
La canonizzazione di Carlo Acutis era diventata un «caso» ben prima degli interventi di Andrea Grillo sulla propagazione e uso dei miracoli eucaristici su cui ha finito per fare perno il processo canonico.
Se si guarda ai dubia mossi, si può dire che Carlo è riuscito a fare il «miracolo» di risultare indigesto su tutti i lati della nostra litigiosa comunità ecclesiale cattolica.
In questo frullio di contestazioni, ad Andrea Grillo va dato il merito non solo di aver articolato le ragioni dell’opportunità o meno dell’elevazione del vissuto del giovane milanese a modello per la Chiesa universale, ma anche e soprattutto di aver cercato di mettere in luce l’auto-comprensione della Chiesa cattolica che si lega alla dichiarazione di esemplarità per la fede – soprattutto per quella delle generazioni più giovani.
Dove si è cercato di comprendere il senso delle critiche mosse da Grillo, si è pian piano configurato un dibattito di qualità e sicuro interesse – anche quando non le si condivideva, o si riteneva che il vero focus del «caso» Acutis fosse da cercare altrove (e non tanto nella sua personale devozione eucaristica e nella «teologia» che ne veniva conseguentemente espressa in maniera indiretta).
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Non sono mancati interventi che sono passati dalla «cosa» in discussione alla «persona» che si era preso la briga di rompere il silenzio italiano in materia di canonizzazione di Acutis. Una procedura, questa, sempre più in voga anche all’interno del mondo cattolico che si esprime sulla rete.
Nel leggere alcune delle reazioni di questo tipo, si ha come l’impressione di una scarsa tolleranza alla riflessione, al contraddittorio, all’approfondimento sulle conseguenze delle decisioni che la Chiesa cattolica prende – anche in forma solenne e impegnativa per tutta la comunità.
Ma è proprio perché decisioni di questo tipo coinvolgono tutto il corpo dei credenti, è bene che essi partecipino al dibattito pubblico sulla loro opportunità o meno. La corporazione dei teologi e delle teologhe esiste anche proprio per questo all’interno di quella comunità di fede che si chiama Chiesa cattolica.
È un loro dovere addurre le ragioni, pro o contro che siano, in materie che decidono della destinazione della Chiesa e del modo in cui essa viene percepita da quelli che sono i suoi destinatari (potenzialmente ogni uomo e ogni donna, in ogni tempo).
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Da quanto emerso fino a questo momento, tanto nel dibattito teologico quanto nell’iter che ha portato alla canonizzazione di Carlo Acutis, mi sembra sia possibile evincere alcuni punti fermi che potrebbero meritare una qualche riflessione non di maniera da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Un primo aspetto è quello della estrema imperfezione della «perfezione» cristiana – quella che, abitualmente, chiamiamo santità. Più i santi sono prossimi al nostro tempo, alle sue alterne e complesse vicende, più la trasparenza della loro testimonianza appare attraversata anche da ombre che prestano il fianco a lecite obiezioni. Un prezzo da pagare, questo, quasi inevitabile per ogni santità cristiana sincronica.
Oggi, poi, ci si rende conto come anche quella asincronica sia attraversata da una sua problematicità: perché quanto poteva essere esemplare in una determinata epoca della Chiesa cattolica può non esserlo più in un’altra. Spesso, in casi come questo, si mette in campo una stentata ermeneutica della giustificazione che fatica a convincere fino in fondo.
Il fatto è che i santi e le sante sono persone del loro tempo, nel quale vivono e di cui sono impregnate. Ed è rispetto al loro tempo che devono essere sottoposte al giudizio della Chiesa cattolica e alla prova del mondo. Questo, però, non toglie la questione sull’opportunità del loro culto in tempi diversi dai loro.
E non toglie nemmeno il fatto che, proprio per ragioni di opportunità, la Chiesa cattolica, nel punto massimo della sua autorevolezza, sia giunta a sospendere il suo giudizio già dato (cosa accaduta, ad esempio, con la beatificazione sospesa del fondatore della congregazione dehoniana p. Leone Dehon).
