Caritas italiana in Bangladesh

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Beppe Pedron è coordinatore dei progetti di Caritas Italiana nell’Asia del Sud. L’intervista è curata da Giordano Cavallari

  •  Beppe, di quale zona del globo ti stai occupando per Caritas?

Nell’ambito della campagna Dacci oggi il nostro pane quotidiano, la pandemia e la fame di milioni di persone (vedi qui)- promossa da Caritas e Focsiv – mi sto occupando di una zona a cavallo tra Myanmar e Bangladesh, ove si stanno concentrando interventi di carattere umanitario per i profughi del campo di Cox’s Bazar, popolato dal gruppo etnico dei Rohingya, migrati, appunto, dal Myanmar al Bangladesh. Seguo, in generale, la progettazione di Caritas Italiana in Asia del Sud.

Rohingya: tra Myanmar e Bangladesh
  • Qual è la situazione in questa parte del mondo?

Vorrei riuscire, in poche parole, a rendere una situazione davvero complicata e dalle forti implicazioni politiche, per quanto – proprio in queste settimane e in questi giorni – sta accadendo in Myanmar.

Al dramma dell’allontanamento dei Rohingya si è aggiunto un altro dramma: come forse sapete, il 22 marzo scorso, in questo campo è avvenuto un vasto incendio. Ci sono stati almeno 15 morti e circa 400 dispersi morti, tra cui bambini. Secondo i dati di Caritas Bangladesh, 87.000 persone sono state coinvolte dalle ripetute tragedie: chi ha perduto le baracche, fatte di canne di bambù, nelle quali trovavano il loro riparo e un minimo di unità famigliare, chi ha dovuto lasciare di nuovo “tutto” nelle baracche devastate, chi si ritrova ancora alla ricerca dei propri congiunti e compagni nella sventura.

Quello che è di fatto il campo profughi più grande al mondo, all’interno dei confini del Bangladesh, è, in realtà, un insieme di 34 campi profughi, in un distretto che accoglie, complessivamente, ben 850.000 persone. Qui operiamo come Caritas.

Ricordo brevemente che il gruppo etnico dei Rohingya è di appartenenza musulmana, minoritaria in Myanmar. Si presume che i Rohingya siano originari del Bangladesh e che, nel corso della storia, si siano trasferiti in Myanmar. Ma c’è pure chi sostiene che i Rohingya siano a casa loro, da sempre, in Myanmar. La loro storia è di certo complessa e affonda le radici in migrazioni, colonizzazione, espropriazione delle terre. Lo ricordo per esprimere quanto sia difficile radicare la loro esistenza in un paese piuttosto che in un altro.

I pregressi di questa situazione risalgono agli anni ’70, con le prime spinte forzate verso il Bangladesh. Ma la fuga più importante è stata dalle violenze subite dall’esercito birmano nel 2017: realtà definita dalla stessa organizzazione delle Nazioni Unite una vera e propria pulizia etnica.

Ora questo immenso campo profughi, macroscopicamente, rappresenta il dramma umanitario di un popolo costretto a lasciare la terra di insediamento e giunto in un luogo e in un paese che, per quanto tollerante, non accoglie con i diritti di cittadinanza, bensì in via solo temporanea, benché protratta nella illimitatezza.

In questo contesto, la pandemia ha aggravato, se possibile, le cose, sino a dover parlare di fame e di condizioni di sopravvivenza. La Caritas si occupa quindi di portare interventi umanitari molto importanti, articolati, per i quali l’invito evangelico a condividere il pane risulta letteralmente appropriato.

Certamente gli interventi di Caritas Italiana, in supporto a Caritas del Bangladesh e alla rete di Caritas Internationalis, costituiscono, per le dimensioni dei fenomeni, un piccolo contributo – si potrebbe dire una goccia nel mare – tra altri rilevanti interventi delle agenzie internazionali. Come sempre ci proponiamo di esprimere segni – significativi – di prossimità, specie in termini di cura della salute delle persone, della loro istruzione e protezione. Sono moltissimi i problemi da affrontare, specie in relazione alle condizioni di particolare fragilità delle donne, degli adolescenti e dei bambini.

