Gli immigrati, il cuore pulsante dell’America

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Una manifestazione a sostegno dei migranti a Philadelphia, 25 gennaio 2025 (OSV News photo/Gina Christian)

Mons. Edward J. Weisenburger è arcivescovo cattolico di Detroit. Riprendiamo il suo intervento suscitato dalle politiche migratorie dell’attuale amministrazione americana pubblicato dalla rivista dei gesuiti degli Stati Uniti, America, lo scorso 11 giugno («Immigrants are, and always have been, the lifeblood of America», America, June 11, 2025, qui l’originale inglese).

Ancor prima della nascita del nostro Paese, gli immigrati giungevano su questa terra in cerca di libertà dalle persecuzioni, di migliori opportunità economiche e del diritto di crescere le proprie famiglie in pace. Insieme ai loro sogni e alle loro speranze, portarono con sé determinazione, ingegno e spesso una fede incrollabile in Dio.

Nella sostanza, poco è cambiato tra quei primi immigrati e i tedeschi, irlandesi e cinesi della fine dell’Ottocento, gli italiani e i polacchi dei primi del Novecento, gli europei in fuga dopo la Seconda guerra mondiale, i cubani e gli europei orientali in fuga dal comunismo durante la Guerra fredda e, oggi, i migranti provenienti da America Latina, Africa e Asia. Ogni ondata migratoria ha portato nuova vita e rinnovata vitalità alle comunità che li hanno accolti.

E proprio come chi, nel passato, approdava via nave a Ellis Island, molte persone ancora oggi si mettono in viaggio verso gli Stati Uniti con il sincero desiderio di dare sostegno alle proprie famiglie e contribuire a quello stesso tessuto culturale che ha reso così grande questa nazione sperimentale.

Un sistema in crisi

Nonostante le similitudini tra le ondate migratorie, il sistema d’immigrazione statunitense ha progressivamente smesso di rispondere ai bisogni reali delle comunità americane e alla realtà del XXI secolo.  Si parla spesso della necessità di «immigrare nel modo giusto», ma viene spontaneo chiedersi: qual è questo «modo giusto»?

Dal 1920 in poi, i limiti imposti all’immigrazione legale – sia per motivi familiari, di lavoro o umanitari – si sono irrigiditi. Secondo il Cato Institute, solo il 3% di coloro che hanno presentato domanda per la green card la otterranno nel 2024.

Per i richiedenti VISA provenienti da alcuni Paesi, i tempi d’attesa possono superare anche i 100 anni. Nel frattempo, i figli di tanti immigrati temporanei, spesso cresciuti negli Stati Uniti che riconoscono come sola e unica patria, rischiano di perdere il loro statuto legale al compimento dei 21 anni e sono costretti a partire per destinazioni a loro sconosciute, lasciando il nostro Paese e privandolo del loro potenziale.

Anche la Chiesa cattolica, insieme ad altri soggetti che offrono lavoro in ambito religioso a immigrati stranieri, si scontra con un sistema incapace di rispondere alle esigenze pastorali, e perde uomini e donne che hanno servito con dedizione le nostre comunità.

Per non parlare del sistema d’asilo, che sottopone chi fugge da situazioni estreme a lunghe attese, obbligandoli a ripetere più volte e accuratamente il resoconto egli orrori che hanno vissuto prima di approdare nel nostro Paese, spesso senza alcuna assistenza legale. E questo se hanno l’occasione di poter presentare e perorare la propria causa, cosa che purtroppo accade con frequenza sempre minore stanti le politiche attuali.

Nel frattempo, il Congresso non è riuscito a varare una riforma significativa dell’immigrazione, lasciando le famiglie divise, le aziende senza forza lavoro e i richiedenti protezione umanitaria senza risposte giuste e tempestive.

Il volto dell’altro

Il filosofo francese Emmanuel Levinas ha coniato un’espressione fondamentale nella sua etica: «il volto dell’altro». Per Levinas, che fu prigioniero di guerra nella Germania nazista, guardare il volto dell’altro significa riconoscere una domanda ineludibile di rispetto e dignità. Ignorarla, significa disumanizzare l’altro, ma anche sé stessi.

Oggi, in un’epoca segnata da guerre combattute a distanza, discorsi di odio anonimi e relazioni sociali sempre più fragili, tendiamo a non guardare più l’altro negli occhi. A non riconoscerne più l’umanità.

In qualità di vescovo cattolico per sette anni lungo il confine tra l’Arizona e il Messico ho avuto il privilegio di vedere spesso il volto di molti immigrati, compresi i richiedenti asilo. In quei volti ho incontrato ciò che Levinas definirebbe una domanda radicale e ineludibile di compassione. Ho fatto esperienza di ciò che è coerente con quanto ci insegna la fede cattolica, ovvero che ogni persona ha una dignità infinita e trascendente.

