Cattolici in Turchia

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La Chiesa cattolica in Turchia è parte della Chiesa cattolica universale, in comunione con il vescovo di Roma, il papa. I cattolici sono circa 60.000, pari allo 0,07% della popolazione, per la stragrande maggioranza islamica. La Chiesa cattolica di rito latino comprende l’arcidiocesi di Smirne, il vicariato apostolico dell’Anatolia e il vicariato apostolico di Istanbul. C’è vicinanza e collaborazione con la Chiesa cattolica armena, caldea, greca e sira che hanno riti propri. Vi sono inoltre altre minoranze cristiane, fra le quali particolare importanza storica hanno gli ortodossi legati al patriarcato di Costantinopoli.

Abbiamo incontrato Martin Kmetec, arcivescovo di Smirne e attuale presidente della Conferenza episcopale. Gli abbiamo sottoposto alcune domande per capire il percorso che questa Chiesta sta compiendo.

– Mons. Martin, che cosa sta caratterizzando la Chiesa cattolica in Turchia?

La Chiesa latina e orientale ha vissuto un periodo di affaticamento, perché la popolazione che apparteneva a questa Chiesa o è morta oppure si è trasferita. Non c’erano nuovi ingressi nelle comunità. Inoltre, non si vedeva il senso di una presenza di religiosi e religiose in una realtà tanto arida.

Per non parlare della crisi delle vocazioni. Attualmente si è superata questa idea dell’inutilità delle presenze e della missione ed è cominciato un periodo nuovo per la Chiesa in Turchia.

– Quale è stato lo stimolo che ha generato il cambio di prospettiva?

La percezione che la modernità ha in sé grandi limiti, soprattutto la questione e il senso della libertà. La libertà è un grande bene e un diritto umano fondamentale. La grandezza della cultura moderna la può garantire. Ma quando si tratta del senso della libertà, questa cultura ci lascia con la nostra fame. Dice che siamo liberi, ma non dice che cosa dobbiamo fare. Rilancia sempre la palla dicendo fai quello che vuoi.

L’obiettivo e il progetto della modernità sono l’emancipazione e il progresso. È la forza di questa cultura ma, allo stesso tempo, è il suo limite. È come se lo stesso progresso contenesse il senso dei miei impegni e di tutto quello che possiamo realizzare. Io penso che il vero progresso deve promuovere ogni uomo e tutto l’uomo.

– Più concretamente…

Noi sentiamo che siamo chiamati a sperare contro ogni speranza, a lavorare contro ogni aspettativa di ricompensa immediata. Penso che questo atteggiamento abbia dato i suoi frutti, perché è cresciuto l’interesse nelle comunità religiose, sono state inviati nuovi sacerdoti, religiosi e religiose liberi dal bisogno di una missione legata ai risultati. La cosa che incoraggia di più e la richiesta da parte di turchi e altri di entrare a far parte della Chiesa cattolica.

Formazione catecumenale

– Si è quindi resa necessaria la formazione dei catecumeni?

Proprio così! In questi ultimi anni abbiamo avuto una fioritura di presenze interessanti. Questo per noi è un grande segno di prospettiva per il futuro della Chiesa in Turchia.

Una recente indagine tra le nostre chiese dice che i catecumeni in questo periodo sono in crescita. Davvero una bella iniezione di fiducia.

– In questi giorni abbiamo riflettuto sul catecumenato. Che forza può avere questa istituzione nelle vostre Chiese?

Il catecumenato è importante perché ci fa riscoprire che il cristianesimo è un cammino. Vivere la fede cristiana non è qualcosa di acquisito per sempre. Ci fa capire che la Chiesa senza missione non può esistere. Io penso – e l’ho detto ai cristiani – che, se ognuno, quando rientra a casa, prendesse la decisione di invitare una persona alla messa, ripetendo questo due tre volte al mese, due tre volte all’anno, questo sarebbe già missione.

Ma non lo facciamo perché abbiamo vergogna. Questo l’hanno istillato i governi comunisti, che hanno basato tutta la loro filosofia sul principio della vergogna. Tanta vergogna è presente tra i cristiani. Lo stesso atteggiamento persiste tutt’ora.

– Dunque, è importante sviluppare un minimo di struttura per far fronte alle difficoltà di una presenza nettamente minoritaria?

Nessuna religione può esistere e sopravvivere senza un minimo di organizzazione e di strutture. L’istituzione è indispensabile. Secondo questo punto di vista, la Chiesa deve continuamente adattarsi. Deve imparare a meglio rispondere ai bisogni sul nostro tempo, a meglio corrispondere alle attese dell’uomo d’oggi.

La missione è semplicemente un modo di apportare il nostro contributo alla costruzione di una società più umana e fraterna. Sento che i cristiani sono chiamati a rispondere all’appello della loro fede, proponendosi come cittadini che vogliono vivere e costruire il loro paese insieme agli altri, per mostrare che ci sono altri cammini verso Dio. Noi siamo chiamati a testimoniare la fraternità universale.

