Cinque parole per il nostro tempo

di:

cosentino

«Al cuore dell’evento cristiano c’è un ricominciamento: la risurrezione di Gesù. Essa spezza i vincoli della morte e decreta definitivamente la fine del suo potere. È un ricominciamento che cambia per sempre la traiettoria della storia e la direzione della nostra vita: d’ora in poi, non c’è più fine. Anzi, la fine si è già compiuta ed è un inizio sempre nuovo. Dentro ogni morte della nostra quotidianità, ogni filo spezzato, ogni crisi, ogni fallimento che sembra segnare la fine, si nasconde in realtà il verdeggiare di una nuova foglia che cresce e lo splendore di una nuova gemma che spunta. Dentro ogni morte c’è la vita e tutto ciò che può sembrarci una fine non è altro che un modo nuovo per ricominciare. Un nuovo inizio».

Ricominciare

Lo scrive Francesco Cosentino, docente di teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana e officiale presso la Segreteria di Stato della Santa Sede, nella parte conclusiva (pp. 135-136) del suo ultimo libro Ricominciare. Parole buone per il nostro tempo (Edizioni San Paolo 2023). Un saggio di grande attualità e rilevanza sotto il profilo sia ecclesiale sia sociale, dalla scrittura chiara e a tratti poetici, aliena da pesantezze di tipo accademico, che potrebbe anche avere come titolo Risurrezione. Parole necessarie per tempi difficili.

Ricominciare, un verbo tipicamente cristiano! Non si è mai cristiani, infatti, ma si è sempre in cammino per diventarlo. Essere cristiani non è uno status, ma un processo. Come scrive Gregorio di Nissa nelle Omelie sul Cantico dei cantici, chi aspira ad essere cristiano «non si ferma mai, va di inizio in inizio, secondo inizi che non finiscono mai».

Esattamente come diceva nel III – IV secolo dell’era cristiana abba Antonio, il padre dei monaci del deserto egiziano, il quale, ormai ultranovantenne, a chi gli chiedeva «cosa fai oggi, Antonio?» rispondeva «oggi ricomincio».

O come direbbe Erri De Luca in Ora prima (Edizioni Qiqajon, Magnano 1997, pag. 7): «credente non è chi ha creduto una volta per tutte, ma chi, in obbedienza al participio presente del verbo, rinnova il suo credo continuamente». Perché vivere la fede in modo conforme all’Evangelo è un obiettivo che sta sempre davanti a noi.

Siamo stanchi

Tempi difficili, i nostri. Tempi segnati dal deleterio vizio capitale dell’accidia che paralizza la vita, narcotizza la coscienza e fa galleggiare in qualsiasi palude. Tempi abitati da gente disfattista, rassegnata, scoraggiata, incline al lamento, rinchiusa nel carcere del tirare a campare (p. 8). Tempi di passioni tristi, di aspettative deluse, di ideali che cozzano contro la dura realtà di ogni giorno, di sogni e di progetti che non si realizzano (p.18). Tempi di conflitti, divisioni, violenze di vario genere, rancore, odio, pregiudizio (p. 67). Tempi di parole che si trascinano senza smalto che lasciano fredde e indifferenti le persone. «Oggi la nostra grande fatica riguarda il sentimento di sfiducia e di disincanto che attraversa il nostro tempo, la nostra cultura e, in generale, le nostre società occidentali» (p.16).

Più che mai, allora, «abbiamo bisogno di parole buone per ricominciare sempre. Parole e storie che, dal respiro infinito della Parola di Dio, parlano alla nostra vita e la trasformano» (p. 11). «Parole che liberano e che salvano, parole che fanno tacere il male, parole che incoraggiano e rialzano» (p. 87). Parole ispirate da pensieri buoni, capaci di generare certo gesti e segni pienamente umani, ma anche scelte profeticamente evangeliche (p. 139).

Nel suo saggio, Francesco Cosentino, richiamando il contenuto di alcune emblematiche pagine evangeliche e facendo spesso riferimento al magistero di papa Francesco, ce ne segnala cinque: fiducia, speranza, riconciliazione, trasformazione e inquietudine.

Fiducia

La prima parola che ci è di aiuto per ricominciare è fiducia, una risorsa che abita nel nostro io più profondo e che non viene meno «nonostante gli imprevisti della vita e le tempeste che si abbattono su di noi» (p. 13).

Parola senza la quale ricominciare si rivela un’arte semplicemente impossibile (p. 20).

“Fiducia” è quasi un sinonimo di “fede”: «indica sia una relazione con una persona che uno sguardo nuovo sulla realtà» (p. 21). Nel quarto Vangelo leggiamo che «chi crede ha la vita eterna» (Gv 6,47): anche nelle circostanze e nelle situazioni esteriori negative «chi ha fiducia ha uno sguardo nuovo, sa guardare alla realtà in modo più profondo, sa andare oltre, perciò vince la morte» (p. 21).

Fiducia che, come insegna la pagina evangelica dell’incontro tra Gesù e Natanaele, vuol dire anche disfarci dei pregiudizi che ci impediscono di vedere il vero volto degli altri (p. 31).