La risposta della Chiesa cattolica alla crisi migratoria in Arizona è stata gestita negli ultimi anni dai Catholic Community Services del Sud dell’Arizona. Con il sostegno delle autorità locali e di gruppi ecumenici, abbiamo gestito i fondi federali e accolto oltre mille persone al giorno, affidateci dalla Border Patrol o dall’ICE dopo le procedure di registrazione e la provvisione della documentazione legale. Una rete straordinaria di volontari ha reso possibile fare tutto questo. Credo che, una volta guardati negli occhi coloro che fuggivano da morte, fame o persecuzioni, questi volontari abbiano avvertito un imperativo etico. Avendo visto il volto dell’altro non hanno più potuto negare l’umanità di coloro che avevano di fronte o ignorare la loro domanda di dignità e compassione.

Nella tradizione cattolica, la comunità dei credenti si giudica da come tratta i più vulnerabili. La questione migratoria interpella in modo particolare la coscienza di legislatori, agenti di frontiera, residenti delle aree di confine e operatori sociali – molti dei quali condividono la nostra fede. In quanto popolo composto in larga misura anche da immigrati, non possiamo ignorare le sofferenze e le ingiustizie prodotte su persone e comunità umane da un sistema d’immigrazione profondamente inadeguato e dobbiamo domandare qualcosa di meglio.

Molti di noi oggi sarebbero qui, in quanto discendenti di immigrati, se i nostri antenati fossero stati accolti e trattati come lo sono oggi quelli che arrivano alle nostre frontiere?

Riconoscere l’umanità che ci unisce

Nessuno discute la necessità di una legge sull’immigrazione giusta, né l’importanza della sicurezza pubblica. La dottrina cattolica riconosce a ogni Stato il diritto di regolare le proprie frontiere nel rispetto del bene comune. Ma, come ci ha ricordato Papa Francesco prima della sua scomparsa:

«Uno Stato di diritto autentico si dimostra proprio nel trattamento dignitoso che tutte le persone meritano, specialmente quelle più povere ed emarginate. Il vero bene comune viene promosso quando la società e il governo, con creatività e rigoroso rispetto dei diritti di tutti accolgono, proteggono, promuovono e integrano i più fragili, indifesi, vulnerabili. Ciò non ostacola lo sviluppo di una politica che regolamenti una migrazione ordinata e legale. Tuttavia, tale sviluppo non può avvenire attraverso il privilegio di alcuni e il sacrificio di altri. Ciò che viene costruito sul fondamento della forza e non sulla verità riguardo alla pari dignità di ogni essere umano incomincia male e finirà male» (Lettera ai vescovi degli Stati Uniti d’America, 10 febbraio 2025).

Riconoscere che il nostro sistema di immigrazione è fallimentare è ormai un’affermazione trita e ritrita. Premessa la buona fede di chi desidera affrontare il problema, ritengo che un sistema di immigrazione legittimo non possa basarsi su deportazioni di massa che non tengono conto delle circostanze individuali, compresi i legami familiari. Non può fondarsi sullo smantellamento di programmi di aiuto che si sono dimostrati efficaci nel soccorrere le persone vulnerabili, con l’esito prevedibile di ridurre alla fame, alla povertà estrema o alla morte coloro che non hanno voce. Inoltre, mentre l’arresto legale di coloro che sono coinvolti in attività criminali è opportuno, la criminalizzazione delle persone sulla base del solo status di clandestini viola i nostri obblighi morali e tradisce tragicamente la nobile storia della nostra nazione.

Qualsiasi punto di partenza per un nuovo approccio alla politica sull’immigrazione è legittimo se basato sul riconoscimento dell’umanità dell’immigrato. Un sistema di immigrazione giusto, efficace e autenticamente americano dovrà garantire un percorso chiaro ed equo verso il riconoscimento dello statuto legale per coloro che hanno contribuito a lungo alle nostre comunità. Dovrà garantire la protezione e l’unità delle famiglie. Infine, dovrà bilanciare il rispetto autentico per la sovranità delle nazioni con l’obbligo morale di prendersi cura dello straniero che vive in mezzo a noi. Solo così potremo dire di aver incontrato il volto dell’altro e di aver risposto con umanità.

Le recenti misure adottate nei confronti di coloro che cercano rifugio alle nostre frontiere e degli immigrati privi di documenti che risiedono nel Paese, in alcuni casi da decenni, non sono all’altezza delle parole famose incise sulla Statua della Libertà, che si erge imponente nel porto di New York fin dai giorni in cui le prime ondate di immigrati approdavano sulle nostre coste: «Dammi le tue stanche, povere, umiliate masse che anelano alla libertà».

Chi siamo come Paese se non siamo in grado di riconoscere e rispondere adeguatamente alle aspirazioni dei migranti di oggi, le stesse che hanno contraddistinto i migranti delle generazioni passate? È difficile immaginarlo.

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Un commento

  1. Pietro 18 giugno 2025

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