– Ma tutto questo chiede preparazione e formazione, non si improvvisa una presenza efficace.

Certamente questo è da prendere in considerazione. Torno al catecumenato perché, oltre a ricordarci la missione, ci impegna a lavorare sulla formazione catechetica, umana, spirituale.

Questa dimensione formativa non vale solo per quelli che diventano cristiani, ma vale anche per la vita religiosa e il celibato dei sacerdoti. In molti casi, si intraprende una vita disordinata, perché non si è arrivati alla consapevolezza che occorre una formazione continua. Per questo, almeno per i cristiani che sono più vicini, sono da favorire sempre più le possibilità per una formazione.

Catechesi e società

– Sentite la necessità di investire sulla formazione?

Quello che anche lei ha vissuto è il primo convegno unitario degli operatori pastorali e dei catechisti organizzato dalle Chiese latine. Sento che dobbiamo investire sulla formazione dei catechisti laici e con le persone che sono capaci di riflettere sulla Chiesa e di lavorare per la Chiesa. Dobbiamo dare continuità alla formazione che abbiamo iniziato in questi giorni.

Questo è un seme, ma penso che ci voglia una settimana di formazione per i nostri catechisti. E penso a una settimana strutturata nella logica laboratoriale per renderli capaci di una trasmissione viva della proposta evangelica. Sento la necessità di dare alle persone pochi mezzi, ma utili per poter fare la catechesi. Questo è essenziale. Non c’è bisogno di grandi teorie. Se avrò la possibilità anche materiale di farlo, il prossimo anno organizzerò un’intera settimana di formazione.

 – Forse c’è bisogno di un inserimento vivo anche nel tessuto sociale per rendere visibile il servizio che fate.

Il cristianesimo non ha il monopolio sul soggetto, ma è realmente sorgente di impegno, di speranza e di senso. L’evangelo che la Chiesa proclama è la buona notizia dell’umanità di Dio. L’invito all’umanità e alla fraternità universale appartiene all’essenza del cristianesimo.

È evidente che il vangelo ci impegna nella nostra vita personale, ma la fede in Cristo ha anche un impatto sociale. Noi non viviamo ognuno per conto suo. L’uomo è un essere sociale, chiamato alla solidarietà, il vangelo non riguarda solamente la dimensione religiosa dell’esistenza.

La Chiesa non ha alcun potere politico, ma è dentro il mondo ed è là che vuole essere presente e operare con le altre religioni e con tutti gli uomini di buona volontà per realizzare un mondo più giusto e umano.

– Ritiene sufficiente la disponibilità di volontari in impegni che chiedono un notevole investimento di energie?

I catechisti per la maggior parte sono volontari. Questa è una situazione molto positiva. Ma ci sono altri servizi nella Chiesa che sono a pagamento. Non abbiamo altra possibilità, anche per sostenere la vita delle persone come cristiani in questa terra. Ci vuole anche questo aspetto.

Non possiamo chiedere una gratuità assoluta, ma possiamo chiedere un lavoro svolto con responsabilità. Per esempio, quelli che lavorano per la Caritas sono pagati, ma lo fanno con spirito di servizio. Abbiamo una consacrata che svolge un ministero clericale, occupandosi di una chiesa e di una comunità come un sacerdote, e fa un bellissimo servizio.

– Prima la cultura sosteneva la religione, adesso invece segna il passo.

È realmente difficile ridefinire la relazione con la cultura. Molto difficile. D’altra parte, il cristianesimo non può posizionarsi in uno spazio vuoto. Penso che questo aspetto corrisponda a quanto ci chiede il papa, sollecitando l’aiuto ai profughi, l’attenzione all’umanità. Bisogna andare oltre la cultura per cercare la persona umana. Ciò è richiesto dall’incarnazione.

Attenti all’umano

– L’attenzione all’umano è un grande passaggio richiesto dal papa.

C’è la Chiesa perché Dio la vuole. È vero che Dio è alla ricerca dell’uomo e, se si ha il desiderio di incontrare e di condividere, è là che bisogna cercare l’origine e la ragion d’essere della Chiesa.

È così che Dio si fa conoscere, non come l’origine anonima del mondo, ma come creatore. Non è solo colui che dona la vita, ma anche colui che vuole condividere la sua vita con noi. È il grande desiderio di Dio. Creazione e rivelazione hanno come obiettivo l’alleanza.

– Nella logica dell’attenzione all’uomo, quali sono le sfide più urgenti che vi stanno davanti?

Le sfide sono diverse per ogni diocesi. Parlo per le diocesi latine. Per il vicariato dell’Anatolia attualmente l’emergenza più grande è il terremoto che ha veramente annullato la presenza dei cristiani. Ad Antiochia, la cattedrale è distrutta e anche le altre chiese sono distrutte. Si potrebbe dire che è un tempo tragico per quella Chiesa. Questa è la prima sfida.