«La sorgente prima e ultima della fiducia, però, è Dio. La fiducia in Lui è un dono che nasce e si riceve lentamente, nella preghiera e nell’esperienza della fede. Se perseveriamo, questo può diventare il punto più incrollabile della nostra vita: può succedere di tutto, ma io sono nelle braccia di Dio e sono tranquillo e sereno, come un bimbo in braccio a sua madre (Sal 131,2)» (p. 27).

Peraltro, porre fiducia in Dio non significa assumere atteggiamenti di passività di fronte a ciò che è nelle nostre possibilità (pp. 27-28): «la relazione con Dio, la vita cristiana, la preghiera non sono un tranquillante o un pacifico paradiso terrestre. La vita di Gesù è stata una lotta per affermare il Regno di Dio in mezzo ai violenti, per far germogliare il seme buono in un campo nel quale, di notte, l’avversario seminava la zizzania, per strappare l’uomo dalle potenze del male e il mondo dalle oscurità delle tenebre» (p. 38).

Speranza

Parente stretta della fiducia è la speranza.

Una parola di cui facciamo esperienza quando smettiamo di guardare solo la punta del nostro naso o delle nostre scarpe pensando che il mondo finisca con noi e iniziamo a guardare oltre, a scrutare l’orizzonte, a pensare in grande, a credere che la vita è di più (pp. 45-46).

«La speranza è ciò che si muove dentro di noi quando le sfide della vita ci interpellano e quando siamo prostrati dal senso della sconfitta e del fallimento» (p. 47). È ciò che ci impedisce di «restare seduti ad aspettare che le cose accadano senza di noi», ed è ciò che ci esorta a diventare invece «i protagonisti creativi della nostra vita» (p. 47).

Per i cristiani, la speranza non è sinonimo di ottimismo, anche se con l’ottimismo umano ha qualcosa in comune (p. 49): sperare è essere certi che «dietro il viaggio, a volte difficile, c’è Qualcuno che ha un progetto di bene per noi e guida la nostra vita e la storia dell’umanità» (p. 50).

Vita e scorrere del tempo possono essere guardati in due modi: dal passato e dal futuro. Guardandoli al passato, «si vive solo di rimpianti, nella nostalgica tristezza di ciò che abbiamo perduto, che non c’è più, che non ritornerà». Guardandoli invece dal futuro, «si guarda la vita in avanti, si scruta l’orizzonte, si cercano ancora le stelle, si coltivano desideri e progetti, nella ferma certezza che, se anche adesso procedo brancolando nel buio, è il futuro stesso a venirmi incontro e rischiarare la notte» (p. 54).

Come insegna la parabola evangelica delle dieci vergini, è necessario restare vigilanti nella speranza per «non intorpidire il vigore della vita» (p. 56). Il vero pericolo «non è quello di sbagliare o di cadere, ma quello di non vivere più perché ci siamo addormentati «per stanchezza o per sfiducia, per essere stati feriti o delusi, per timore di guardare in faccia la realtà o per esserci ormai adagiati nella superficialità» (p. 57).

La sfida è tra il vivere accesi o il vivere spenti. «Essere coloro che cercano ancora, che sperano, che sognano, che costruiscono, che si impegnano, oppure quelli che non cercano più e non attendono più nulla dalla vita; essere quelli che vivono la vita con il fuoco della passione e dell’entusiasmo oppure essere fiamme smorte» (pp. 65-66).

Riconciliazione

Uno degli aspetti che caratterizzano ogni convivenza è l’incontro e lo scontro fra vedute e progetti differenti; fonte pertanto di «conflitti» fra le persone.

Il conflitto non gestito potrebbe trasformarsi in vere e proprie guerre. Questo accade a tutti i livelli: stato e società civile, comunità cristiane e famiglie. Tra i quattro princìpi o criteri-guida che servono al discernimento in vista di giungere a scelte oculate per un’ordinata vita sociale ed ecclesiale, papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, colloca anche quello relativo alla gestione dei conflitti, scrivendone in termini quanto mai condivisibili: «Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma, se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata» (n. 226). Il modo più adeguato di porsi di fronte al conflitto è accettare di sopportarlo, cercando di «risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (n. 227).

Noi umani – scrive Francesco Cosentino – abbiamo una «struttura bipolare, perché, insieme all’amore e alla bontà, in noi convive un contenuto di aggressività» (pp. 68-69), con il grano buono troviamo la zizzania, con la luce angoli di buio, con la fedeltà tracce di infedeltà, con la generosità esempi di egoismo (p. 82). Il conflitto – che, di per sé, non è né un bene né un male – fa parte della nostra vita (p. 69): «non deve né irrigidirci né spaventarci» (p. 71).

Per ricominciare, abbiamo dunque bisogno anche di riconciliazione.

Una parola il cui etimo latino rimanda a «richiamarsi», «cioè chiamarsi nuovamente dopo che, magari, si è venuta a creare una distanza. E se due sono distanti e si riavvicinano, è così tanta la tensione per il duro momento vissuto e l’emozione per l’amicizia rifiorita, che c’è bisogno di un gesto capace di sancire quella riconciliazione» con un abbraccio o con un pianto liberatore (pp. 72-73).

