legge. Occorre evitare l’assoluta anarchia ma anche una legge che soffoca e ingabbia o guida paternalisticamente la libertà, così come va evitata l’assoluta autodeterminazione assoluta ed egocentrica che distrugge gli stessi argini entro i quali essa trova la possibilità di un suo scorrimento. Si tratti di essere liberi da e liberi per (o liberi di).

La libertà cristiana inoltre non è un dato naturale e non si confonde col libero arbitrio di cui parlano i filosofi. Essa si pone su un piano esistenziale. È una realtà donata e connotata anche da una qualità escatologica. Essa non è acquisita alla maniera stoica mediante un continuo esercizio su di sé e neppure è una rivendicazione di un’autonomia da un dominio politico straniero o una libertà sociale dalla schiavitù.

La libertà cristiana riguarda, in prima battuta, non il livello del comportamento morale o quello della condizione politico-sociale, che stanno alla superficie dell’identità umana, ma il livello più profondo dell’essere, da cui deriva e su cui si misura il valore di ogni dimensione di superficie. Fino a quella profondità giunge il vangelo, e di là esso comincia il suo effetto «Voi conoscerete la verità e la verità vi farà liberi […] Se il Figlio di Dio vi libererà, voi sarete realmente liberi» è scritto in Gv 8, 32.36.

Questa ontologia della libertà è ciò che conta, perché tocca le radici dell’uomo. In Cristo si realizza in pienezza la libertà acquisita da Israele nella liberazione dalla schiavitù in Egitto. La successione degli eventi goduti da Israele fu: schiavitù, libertà, servizio, festa (cf. Es 4,32; 5,1): una libertà radicata nel profondo del cuore e che fiorisce nella vita.

Liberazione sociale e del creato

Penna conclude il suo volume con due Appendici.

Nella prima, tratta di un caso di liberazione sociale. La Lettera a Filemone presenta il caso dello schiavo fuggitivo Onesimo – Penna condivide qui la tesi tradizionale –, che Paolo rimanda al padrone Filemone non più solo come schiavo ma come fratello in Cristo, generato alla fede cristiana da Paolo in carcere. Filemone non deve dimenticare che anche i padroni sono poi dei servi di Cristo…

La seconda appendice tratta della liberazione del creato. Rm 8,18-25 parla di una liberazione attesa spasmodicamente dal creato, sottomesso – da Dio, secondo Penna – alla vacuità. «La stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21).

La libertà umana si amplia e comprende, quasi trascina con sé, lo stesso ambito cosmologico della sua esistenza. Il creato nutre, come soggetto personificato, la speranza, cioè la tensione verso un futuro radioso. Il creato non è rinchiuso in sé stesso ed eventualmente nella propria disperazione, ma la sua caducità ha una sicura via d’uscita. La speranza non è altro che un’attesa.

Possiamo annotare che la recente enciclica papale Laudate Deum stimola gli uomini allo sforzo unanime perché l’attesa del creato di una liberazione dalla schiavitù/caducità non venga disattesa ma affrettata per quanto possibile dell’azione accorta e previdente dell’uomo.

Il volume di Penna si caratterizza come sempre per una profondità e una chiarezza didattica esemplare, frutto di decenni di studio e di insegnamento. Le sue pagine sciolgono molti nodi delle difficili lettere paoline e fanno gustare la ricchezza del pensiero greco-romano conosciuto ottimamente dall’autore. Abbiamo tentato di offrire un’ampia sintesi del suo pensiero, citando spesso alla lettera il suo dettato – anche se non indicato espressamente – e proponendo le traduzioni bibliche da lui proposte. Il tema affrontato e la godibilità del testo – che certo richiede un po’ di impegno nel seguirlo – ne fanno un’ottima proposta di lettura per un ampio pubblico amante del testo biblico e della vera libertà dell’uomo e del creato, mai così minacciata come ai giorni nostri.

  • ROMANO PENNA, Legge e libertà. L’originalità cristiana (Sentieri della Parola 1), Edizioni Santa Croce, Roma 2023, pp. 180, € 20,00, ISBN 9791254821565.
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