Anche in altre diocesi c’è la sfida di ricostruire e di ricominciare un nuovo cammino. La diocesi di Smirne ha avuto il terremoto nel 2020 e la maggior parte delle chiese sono state danneggiate. La chiesa di san Policarpo, luogo importante di pellegrinaggi e di memoria, non è ancora pienamente agibile.

Per Istanbul c’è la ricerca di nuovi spazi per la missione. In una città con poco meno di venti milioni di abitanti, i sono cristiani dispersi. Veramente si sta cercando di allargare la tenda.

– Oltre alla sfida logistica, c’è qualcosa di più urgente?

Non deve fermarsi l’elaborazione di una visione di Chiesa. Abbiamo bisogno dell’aiuto dei sacerdoti in questo momento perché non ci sono vocazioni autoctone. La sfida per la Chiesa è di non essere troppo occidentale, di non essere una Chiesa “istituzione”, ma una Chiesa di presenza, di missione. E poi la formazione.

Le comunità non si ingrandiscono mediante il proselitismo, ma mediante l’attrazione. La Chiesa non si può comprendere che nel suo essere legata al mondo nel quale essa vive. È “dentro” il mondo come popolo di Dio. Essa è solidale con la sorte dell’umanità. Non si può essere cristiani senza essere solidali.

Cristiani in un paese islamico

– Non c’è il rischio di scomparire dentro una realtà che è maggioranza?

La vera questione non è quello di sapere se la Chiesa sarà capace di conservare o meno il numero attuale dei suoi membri. La vera questione è sapere se può attirare nuovi membri.

È in ordine a questo che si riconosce la vitalità di una Chiesa, non tanto riferendosi al numero di membri che ancora raggiunge, ma al fatto che qualcuno, interamente integrato nella cultura di oggi, venga toccato dalla verità, dalla forza e dalla bellezza dell’evangelo.

– In tal senso, che impatto si ha nel rapporto col mondo islamico?

Non è facile, siamo una minoranza assoluta. Noi quello che abbiamo potuto fare è stato caratterizzare la nostra presenza con piccoli gesti. Abbiamo avuto un incontro con l’Imam per la fine del Ramadan, sono andato a visitare il mufti e lui è tornato per dirci grazie. Poi si è istituita la giornata della fraternità che abbiamo incominciato a sviluppare il 4 gennaio. L’anno scorso abbiamo portato al sindaco la traduzione in turco di Fratelli tutti, di papa Francesco. La municipalità ha valorizzato l’evento.

Quest’anno abbiamo indetto una conferenza e abbiamo invitato tutti i rappresentanti delle religioni – circa 50 persone, anche qualche console presente a Smirne – e abbiamo parlato dell’importanza di lavorare per la pace, per l’intesa sociale, e poi abbiamo piantato un ulivo. Sono piccoli gesti che, da parte nostra, possiamo fare. Con il terremoto abbiamo collaborato con la Caritas Anatolia.

– L’ondata di laicismo che ha invaso l’occidente influisce anche sul mondo islamico?

Penso di sì. Materialismo e ateismo pratico influiscono sicuramente. L’islam non è una religione di ascesi, anche se il digiuno del Ramadan può far pensare il contrario.

L’ortoprassi, l’astenersi da bevande alcoliche, il non mangiare carne di maiale, serve per creare un’appartenenza di base. Ci sono persone che sono convinte di questo, ma anche quelli che si proclamano molto credenti non compiono tutte le pratiche.

La gioventù oggi è influenzata molto dalla società consumistica. Si può dire che in Turchia molti giovani, che pure si definiscono “teisti”, non si interessano della religione.

Sentiamo comunque che i credenti musulmani sono nostri concittadini. È assurdo voler ignorare questo fatto. Nostro compito è di vivere insieme e di costruire una società umana nella diversità delle convinzioni. Il limite non è l’islam in sé stesso, il limite è che l’islam diventa per molti la sola opzione religiosa.

– Un sogno, oltre quello della formazione.

Il mio sogno è di allargare gli spazi per la missione. In diocesi ci sono punti che sono scoperti territorialmente. Sogno di avere una presenza religiosa vicino a Efeso. Per esempio, nel triangolo Colossi, Laodicea e Gerapoli, ci vorrebbe una presenza religiosa per l’accoglienza dei pellegrini.

Un convento, un centro spirituale, una cappella per poter accogliere gruppi che chiedono di poter celebrare la messa. Poi la costa è scoperta durante l’estate. Ci sono tanti turisti, ma non abbiamo ancora potuto organizzare una pastorale per loro.

In conclusione, sento di poter dire che la missione non può essere confusa con la restaurazione di una civilizzazione cristiana omogenea. La Chiesa è la comunità dei cristiani e non la raccolta di tutta la popolazione. Ci troviamo a nostro agio nella ricerca e nella realizzazione della fraternità.

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Un commento

  1. Gian Piero 29 maggio 2023

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