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Un secondo aspetto che sta emergendo dal «caso» Acutis è l’estrema fragilità, se non addirittura l’impossibilità, di una esemplarità universale del vissuto cristiano – per gli stessi fedeli cattolici.
Il processo di canonizzazione, ossia l’elevazione del culto e venerazione di un santo/una santa per tutta la Chiesa cattolica nella sua universalità, va a sbattere contro un suo limite paradossale. Perché un santo, in questo caso Carlo Acutis, vive nel suo tempo e nel suo contesto socio-culturale ed ecclesiale a «modo suo». Ed è proprio in questo modo-suo, in rapporto con il suo ambiente di vita e di fede, che sta il senso dell’eventuale santità del vissuto cristiano di una persona.
È chiaro, dunque, che l’universalizzazione del culto è fortemente intrisa di particolarità – ed è proprio quest’ultima che frena la possibilità efficace di ogni procedura di universalizzazione.
Cosa può dire, immediatamente (perché questa è una delle caratteristiche della devozione, anche di quella verso i santi e le sante), un ragazzino milanese a un adolescente che vive nei barrios di Caracas (tra l’altro separati tra di loro da più di 20 anni, che oggi sono già due epoche diverse della vicenda umana su questa nostra terra)? Poco, a volte forse nulla.
Quanto il «caso» Acutis permette di cogliere è, quindi, l’esigenza di tornare a pensare (sia come corporazione teologica, sia come comunità ecclesiale in tutta la sua ampiezza) il tema della santità nella Chiesa cattolica. Certo, anche quella personale, della «porta accanto» come la chiamava papa Francesco, oppure quella che travalica le stesse barriere confessionali cristiane.
Ma soprattutto quella che viene formalmente riconosciuta dalla parola autorevole della Chiesa cattolica. Oggi siamo molto più consapevoli dell’estrema complessità della sua unità di fondo, e di cosa questo significhi per il governo istituzionale della Chiesa stessa. Ciò chiede di rivedere una procedura, in cui la Chiesa cattolica mette in gioco una delle sue note essenziali, che è ancora intrisa, da cima a fondo, di una concezione fortemente uniforme (e idealizzata) della stessa unità cattolica della fede.
La dichiarazione di universalità del culto dato a un vissuto cristiano, che ne implica una sua esemplarizzazione a livello globale, è un atto del potere di governo della Chiesa cattolica – e non un’espressione della pietas dell’istituzione ecclesiale.
Nell’atto in cui un’esperienza della fede viene offerta al culto e alla venerazione di tutti i fedeli, ovunque essi si trovino (e per sempre), è in gioco il potere della Chiesa cattolica e non la devozione dei credenti. Non si tratta, quindi, solo di indagare la relazione fra teologia e devozione (se una ve n’è, visto che, in merito, i pareri sembrano essere discordanti), ma anche e soprattutto quella fra potere istituzionale e devozione dei (alcuni) credenti.
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In un suo intervento nel dibattito sul «caso» Acutis, Marinella Perroni sottolineava l’importanza di essere consapevoli della distanza che intercorre fra realtà e interpretazione – e dell’individuazione di chi siano i soggetti dell’interpretazione. Sottointeso a tutto questo sta l’importanza, per chi interpreta, di tenere conto del contesto in cui si è dipanata la vita breve di Carlo Acutis.
Aggiungerei che anche coloro che hanno vissuto in prima persona quel contesto, come la madre di Carlo e tutta la sua famiglia, stanno già in un rapporto di distanza e alterità rispetto alla realtà concreta che fu Carlo Acutis. Di lui, quelle persone che gli furono in molti modi vicino, sono portatrici dell’impatto che il suo vissuto ebbe su di loro – prima o dopo la sua morte.
A questo contesto, in tutta la vicenda, mi sembra non si sia data troppa attenzione – magari anche solo per dire che bisognerebbe conoscerlo più a fondo. Con tutti gli esterni al contesto complessivo del vissuto di fede di Carlo Acutis condivido la scarsa conoscenza; ma sento che esso non rappresenta semplicemente uno sfondo irrilevante.