Il virus sembra impattare nel campo in maniera statisticamente non rilevantissima, probabilmente perché le condizioni ambientali consentono di vivere sempre all’aperto, anche se il luogo, di per sé, è affollatissimo. D’altro canto, il numero dei test effettuati è assai poco significativo, per cui, semplicemente, non si sa quale sia la reale situazione pandemica.

Nel campo le persone vengono sì provviste dei beni di prima necessità, ma poi queste devono in qualche modo cercare di guadagnarsi da vivere all’esterno del campo, cercando di fare qualche lavoro in un paese – il Bangladesh – già estremamente popolato e già povero di per sé, nel quale la popolazione autoctona ospitante vede arrivare aiuti solo per gli ospitati. Da qui l’importanza, come Caritas e come agenzie umanitarie in genere, di fare un lavoro che sia bilanciato, ossia a beneficio di entrambe le popolazioni.

Stiamo tuttavia assistendo ad un impoverimento che ha poche prospettive di soluzione, sia per la popolazione autoctona, sia per i Rohingya. In questo momento è davvero impossibile ipotizzare il rientro in Myanmar di queste centinaia di migliaia di persone, ospitate per un periodo di tempo che doveva essere limitato, per poi essere quindi rimpatriate e riaccolte nel paese di provenienza.

Sappiamo cosa sta accadendo dal 1° febbraio in Myanmar, da quando un colpo di stato ha rovesciato una democrazia fragilissima che pur stava muovendo i primi passi, peraltro con qualche risultato interessante. Ora tutto è ritornato nel caos. Benché si sia destato un movimento civile molto importante – che sta cercando di resistere al colpo di stato – tutto ciò significa l’abbandono di ogni speranza di rientro per i Rohingya.

Pandemia e vaccinazioni
  • Fame e pandemia: la “soluzione” della vaccinazione sta arrivando per queste persone?

Il tema della vaccinazione è complessissimo: riunisce una serie di problematiche che non sono solamente sanitarie. Nella zona del mondo di cui mi occupo, sui vaccini, come su ogni altra cosa, fanno la “voce grossa” due superpotenze: la Cina e l’India.

In Bangladesh sta intervenendo l’India con i suoi vaccini, così come sta facendo in Sri Lanka o sta tentando di fare in Thailandia o nello stesso Myanmar, facendo promesse che sono il prodotto di contratti politici che consentono di conseguire maggiori poteri nei paesi citati. Il Bangladesh sta quindi cercando di vaccinare i suoi centosettanta milioni di persone residenti nel giro di pochi mesi: così sta promettendo. In realtà l’India ha fatto donazioni del proprio vaccino per qualche milione di dosi ed il governo del Bangladesh è riuscito a vaccinare sinora solo trecentoventi mila persone. Di queste trecentoventi mila dosi erogate, una piccolissima parte è finita anche nel campo di Cox’s Bazar, ma più per sollecitazione delle ONG, tra cui Caritas, che per consapevole strategia sanitaria.

Ancora una volta, tra ricchi e poveri la forbice si allarga: la curva della distribuzione dei vaccini, segue lo stesso andamento di quella che descrive l’accesso agli alimentari, piuttosto che alla salute e all’istruzione.

  • E le piattaforme Covax?

La piattaforma Covax si è data quale scopo il supporto alla distribuzione dei vaccini, in maniera equa, in tutto il mondo, ma è ben difficile che questo avvenga. Il “gioco” è sempre controllato dalla geopolitica e dagli interessi. Solo le azioni di advocacy riescono a portare benefici a favore di chi viene sistematicamente emarginato. Restano fortissime le dinamiche politiche imposte dalle super potenze mondiali.

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