Riconciliarsi non significa raggiungere una purezza ideale o un’astratta perfezione, ma discernere gli ostacoli che impediscono al fiume della vita di scorrere in modo fluido (p. 82).

Trasformazione

La quarta parola suggerita da Cosentino per ricominciare è trasformazione.

Una parola «poco usata nel nostro linguaggio, nella catechesi e nella stessa predicazione cristiana» (p. 96). Parola affine, ma non equivalente, al termine «conversione» che, nel senso evangelico, significa cambiamento di mentalità e, quindi, cambiamento di direzione della nostra vita (p. 96).

«La vita non è un museo in cui sistemare e conservare, ma un fiume che scorre, una strada da percorrere, un viaggio da compiere, un passaggio da attraversare» (p. 89). «Rompere le abitudini (…) è la rivoluzione più difficile e più importante della nostra vita» (p. 91). Se ci abituiamo all’altro, non siamo più in grado di stupirci della sua presenza; se ci abituiamo «al degrado, alla violenza, alla guerra, a tutto ciò che invocherebbe un sussulto di umanità e di profezia», finiamo col ritenere che tutto ciò sia «semplicemente diventato normale» (p. 93).

Nella lettera ai Romani Paolo scrive: «Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformate la vostra mente per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rom 12,2). Commenta Cosentino: «Chi nella vita non cambia mai e non si lascia trasformare, finisce per conformarsi, per accomodarsi, per prendere la forma delle abitudini e delle ovvietà» (p. 102).

«La fede non è un vecchio abito impolverato che ogni tanto dobbiamo tirar fuori dall’armadio, ma è qualcosa che ha a che fare con la creatività, con il movimento della fantasia e dell’inventiva» (p. 109): il suo cammino «è una permanente trasformazione della nostra vita» (p. 96).

Inquietudine

La quinta parola in grado di affinare in noi l’arte di ricominciare è inquietudine.

Una parola che, «specialmente dinanzi alle tante lacerazioni e ferite della nostra società, ci fa avvertire un senso di disagio, una protesta dell’anima, una santa ira che ci muove e ci spinge ad agire» (p. 118). «Se c’è una malattia dell’anima che forse più di altre rischia di risucchiare le energie migliori della nostra vita, spegnendo gli entusiasmi, uccidendo i sogni, consegnandoci alla prigione della monotonia, questa è l’assenza di inquietudine» (p. 118).

Quella cristiana «non è una vita perfetta, statica, in cui tutto è sistemato; ma, al contrario, è una vita inquieta perché cambia ogni giorno, si converte ogni giorno, si trasforma ogni giorno» (p. 102). C’è una «neutralità che, dietro l’apparenza del quieto vivere e di una pace a mantenere, rischia di essere una delle arti più anticristiane: essa, infatti, nutre l’atteggiamento di chi non prende posizione, non si schiera, non si compromette mai per galleggiare sempre. E così alimenta le ingiustizie e le oscurità del mondo» (p. 117).

«È bello poter guardare alla fede cristiana in questa prospettiva: non una pace sonnolenta, una spiritualità anestetizzante, un fumo che stordisce per annebbiare la passione e spegnere le trepidazioni della vita dentro di noi, ma, al contrario, un piccolo fuoco acceso che ci brucia dentro e ci fa essere inquieti: verso noi stessi e la ricerca della nostra verità, verso gli altri per il desiderio di amarli e servire la loro felicità, verso la società per lottare contro tutto ciò che degrada la bellezza del creato e ferisce la dignità delle persone» (pp.125-126).

Nell’omelia pronunciata il 6 gennaio 2023 in occasione della solennità dell’Epifania del Signore, papa Francesco ci ha ricordato che il primo luogo in cui il Signore Gesù ama essere cercato e incontrato è proprio l’inquietudine delle domande. «Il cammino della fede inizia quando, con la grazia di Dio, facciamo spazio all’inquietudine che ci tiene desti; quando ci lasciamo interrogare, quando non ci accontentiamo della tranquillità delle nostre abitudini, ma ci mettiamo in gioco nelle sfide di ogni giorno; quando smettiamo di conservarci in uno spazio neutrale e decidiamo di abitare gli spazi scomodi della vita, fatti di relazioni con gli altri, di sorprese, di imprevisti, di progetti da portare avanti, di sogni da realizzare, di paure da affrontare, di sofferenze che scavano nella carne. In questi momenti si levano dal nostro cuore quelle domande insopprimibili, che ci aprono alla ricerca di Dio: dov’è per me la felicità? Dov’è la vita piena a cui aspiro? Dov’è quell’amore che non passa, che non tramonta, che non si spezza neanche dinanzi alle fragilità, ai fallimenti e ai tradimenti? Quali sono le opportunità nascoste dentro le mie crisi e le mie sofferenze?».

Scrive Francesco Cosentino: «È vivo solo chi si lascia interrogare da queste domande. Gesù stesso ce le pone nel Vangelo, perché il cuore non si addormenti e non si arresti il nostro cammino» (p. 127).

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