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Devo ringraziare un mio compagno di liceo che, in maniera estremamente discreta e desiderosa di custodire una buona (che vuol dire il più reale possibile) memoria di Carlo, mi ha permesso di gettare un fugace sguardo proprio sul contesto e sulle atmosfere di vita di Carlo Acutis e della sua famiglia.
Posso procedere solo con rapide pennellate, perché mi mancano molti colori per poter disegnare il quadro contestuale in maniera adeguata. Però quei pochi che il mio amico di antica data ha posto sulla tavolozza del pensare teologico hanno aperto orizzonti che prima non ero stato capace di cogliere.
Mi limito a uno solo, quello che forse è in grado di intercettare in un qualche modo le critiche (pertinenti, a mio avviso) avanzate da Andrea Grillo in merito ad alcune distorsioni nella devozione eucaristica di Carlo Acutis – e alla loro amplificazione dovuta ai divulgatori ecclesiastici del culto a questo santo dei nostri giorni (più o meno).
Quella di Carlo è una famiglia in cui si intrecciano due filoni di cultura e statuto sociale dell’Italia settentrionale – con più precisione di Torino: quello dell’alta borghesia imprenditoriale piemontese, con una sua non marginale attenzione al sociale unita a un senso di responsabilità civile verso il vissuto condiviso della socialità umana, da un lato; e, dall’altro, quello della nobiltà sabauda.
Due sono gli aspetti comuni a questi portati socio-culturali che si sono incontrati nella famiglia di Carlo Acutis: il primo è quello di una laicità, magari non così aggressiva come quella dei cugini francesi, ma comunque pensata e argomentata; il secondo è quello della razionalità come principio cardine intorno a cui organizzare anche il vissuto esistenziale di una vicenda umana.
Già questo abozzo di contesto, perché nulla di più è, permette di comprendere sia alcune forzature «ideali» che hanno caratterizzato il vissuto di Carlo Acutis per ciò che è accessibile a noi altri; sia la sua ricerca di un’atmosfera calorosa dell’esperienza cristiana, di un appoggioper la sua fede in costruzione che fosse al tempo stesso sensibile e concreto, che sfuggisse al dominio della pura razionalità.
Questi due tratti si congiungono, a mio avviso, proprio nella problematicità della sua devozione eucaristica. Che, in un certo qual modo, probabilmente lo isolava già dai suoi coetanei e amici quotidiani dell’oratorio milanese che frequentava, ma che aveva certamente un senso per lui e per la sua storia di fede.
Questo permette di comprendere un po’ di più la «distorsione» eucaristica della sua devozione personale – fatto questo che nulla toglie alla legittimità della verifica teologica del suo senso per la fede di tutti e tutte. Provo a riformulare in altro modo il nocciolo duro delle obiezioni mosse da Andrea Grillo: perché si è scelto di fare di questo aspetto, estremamente intimo/personale e contestuale (quindi squisitamente particolare), il perno di tutta la procedura di canonizzazione, di pubblicizzazione ecclesiastica della figura di Carlo Acutis, e di esemplarizzazione universale della sua esperienza cristiana?
Perché si è scelto qualcosa che lo rendeva alternativo non al mondo si badi bene, ma ai suoi stessi amici in oratorio che condividevano con lui la fede in Gesù?
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Ma vi è un secondo contesto, più ampio, che deve essere interrogato: quello della diocesi milanese e della sua pastorale giovanile. Quando Carlo Acutis inizia a frequentare una scuola cattolica della città e l’oratorio della sua parrocchia, Martini non è più alla guida della Chiesa milanese da qualche anno.
La Milano di Martini è stata il luogo di un esperimento credente singolare: quello della gestazione di una devozione comunitaria ispirata dalle idee portanti del Vaticano II – la lectio divina. La mia generazione ha fatto propria con convinzione questa devozione alla Scrittura, che è divenuta una vera e propria segnatura riconoscibile della fede dei giovani di quel tempo.
Io e i miei coscritti potremmo essere i genitori di Carlo, per quanto riguarda l’età. Quindi deve essere successo qualcosa nella tradizione generazionale di questa devozione conciliare alla Scrittura – perché, mutatis mutandis, la distanza della devozione della fede dei giovani dopo di noi dall’adesione lieta e calorosa alle Scritture è qualcosa che non riguarda solo Carlo Acutis.
In merito, vi è un capitolo della storia pastorale della Chiesa di Milano che rimane ancora tutto da scrivere, per cercare di comprendere perché e in quali modi, nell’arco di una sola generazione, il tentativo di dare forma a una devozione condivisa, comune e accomunante, si è sostanzialmente dissolto nel nulla.
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Dunque, cosa voleva il governo della Chiesa e il suo potere con la canonizzazione di Carlo Acutis? Credo che, in fin dei conti, l’intenzione fosse buona – ma anche abbastanza ingenua: quella di avere un santo che proveniva dalla generazione digitale, pensando che questo fosse sufficiente a superare lo iato che c’è oggi fra la Chiesa cattolica e i giovani e le giovani occidentali.
Forse, dietro questo, in alcuni esponenti ecclesiastici ci stava e sta anche una sottile perversione – che suona più o meno così: è uno dei vostri, noi lo riconosciamo come esemplare (per noi, ma questo non lo dicono), quindi se non fate come ha fatto lui siete voi a essere nel torto e nell’errore – e noi siamo a posto con la nostra coscienza e possiamo finalmente smantellare tutta la preoccupazione per una riforma della pastorale giovanile e per il rapporto tra la Chiesa cattolica e il mondo odierno.
L’ingenuità sta nel pensare che oggi una distanza di 20 anni significhi appartenere alla medesima generazione. Ma non è così: gli adolescenti di oggi sono letteralmente un altro mondo rispetto a Carlo Acutis – e lo sentono molto più lontano e alieno di quanto io possa sentire rispetto a san Tommaso d’Aquino.
E sono proprio i due punti messi più in risalto dalla pubblicità ecclesiastica che rendono Carlo Acutis un «reperto archeologico» per giovani che vivono solo vent’anni dopo la sua morte – ossia, la competenza digitale e la devozione eucaristica.
La Chiesa cattolica ha volutamente scelto di tralasciare quelle «devozioni» che avrebbero potuto rendere Carlo sintonico con i giovani che calcano oggi la scena del mondo occidentale. In particolare penso qui alla sua passione sociale fatta di prossimità ai poveri, agli emarginati, agli stessi immigrati – rispetto ai quali la buona fede dell’alta borghesia milanese sarebbe (stata) disposta a dare sì dei soldi, ma non certo a condividere con loro la tavola, come fece Carlo.
Questo sentire prossimi coloro che stanno dalla parte sbagliata del mondo, dalle logiche che lo guidano, dare loro il proprio tempo scoprendo che questo è atto dovuto – ossia la giusta restituzione di qualcosa che appartiene a loro e non a me –, ecco forse un punto di aggancio devozionale che sarebbe in grado di offrire una chiave di interpretazione evangelica per ciò che i giovani oggi fanno e sentono. Chiave che apre all’intimità del «lo avete fatto a me» proprio davanti all’onestà della confessione che riconosce «ma quando mai ti abbiamo incontrato?».
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Siamo solo agli inizi e, forse, c’è ancora tempo per la nostra Chiesa di non fare del «caso» Acutis una occasione mancata – con tutti i distinguo che la teologia ha il dovere di apportare in una materia così importante per l’auto-comprensione della Chiesa cattolica e il suo posizionamento rispetto alla vita delle persone che esistono realmente.
Probabilmente il rischio più grande racchiuso nella distorsione della devozione eucaristica di Carlo Acutis, messa in risalto dagli articoli di Andrea Grillo, è quello di fare del giovane santo milanese una sorta di modello neo-clericale – un clone digitale del santo Curato d’Ars, più che il reale di un ragazzo degli oratori milanesi di inizio XXI secolo.
Mi sembra che sia il processo di canonizzazione, sia l’immaginario pubblico che la vocalità ecclesiastica va creando intorno al nuovo santo, spingano proprio in questa direzione.
Certo, la forza meccanica dell’apparato istituzionale lascia poco spazio per resistere a questa distorsione clericale dell’esperienza umana e di fede del nostro giovane santo, ma bisogna anche guardare alle nostre responsabilità – e per nostre intendo quelle di quei giovani milanesi di allora che, come me, ebbero la grazia di poter praticare una devozione alla Scrittura che ci ha permesso di vivere in presa diretta col mondo così come è – leggendolo, interpretandolo e comprendendolo alla luce della Parola.
Ogni tanto penso che questa mia generazione abbia attuato le intuizioni più luminose del Vaticano II a proprio esclusivo favore – senza pensare ai giovani che sarebbero venuti dopo di noi, tra i quali c’è anche Carlo Acutis.






Ringraziamo Dio che da Francesco in poi nella Chiesa si possa tornare a discutere, anche sull’opportunità o meno di una canonizzazione
Sono sempre più perplesso di fronte alle canonizzazioni, dopo l’indigestione di santi ammannita dal papa polacco.
Che cosa dire davanti a “modelli” di virtù cristiane quali il beato Pio IX, il veggente della Madonna di Guadalupe sulla cui esistenza gli storici hanno sollevato molte e autorevoli riserve, sui pastorelli di Fatima… L’elenco sarebbe amaramente lungo.
Condivido l’invito alla prudenza e, in certi casi al buon gusto, ritornando alla prassi che impone un congruo numero di decenni prima di iniziare il processo canonico. Quale imbarazzo se si dovesse scoprire che un santo ha tenuto bordone (in buona fede, per carità!) a personaggi loschi nel campo finanziario o nel campo morale! Costoro sarebbero da prendere a modelli?
E se la Chiesa si prendesse un arco temporale tra un anno santo e l’altro (ovvero venticinque anni) in cui si sospendono beatificazioni e canonizzazioni per ripensare la prassi della fabbrica dei santi, compresa la disciplina dei cosiddetti miracoli? Apriti cielo! “Video coelos apertos” , come esclamerebbe il povero Stefano.
Tema molto delicato. Fra le cose che bisogna riguardare c’è il tema di chi sponsorizza e finanzia i santi di oggi!
Più importante di tutti è ricordarci che dopo morti si diventa santi perché la salvezza, e quindi la santità, è puro dono che l’unico Padre dona a tutti, non per merito, ma perché ama tutta la realtà creata, pensata e voluta da Lui stesso.
I primi cristiani fra loro si chiamavano santi e santi sono diventati (o fatti diventare) anche pontefici di scarsa santità in vita, per non dire peggio.
Tutti noi è molto meglio se ci preoccupiamo di amare la realtà che ci circonda cercando di imitare come il Padre ama perché è soprattutto così che manifestiamo di essere figli suoi.
Buona pace a tutti
I santi li fa Dio, la Chiesa li riconosce e li pone a esempio affinché altri cristiani possano essere aiutati nel vivere meglio la fede la speranza e la carità.
I santi sono tali se Dio, per loro intercessione, compie uno o più miracoli. In un’epoca in cui nella società e purtroppo anche in parte della Chiesa si vive solo nella dimensione del naturalismo i miracoli non sono più segni del divino e conferme della santità di coloro che vengono scelti da Dio.
Carlo Acutis ha fatto miracoli (Dio tramite lui) quindi è santo: questo dovrebbe dire ogni processo di beatificazione e poi di santificazione. Se così è cosa hanno tutti questi intellettuali da dire?
La devozione eucaristica di Carlo si basava sulla tradizionale dottrina cattolica, sancita una volta per tutte chiaramente dal Concilio di Trento. Anche a mio figlio di 9 anni sto insegnando tramite Carlo Acutis la stessa nozione dell’Eucaristia. Come è avvenuto per generazioni di cristiani. Chi si chiede cosa sia andato storto nel post concilio tanto che alcune innovazioni proposte dagli entusiasti novatori non sono attecchite non capisce che la Chiesa non è nata nel 1962. La Verità non si inventa, si riconosce. E quello proposto da Carlo è l’insegnamento più solido semplice e vero tanto che anche mio figlio lo segue e apprezza.
Le piante si vedono dai frutti. Non meravigliatevi quindi che le giovani generazioni seguano la tradizione, essa proviene da un albero sano. Ciò che proviene da alberi malati muore nel volgere di poche generazioni.
W Carlo Acutis e w la Chiesa. Gli altri se ne facciano una ragione…
La Madonna porti da Gesù tutti noi, preghiamola affinché muti i cuori e le menti degli intellettuali in quanto Dio ha innalzato gli umili
Mi stupisce (e non poco) come la discussione su Carlo Acutis si concentri su alcuni aspetti dimenticandone altri (il suo essere contro il bullismo o la sua grande attenzione per i poveri per fare degli esempi). Chissà perché…
Sinceramente la trovo proprio sgradevole, vengo dall’azione cattolica e trovo carino che Carlo sarà canonizzato insieme ad Acutis, da sempre molto amato in AC. Sono più simili di quanto sembra. E non capisco nemmeno perché la generazione di noi (ho pochi anni meno di Neri) boomer dovrebbe pretendere una qualche forma di esclusiva nell’educazione della fede. In primo luogo perché siamo la generazione che meno ha saputo trasmetterla, vedendo il deserto delle chiese attuali, non è necessariamente una colpa,, ma nemmeno un vanto. In secondo luogo penso che la santità sia certo figlia del suo tempo ma anche una risposta creativa ai problemi del suo tempo. Il padre di San Francesco era un mercante molto benestante, lui si è spogliato di tutto e il suo messaggio ha saputo superare i secoli proprio per questo motivo. Se fosse stato un bravo borghese si sarebbe arricchito come il padre . Non riesco a capire perché Acutis non possa essere originale come tante altre figure. Mi sembra una visione troppo scolastica. Tutti i santi che hanno resistito al nazismo allora, mentre le masse si sottomettevano? Secondo il pensiero di Grillo, Perroni, Neri sono strani anche loro, perché fuori dal loro tempo. Ma non è proprio questo il senso della tanto sbandierata “profezia”? Non adeguarsi alle mode ma andare oltre. Poi se sono rose fioriranno, se il culto di Acutis saprà parlare ai giovani di oggi, e non solo a qualche tradizionalista, lo vedremo. Al massimo rimarrà in una nicchia, quanta paura per niente…
Scusate insieme a Frassati. Non ho capito bene perchè tutto questo astio contro Acutis. Alla fine non sono due percorsi così diversi, ragazzi di buona famiglia che testimoniano una radicalità evangelica che va al di là del loro ristretto ambiente sociale. Al massimo si può dire che uno è tipicamente moderno e l’altro postmoderno: ma quindi? Se dobbiamo storicizzare i duemila anni precedenti per quale motivo non dovremmo farlo con gli anni ’60 del postconcilio?
Perché è l’immagine che i promotori della devozione hanno voluto dare: fin da subito si sono concentrati sulla sua spiritualità eucaristica (per esempio il famoso sito sui miracoli eucaristici) o, secondariamente, su altre cose come la sua avversione alla pornografia (ribadita più volte da sua madre, ma ridimensionata da vari compagni di classe e amici).
La sua ‘santità sociale’ è molto marginale nella sua agiografia.
Il fatto che la devozione di Acutis verso l’Eucarestia sia centrale in come è stato promosso il suo culto lo si vede anche dal sigillo della postulazione, che raffigura un Calice con l’Ostia.
Sono i promotori che hanno impostato il discorso in un certo modo, ora non possono lamentarsi di chi comincia a porre qualche domanda sulla loro narrazione.
Ma non è vero. O per lo meno è quello che alcuni ambienti fanno, ma non necessariamente tutta la Chiesa e tanto meno Bergoglio che lo ha canonizzato. Forse bisognerebbe leggere altro ogni tanto dalle pagine tradizionaliste, perchè si finisce per credere che rappresentino TUTTA la chiesa mentre sono un fenomeno molto marginalizzato.
https://www.laciviltacattolica.it/articolo/carlo-acutis-non-io-ma-dio/
https://www.settimananews.it/chiesa/caso-acutis-note-a-margine/#comment-134667
Articolo ( e libro) di Francesco Occhetta. Civiltà Cattolica è una voce ufficiale, sottoposta al vaglio della segreteria di stato. Quindi possiamo dire che questa è la versione ufficiale di chi ha scelto di canonizzare Acutis.
Grazie per l’articolo riportato, molto stimolante e completo
Trovo che sia Acutis che Frassati siano due figure affini che trasmettono molti valori positivi.
I suoi commenti anima errante sono sempre lucidi e razionali. Grazie.
Ringrazio l’autore dell’articolo perché ha saputo affrontare l’argomento in maniera chiara. Egli descrive una sua esperienza, vissuta negli anni del cosiddetto postconcilio. Il paragrafo finale qui richiamato da 68ina felice ci dice due cose però.
In primo luogo, che quell’esperienza pastorale, probabilmente, non aveva, teologicamente e pastoralmente basi adeguate; come tale, probabilmente, la sua attuazione, applicazione e diffusione è stata un po’ forzata …
In secondo luogo, chiudere l’articolo con questo paragrafo, e con i suoi contenuti, mi pare possa indirettamente denunciare una situazione: negli anni del postconcilio – e per certi aspetti anche più recentemente, come stanno dimostrando le vicende del cosiddetto sinodo o della formazione del Motu proprio “Traditionis Custodes” del 2021 – lo spirito dell’azione pastorale era uno spirito di re-indottrinamento, di rieducazione e, lo attestano numerosi episodi, di “lavaggio del cervello”, con, appunto, basi falsate (termine forte questo, ma provato nei fatti e dagli atteggiamenti dei cd novatori …).
E’ auspicabile che questa stagione, se non e’ finita, finisca presto. Confidiamoci.
Buona giornata!
La sociologia non ha ancora salvato nessuno!
Fatta eccezione per il conto in banca dei sociologi.
Forse tra gli addetti ai lavori se ne sarà parlato, ma personalmente prima dell’intervento di Grillo non avevo mai sentito particolari dibattiti.
Al 4 o 5 articolo in ogni caso si smette di seguire, mi pare difficile trovare nuove argomentazioni.
Mi convinco sempre di più che occorre impedire canonizzazioni affrettate.
La chiesa, per essere al passo con i tempi, arriva sempre in ritardo.
Vale per Carlo Acutis, per le schitarrate tipo Ricchi e Poveri durante le celebrazioni liturgiche e per la moda di fare santi tutti i papi da Giovanni XXIII in poi.
Allora facciamo passare almeno cinquant’anni dalla morte prima di aprire un processo di canonizzazione, sarebbe un bel gesto di prudenza.
Infine una breve osservazione.
Mi pare che per la proclamazione della santità occorrano dei miracoli, delle guarigioni inspiegabili da un punto di vista scientifico.
Questo aspetto non è stato neppure lontanamente affrontato durante la discussione su Carlo Acutis.
Questi miracoli sono veri? Sono inventati?
Saluti.
Leggiamo: “vi è un capitolo della storia pastorale della Chiesa di Milano che rimane ancora tutto da scrivere, per cercare di comprendere perché e in quali modi, nell’arco di una sola generazione, il tentativo di dare forma a una devozione condivisa, comune e accomunante, si è sostanzialmente dissolto nel nulla”. Magari ci si interrogasse seriamente su questo aspetto… Invece facciamo le pulci alla vicenda di un giovane beato, testimone della vitalità di una devozione eucaristica che dura da secoli, nonostante i recenti tentativi di sabotaggio